Il primo numero del 2001 di “Resistenza e futuro”, dell’Associazione Amici della Resistenza, pubblicato in occasione della seconda Giornata della memoria della Shoàh, è significativo per comprendere quanto sterili siano le conseguenze di vuote celebrazioni retoriche. La mia professione mi induce a guardare sempre con occhio critico tutto ciò che mi capita di leggere, specialmente se si tratta di carta stampata. A mettere quattro parole in fila, a riempire d’inchiostro una pagina bianca sono capaci in molti. Purtroppo, però, sono costretto a constatare malinconicamente che pochi lo fanno per rendere un servizio prima di tutto alla Verità (che dovrebbe essere il fine primario da raggiungere per chi fa questo mestiere) e quindi ai lettori, soggetti raziocinanti che dovrebbero essere indotti a pensare con la propria testa e non a recepire passivamente le idee altrui. Soprattutto diffido di coloro che oggi strumentalizzano la memoria della Shoàh e ieri (forse sono disposti a farlo anche domani) sfilavano nelle strade a sostegno della causa palestinese, con tanto di kefiàh attorno al collo, ignorando la complessa realtà medio-orientale e infischiandosene delle ragioni degli altri.
L’editoriale del giovane Pintucci (non so quanto giovane sia, ma quanto ad appiattimento ideologico ed abilità strategica nel cercare di captare le simpatie dei lettori ingenui mi sembra che sia già svezzato) apparso su quel numero della citata rivista, condendo il suo minestrone ricco di ortaggi (Haider, neofascisti, neonazisti, immigrati, barboni metropolitani, intolleranti e quant’altro), coglieva l’occasione della Giornata della memoria della Shoàh per protestare l’impegno della testata su cui scrive e dell’A.N.P.I. nel “mantenere uno spirito critico e vivo nei confronti di chi con troppa superficialità e tornaconto di parte vuol “revisionare” (nel senso becero del termine) o peggio ancora negare i fatti, l’evidenza delle testimonianze dirette, la storia. Occorre contrapporre con forza la cultura all’ignoranza.” A me viene subito dato di chiedermi: quale cultura? Da contrapporre a quale ignoranza? Mi torna il tarlo del sospetto che subdolamente si strumentalizzi la tragedia della Shoàh per fini politici assai poco nobili.
Trovo doveroso che si faccia memoria dello sterminio nazista, mostro della storia che non si ripeterà solo se tutti noi ci adoperiamo affinché ciò non avvenga, mai abbassando la vigilanza attenta per soffocare qualsiasi germe che anche indirettamente possa favorire la cultura dell’intolleranza. Ma chi ricorda i milioni di ebrei che, unitamente ai milioni di non ebrei, sono stati spazzati via dalla faccia della terra nei gulag sovietici senza che la storia registrasse simili mostruosità? Chi ricorda che nazismo e comunismo hanno avuto una stagione di idilliaca intesa prima della divaricazione che ha condotto agli eventi bellici che ben conosciamo? Perché Gabriele Nissim, autore di una ricerca esemplare sulla tragedia degli ebrei in URSS, non trova adeguata audience nella nomenklatura intellettuale (o pseudo tale) del nostro disgraziato Paese? I tanti ebrei che sono scomparsi nei gulag erano colpevoli di rimanere fedeli ad un caposaldo dell’ebraismo: il valore insopprimibile ed irrinunciabile della Persona, immagine di Dio, e della sua libertà. La sua preziosità sta proprio nella sua unicità. Un principio che condivido profondamente, uno dei tanti motivi per cui nel cuore mi sento ebreo pur non essendolo per ascenza. Il regime sovietico esaltava, per contro, il primato della collettività indistinta, alla quale tutto e tutti dovevano sacrificare la propria individualità.
Occorre arrivare ad un confronto limpido, totale e definitivo con i cosiddetti “negazionisti” che in diversa misura riducono o addirittura negano la Shoàh, ma nello stesso modo occorre combattere la pratica del collaudato negazionismo nei riguardi di ciò che accadde oltre-cortina. C’è un legame stretto fra i due negazionismi. Se si chiedono ai comunisti italiani (permanenti, neo e post) notizie circa lo sterminio nei gulag, cadono dalle nuvole, dicono che non ne sanno nulla di preciso e comunque si dichiarano estranei a simili infamie, anche con visibile irritazione. Fingendo di ignorare, negano ciò che oggi è ormai di pubblico dominio. Non possono essere nel contempo antinegazionisti per ciò che riguarda le responsabilità altrui e negazionisti per ciò che riguarda fatti che li coinvolgono direttamente anche come Italiani. Sì, perché in quei gulag sono finiti pure molti antifascisti italiani e perfino comunisti italiani, come ha accertato, sulla scorta di documenti inoppugnabili, Giancarlo Lehner, autore di una puntigliosa ricerca recentemente pubblicata. Si tratta di veri scheletri negli armadi che fanno parte della storia, una storia nella quale, come D’Alema sostiene orgogliosamente, i compagni affondano le radici della propria identità.
