Roma. Dopo la rivoluzione del ’79 in Iran arrivò la crisi degli ostaggi americani. Dopo la rivoluzione dell’anno scorso ora c’è una crisi con “ostaggi” americani anche in Egitto. Diciannove imputati con l’accusa pretestuosa di lavorare per organizzazioni non governative straniere, finanziate con soldi di Washington, che non possono lasciare il paese, sono rifugiati nell’ambasciata al Cairo e aspettano l’inizio di un processo penale che può finire con una condanna tra i sei mesi e i cinque anni di detenzione (da scontare nelle galere egiziane). La crisi che minaccia di far divorziare Egitto e America è stata creata dagli estremisti salafiti? Oppure da una manovra dei Fratelli musulmani? No. E’ stata cercata da una donna e boiardo di stato, Fayza Aboul Naga, tecnocrate occidentalizzante con filo di perle e senza velo nominata ministro per la Cooperazione internazionale da Mubarak e sopravvissuta al suo posto fino a oggi attraverso tre governi. Il 29 dicembre scorso Aboul Naga è riuscita a ottenere un raid simultaneo nelle sedi di dieci organizzazioni non governative al Cairo. Julie Hughes dirige la sezione egiziana del National Democratic Institute e lo descrive a Newsweek: “Ho ricevuto una chiamata dall’ufficio che l’organizzazione ha nel sud del paese, stavano subendo un blitz della polizia. Trenta secondi dopo una dozzina di uomini, la metà armata con fucili kalashnikov, ha fatto irruzione da me. Altre squadre si sono occupate degli uffici ad Alessandria e Assiut. E’ stato impressionante dal punto di vista logistico. Ho chiamato al telefono il nostro avvocato locale e l’ambasciata e un uomo con gli occhiali scuri mi ha detto di riagganciare. ‘Sono una cittadina americana’, ho detto, e lui ‘Metti giù o ti prendiamo anche il telefonino’. Hanno ammassato computer, telefoni, carte, denaro, per sei ore. Alla fine ci hanno chiesto se avevamo scatoloni di cartone per portare via tutto”. Dopo i raid, l’ambasciatrice al Cairo Anne Patterson ha invitato gli americani a rifugiarsi in ambasciata, che gode dell’extraterritorialità, per scampare ai rigori di eventuali arresti cautelari. Il commento migliore è di Elliot Abrams, del Council on Foreign Relations (lavorava alla Sicurezza nazionale quando alla Casa Bianca c’era George W. Bush), il 30 gennaio: “Americani non possono lasciare il paese? Rifugiati in un’ambasciata, dietro i marine? Piuttosto strano per un paese che ogni anno riceve dagli Stati Uniti 1,3 miliardi di dollari in aiuti militari (…). La persona responsabile è identificabile senza dubbio, basta leggere i giornali: Fayza Aboul Naga. Le ong democratiche sono per lei un’ossessione che dura da lungo tempo. Io farei così: le darei fino a venerdì per risolvere la situazione, poi le negherei per sempre il visto d’ingresso agli Stati Uniti”. La replica è arrivata domenica, con l’incriminazione ufficiale dei 19, e tra loro anche di Sam LaHood, figlio del vicesegretario dei Trasporti del governo americano. Il Cairo ha da sempre una relazione cattiva con le ong. Nel 2004 il Congresso americano si ribellò alla norma egiziana che imponeva che i fondi donati dai paesi esteri fossero prima incassati e poi smistati a suo volere dallo stato arabo e cominciò a mandare finanziamenti diretti alle casse delle ong, scatenando la reazione di Aboul Naga, già al potere, che ne fece una questione di lesa sovranità nazionale – in realtà avrebbe voluto mantenere il controllo governativo sul fiume di soldi americani. Nel 2009 l’Amministrazione Obama, desiderosa di inaugurare un nuovo corso con gli arabi, capitolò e acconsentì a finanziare soltanto le ong indicate dal Cairo (che alle elezioni 2010 comunque presero di mira l’arcinemica Aboul Naga, accusandola di comprare voti). Dopo la rivoluzione dell’anno scorso, liberi tutti: l’America ha considerato la norma non più valida ed è tornata a finanziare le ong senza chiedere permesso, come se fosse arrivata la democrazia. Fino a quando Aboul Naga, che Newsweek descrive intelligente e devota alla vendetta personale, non ha ottenuto le perquisizioni e le incriminazioni. Il ministro non sopporta neppure il fatto che gli Stati Uniti conteggino nel computo generale degli aiuti anche quelli dati alle ong: li considera soldi del governo egiziano caduti nelle mani sbagliate. Sia la Casa Bianca sia il Congresso avvertono che gli aiuti militari da 1,3 miliardi di dollari e gli aiuti civili per 250 milioni di dollari entro marzo sono a rischio. Il governo egiziano sceglie ufficialmente il tono di sfida: “Non possiamo interferire con una indagine puramente giudiziaria su una violezione delle nostre leggi”. Reuters cita due funzionari egiziani anonimi che sostengono che tutto s’aggiusterà, perché il paese – che brucia valute di riserva straniera al ritmo intollerabile di 2 miliardi al mese – è troppo bisognoso di aiuti.
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