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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.01.2012 Siria (stragi) e Libano (unifil), due aggiornamenti
gli articoli di Lorenzo Cremonesi, Maurizio Caprara

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 gennaio 2012
Pagina: 20
Autore: Lorenzo Cremonesi-Maurizio Caprara
Titolo: «Nel bastione del clan degli Assad, ultima trincea del regime-Libano paese chiave, l'Italia ha il dovere di restarci»

Sul CORRIERE della SERA di oggi, 29/01/2012, a pag.20, continua il reportage di Lorenzo Cremonesi dalla Siria. Nella stessa pagina Maurizio Caprara, inviato in Libano, intervista il Ministro degli Esteri De Paola.
Ecco gli articoli:

Lorenzo Cremonesi: "Nel bastione del clan degli Assad, ultima trincea del regime"

DAL NOSTRO INVIATO
QARDAHA — Il mausoleo ottagonale domina il centro del villaggio come un tragico memento di morte e allo stesso tempo di nostalgia per un passato più felice. Il marmo bianco e nero è tirato a lucido ogni giorno da un ampio stuolo di guardiani. Le cupole bombate ricordano quelle delle moschee iraniane. Al centro sta la tomba di Hafez Al Assad, il padre della patria, il patriarca della Siria contemporanea, il fine politico celebre per la sua capacità di trasformare la debolezza in forza, tanto da imporre dal 1970 sulla maggioranza sunnita (oltre il 70% dei siriani) il governo della minoranza alawita che non supera il 12% della popolazione. Ai lati stanno le tombe dei due figli scomparsi prematuramente. Majid, deceduto per malattia due anni fa. E Basel, morto in un incidente d'auto nel 1994. Sui muri esterni pendono sgualcite dalla pioggia alcune fotografie dell'attuale presidente Bashar, che studiava da oftalmologo a Londra quando 18 anni fa venne richiamato precipitosamente in Siria per intraprendere la carriera militare e impratichirsi con i bizantinismi della dittatura.
Ma nel mausoleo si vedono soprattutto le immagini di Hafez a braccetto di Basel vestito da alto ufficiale, il petto coperto di medaglie, il viso abbronzato, sorridente. Era lui il prescelto del padre. Lui avrebbe dovuto essere la guida del futuro. Ancora oggi raccontano con discrezione nella capitale che la scomparsa del successore predestinato gettò Hafez in una gravissima depressione. Bashar fu un ripiego, probabilmente l'unico possibile. L'altro fratello «papabile», Maher, generale della Quarta brigata, è considerato troppo duro, anche se qui ora molti lo vorrebbero presidente. Ma persino Anisa, la vedova di Hafez che trascorre lunghi periodi nella grande villa di famiglia a Qardaha e pare abbia tuttora un ruolo importante nel clan, continua a preferire Bashar a Maher. I figli vengono spesso da lei per le feste di famiglia e allora la cittadina si fa festosa.
Eppure in questi giorni a Qardaha la paura, l'insicurezza e il senso di accerchiamento che attanagliano gli alawiti sono davvero imperanti. Ci arriviamo mentre sempre più le rivolte esplose 11 mesi fa stanno diventando una violentissima guerra civile. Ieri la Lega araba ha deciso di richiamare i suoi osservatori mandati in Siria a Natale. Ancora una settimana fa erano 165. Poi i Paesi del Golfo avevano ritirato i loro, riducendo il numero a 111. «Per la grave situazione del Paese e il degenerare della violenza è stato scelto di fermare le operazioni di monitoraggio», spiegano i responsabili. I leader della rivoluzione nel Paese e all'estero avevano più volte criticato la missione, sostenendo che serviva solo da copertura alle efferatezze del regime. Due giorni fa nella cittadina di Harasta, vicino alla capitale, ne abbiamo visto in diretta l'inefficacia. Sette osservatori su due Mercedes nere scortate dai servizi di sicurezza si sono limitati ad ascoltare le testimonianze del regime. A un posto di blocco ci vengono mostrati due cadaveri impolverati. «Li hanno gettati i terroristi da un'auto in corsa», sostengono i militari. «Perché non andate a parlare con i manifestanti?», chiediamo a Mohammed Ahmed Al Dabi, l'ambasciatore sudanese che guida la missione nell'area della capitale. «Fanno troppo rumore. Gridano tutti assieme, non sono disciplinati. Abbiamo deciso di non ascoltarli più», è la risposta sconcertante. Poco dopo tre soldati comandati da un capitano pongono sette bombe a mano e un paio di vecchi mitragliatori nel bagagliaio di una Peugeot presso l'ospedale militare. Ben visibili alcune scritte in caratteri ebraici sulle scatole delle granate. «È la prova che Israele istiga le rivolte, questa è l'auto dei suoi agenti che abbiamo catturato», gridano agli osservatori, che si limitano a fotografare annuendo.
Il dibattito sulla Siria si sposta ora al Consiglio di sicurezza dell'Onu, che sta esaminando l'ennesima mozione per chiedere le dimissioni di Assad e una soluzione negoziata della crisi. Punto cruciale resta la posizione di Mosca, che continua a sostenere il regime. Ma intanto le violenze non si fermano e la repressione è in crescita, l'esercito sta tornando all'offensiva. Secondo i leader delle sommosse, il numero delle vittime ha subito un'impennata gravissima negli ultimi quattro giorni: oltre 150 morti tra i manifestanti da venerdì e quasi 720 dall'arrivo degli osservatori. A detta del regime i «terroristi» sarebbero ora organizzati in bande ben armate. L'artiglieria è stata utilizzata anche nei dintorni di Damasco. Ma cuore degli scontri sono Hama, Homs e Idlib. Aleppo per la prima volta vede manifestazioni rilevanti: venerdì sono stati segnalati 9 morti.
Gli alawiti di Qardaha spiegano tutto questo con una sola, semplice e in qualche modo rassicurante definizione: «moamara», che in arabo significa complotto, cospirazione. Rivolte, violenze, attentati, strade vuote, economia a rotoli, condanna internazionale? «È tutta una moamara guidata da Usa, Israele e Arabia Saudita», rispondono sospettosi. Lo straniero qui è per tutti una spia. Non ci fanno neppure accedere alla moschea locale dedicata a Nase, la madre di Hafez. Sui muri di un'altra moschea nell'area del mercato stanno gli annunci mortuari dei caduti del villaggio mentre combattevano per sedare le sommosse. Pare siano 200 in 10 mesi. «Capitano Osama Mohammad Ahmad, 32 anni, assassinato a Idlib», si legge. «Ali Marwan Ahmad, 25 anni, caduto a Homs», recita un altro. Ogni cittadino si trasforma in agente, prima di parlare con noi vuole vedere il passaporto. Più volte chiamano la polizia locale per avvisare che qui ci sono «sconosciuti sospetti».
Imboccando i 350 chilometri di strada per tornare a Damasco il traffico è quasi nullo. I soldati ai posti di blocco neppure lasciano i ripari dei sacchetti di sabbia per controllare. E le cupole del mausoleo degli Assad spariscono nella nebbia.