In Italia non si scrive nulla circa i rapporti fra i due negazionismi. Occorre sempre rivolgerci all’estero per trovare documenti sullo scandalo di quella che fu l’infame tresca nazi-comunista, fonte avvelenata a cui si abbeverano ancora oggi nostalgici nazisti e fascisti, imperialzaristi, antisemiti, antiliberali ed antioccidentali in vari Paesi. Ne è significativo segnale il rigurgito di ideologie aberranti che nella Germania ex-comunista hanno trovato terreno fertile dopo l’unificazione.
Avrei molto da dire anche sul revisionismo storico che molti ritengono di dover abbracciare o respingere integralmente. Trovo squallido l’atteggiamento dei cosiddetti docenti di storia di Venezia, membri dell’équipe del Ministero della Pubblica (d)Istruzione per l’insegnamento della Storia, di fronte alle ricorrenti polemiche sui manuali utilizzati per lo svolgimento dei programmi di insegnamento (buoni anche quelli) voluti dalle recenti “riforme” (E’ mai possibile che ogni volta che ci si mette a riformare - doverosamente - qualcosa in Italia si ottengono sempre risultati tanto… lusinghieri?). L’”équipe tutoriale per l’insegnamento della Storia – distretto 36 di Venezia ed isole” (quanta trombonesca reboanza per dare una patente di autorevolezza ad un organismo che mi puzza di cellula locale di una specie di minculpop!) ricorda che la manualistica “ha avuto, dal dopoguerra a oggi, importanti positive evoluzioni sia nei contenuti che nelle forme dell’approccio metodologico”. Un linguaggio falsamente “erudito” per cercare di legittimare la clamorosa ed antistorica presentazione degli eventi rivisitati sotto una deformante ottica ideologica. Io sono un appassionato cultore della Storia “vera”, quella provata da una solida documentazione. Il revisionismo storico è possibile solo se si trovano prove inoppugnabili che lo sostengono, non essendovi nella Storia dogmi intoccabili, ma quando gli eventi sono inchiodati dai fatti e dalle testimonianze autentiche, personali e documentali, come la Shoah, non sono manipolabili. Peraltro, non ci si può opporre al riesame di altri eventi, ancora insufficientemente acclarati, sulla base di nuovi apporti probatori, così come giustamente si sta facendo dopo la caduta dei regimi totalitari dell’Est europeo.
Oggi ci troviamo di fronte ad un’immagine della Resistenza italiana non corretta e piegata esclusivamente al servizio di un’ideologia. Non c’erano solo partigiani comunisti e socialisti a combattere i nazi-fascisti, ma anche antifascisti di differente colorazione politica, cristiani e non. Si cerca di tenere nascoste le atrocità commesse ai loro danni da coloro che ho il sospetto agissero esclusivamente per preparare il terreno ad una rivoluzione che conducesse l’Italia nell’orbita dell’URSS, ignorando gli accordi di Yalta. La presentazione di una stereotipata icona della Resistenza è monopolio quasi esclusivo dei social-comunisti (tutt’al più anche degli sgomitanti cattolici), avendole attribuito una pressoché uniforme colorazione ideologica che in realtà non aveva. Applicare metri diversi per piegare la Storia al proprio tornaconto è un’operazione odiosa. La citazione di Locke a sostegno dell’operazione manipolatoria che si sta svolgendo nella scuola è clamorosamente fuori posto. Locke - che era un vero liberale - affermava: “La tolleranza verso coloro che dissentono dagli altri (…) è cosa talmente consona al Vangelo e alla ragione, che è mostruoso vi siano uomini ciechi a tanta luce (Lettera sulla tolleranza pubblicata nel 1689). Ritengo pietoso evitare ogni commento. Tuttavia, consentimi di rilevare che io, nato e cresciuto in una famiglia di convinzioni liberali (quelle vere), diffido da coloro che voltano gabbana e si proclamano oggi quello che combattevano strenuamente ieri e viceversa. In tutto questo ciarpame non vedo affatto tracce di Cultura.
Formulo l’auspicio che le comunità ebraiche italiane prendano le distanze dalle strumentalizzazioni, da qualsiasi parte provengano, palesi o subdole, che fanno l’effetto del sale sulle ferite. Temo che la giornata per la memoria finisca per essere uno dei tanti momenti di autoesaltazione del regime, un appuntamento rituale che dura l’éspace d’un matin e poi tutti a casa. Sul fronte della lotta si deve stare tutti i giorni. Tale fronte non sta nel chiuso di un’aula gremita di persone più o meno consapevoli. Non è con le belle parole che si esorcizzano i fantasmi del passato, ma con un impegno esemplare di vigile testimonianza quotidiana nella vita di relazione con chi sensibile non è.
Maurizio Del Maschio
La Resistenza al nazi-fascismo ha avuto molti interpreti, il nemico era comune, non i fini per i quali lo si combatteva. Chi voleva instaurare la 'dittatura del proletariato' in Italia lottava contro un nemico per portarne al potere un altro. E' una storia ancora tutta da studiare, coperta come è quasi sempre stato, da una retorica la cui influenza sulla cultura italiana è ancora prevalente oggi. IC redazione