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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
29.01.2012 Siria, una dittatura che si regge sull'odio contro Israele (come la prossima ?)
L'analisi di Alberto Negri

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 29 gennaio 2012
Pagina: 16
Autore: Alberto Negri
Titolo: «Una dittatura che si regge sul leit motiv anti-ebraico»

Sul SOLE24ORE di oggi, 29/01/2012, a pag.16, Alberto Negri fa un riassunto della situazione mediorientale, senza infamia e senza lode, nello stile del 'non solo ma anche', così non si rischia di sbagliare. La cosa migliore è il titolo, ma è frutto del desk esteri ( che Tramballi  fosse assente ?): "Una dittatura che si regge sul leit motiv anti-ebraico".
Ecco il pezzo:

Con un candido berretto bianco e il giubbetto di un arancione intenso gli osservatori della Lega Araba erano diventati un facile bersaglio anche degli snipers con la mira più scarsa. Non lasceranno la Siria ma è probabile che quelle giacche vistose saranno dimenticate negli armadi degli hotel di Damasco come un relitto polveroso del fallimento della diplomazia araba. Ma il passaggio del dossier all'Onu non appare più risolutivo per frenare il crollo di un regime e di un Paese. Perché di questo si tratta: come nell'Iraq di Saddam la caduta di Bashar Assad e del suo clan rischia di lasciare la Siria sepolta sotto le macerie di un'altra Jugoslavia araba.
Come si è arrivati alla guerra civile e c'è una via d'uscita? Giorno dopo giorno la situazione appare sempre più drammatica e la stessa opposizione politica che parla da Parigi, il Consiglio nazionale siriano, diretto da intellettuali di prestigio ma con scarsa influenza sul terreno, teme che il Paese possa precipitare in dinamiche incontrollabili. I gruppi armati costituiti da milizie locali e disertori dell'esercito, che ingrossano i ranghi del Free Syrian Army, appaiono sempre più decisi a fronteggiare con la violenza la repressione di Assad.
Chi uccide chi? La domanda, banale ma decisiva, rimane spesso senza risposta perché alla costellazione volutamente frammentaria degli apparati di sicurezza, con e senza divisa, come i famigerati e temuti shabbya, si contrappone la nebulosa dei gruppi armati: milizie di autodifesa nei quartieri periferici di Damasco, formazioni più organizzate a Homs, roccaforte della ribellione, oppure radicate nelle tribù, come nel sud a Daraa e nelle città del nord, ai confini con la Turchia.
Ci sono poi i gruppi islamici, dai Fratelli Musulmani, esponenti di un'opposizione storica, ai molto citati salafiti, termine che significa gli antenati (con riferimento ai primi eredi del Profeta), che fanno la parte dei protagonisti nella narrativa del conflitto propagandata dal regime, il quale tende ad accreditare un complotto anti-siriano dei radicali con il sostegno delle monarchie sunnite del Golfo. Ma se i salafiti siano davvero determinanti è difficile dirlo.
Proviamo a rispondere lanciando un'occhiata ai confini della Siria, in Iraq. Nel 2003, alla vigilia della guerra americana a Saddam, si avvertiva che un conflitto avrebbe potuto disgregare il Paese in una feroce contrapposizione etnica e settaria ma quanto è successo dopo, e continua ancora oggi, ha superato le previsioni più fosche.
La verità è che sappiamo assai poco di questi Paesi. La ragione principale deriva dal fatto che Siria e Iraq sono stati opposti per decenni a ferree dittature, rappresentate dal partito socialista e panarabo Baath ma basate sul predominio di un clan, quello di Assad in Siria, di Tikrit in Iraq, e di una minoranza, i sunniti iracheni di Saddam, gli alauiti di Bashar a Damasco.
Definita un tempo la Prussia del Medio Oriente, per le sue caratteristiche militari e di rigida disciplina, la Siria è stata sigillata a ogni influenza esterna, compattata dall'unico collante ideologico efficace della regione: la tetragona e indistruttibile contrapposizione allo stato ebraico, fondata sulla sconfitta del 1967, con l'occupazione israeliana delle alture del Golan e l'afflusso, in varie epoche, di 600mila profughi palestinesi, la cui presenza - insieme a quella più recente di un milione di rifugiati iracheni - ha giustificato il sostegno di Damasco a tutti i gruppi arabi, da Hamas a Hezbollah, che respingono il negoziato con Israele.
Il fronte del rifiuto, di cui la Siria è il baluardo, si è in parte incrinato. Il capo di Hamas, Khaled Meshal, ha lasciato Damasco, pur tenendo aperta la sede, un segnale interessante perché avviene dopo un teso dibattito interno sull'opportunità o meno di mantenere il sostegno ad Assad.
Gli Hezbollah libanesi con la casa madre, l'Iran, continuano invece ad appoggiare il regime alauita, pilastro irrinunciabile della Mezzaluna sciita in Medio Oriente a cui appartiene anche il Governo filo-iraniano di Baghdad. Se Damasco rappresenta per Mosca una linea rossa invalicabile, lo è ancora di più per Teheran che si gioca la sopravvivenza della sua strategia di influenza.
Qual è la differenza tra la Siria e gli altri Paesi della primavera araba? In Tunisia, Egitto e Libia, sono caduti dei dittatori senescenti, qui si sgretola un vero apparato ideologico che nella sua sanguinosa parabola finale si trascina l'esercito, le istituzioni, l'economia: lascia un vuoto maggiore da riempire e probabilmente ancora più pericoloso.

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