Maurizio Caprara: " Libano paese chiave, l'Italia ha il dovere di restarci"

DAL NOSTRO INVIATO
NAQOURA (Libano) — «Quando hai una regione che è un puzzle in movimento, se esiste un elemento fisso è di aiuto. Il Libano lo è. Per questo ci investi: è interesse dell'Italia che rimanga stabile», diceva ieri pomeriggio Giampaolo Di Paola, ammiraglio diventato ministro della Difesa nel governo dei tecnici di Mario Monti. Lo sosteneva a bordo dell'aereo militare che l'avrebbe riportato a Roma dopo esser stato a Naqoura, una località a dieci minuti di jeep da Israele e a un'ora e mezzo dalla Siria in rivolta, un posto nella fascia libanese a ridosso della «linea blu» di separazione con lo Stato ebraico, nella quale tanti dei veli bianchi che coprono le coltivazioni vicino ai bananeti sono state coperture per lanciamissili di Hezbollah, e molti possono esserlo ancora.
Oltre ai frutti da queste parti i campi riservano bombe a grappolo, residui della guerra del 2006. Tra squilli di tromba, il ministro ha assistito al ritorno dell'Italia al comando della forza multinazionale «United Nations Interim Force 2», affidato ieri al generale Paolo Serra. Pur di ridurre i militari italiani da 1.700 a 1.100, quanti sono adesso tra i 12 mila di Unifil 2, il governo Berlusconi avrebbe preferito non ricevere di nuovo il comando. Per evitare «no» insormontabili di Lega e altri settori del centrodestra, in solitudine Franco Frattini aspettò silenziosamente che la guida di Unifil 2 gli fosse offerta nel settembre 2011 dal segretario generale dell'Onu Kofi Annan e che così fosse arduo respingerla.
Per strada c'è uno striscione con il viso dell'ayatollah Ruhollah Khomeini, a pochi chilometri dalla base di Naqoura. Se gli si faceva osservare che altri ritratti, quelli dei cosiddetti «martiri» di Hezbollah, indicano quanto la stabilità del Libano meridionale sia relativa, Di Paola osservava: «A maggior ragione bisogna starci. Noi diciamo ai libanesi: voi rappresentate un'isola di convivenza tra le comunità sciita, sunnita e cristiana. Noi investiamo in questa vostra scelta. E non sono costi. Sono investimenti che l'Italia fa per la propria sicurezza. Perché un Medio Oriente o un Afghanistan ancora a ferro e fuoco sarebbero sì costi per la nostra sicurezza».
Eccolo uno dei tratti dell'attuale stagione politica italiana. Come agli ufficiali tenuti a mandare i propri uomini in battaglia si legge negli occhi la tensione, Di Paola ha l'aria del militare che la crisi economica chiama a tagliare spese del proprio mondo di appartenenza. Un occhio alla geopolitica, uno all'economia. Oggi sarà a Cameri, Novara, luogo scelto per la produzione dei caccia F35. «Una macchina di quinta generazione con una forte integrazione di tutti i sistemi, avionica, autonomia… E stealth (furtivo, nel senso di invisibile in volo, ndr)», ci ha detto Di Paola.
Il programma di dotare l'Italia di 135 caccia F35 è stato criticato. Ogni aereo non costa 124 milioni? Il ministro: «Il costo non si può definire così, dipenderà dalla macchina, dal mantenimento e dal totale del numero prodotto. Dobbiamo rimpiazzare Amx, Tornado e Av8 e questa sarà la miglior macchina al mondo». E la crisi? Le spese da ridurre? Di Paola: «Siamo già a un livello di risorse tra i più bassi in Europa. Così il modello non è sostenibile. Lo strumento militare deve essere efficace, sennò chiudiamo. La Difesa deve riorientare le risorse. Le capacità dello strumento non possono essere schiave della sua dimensione». Significa spendere diversamente. Ministro, abbiamo 511 tra generali e ammiragli, e generali di corpo d'armata oltre il doppio dei corpi d'armata… Di Paola: «C'è uno sbilanciamento, e nella revisione della componente "personale" andrà rivisto». Si sente un pacifista suo malgrado? «Non c'entra niente. Vedo la realtà. Sono orgoglioso di essere pacifico, ma non pacifista».

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