Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/01/2012, a pag. 32, l'articolo di Paola Casella dal titolo " L'ironia come resistenza ".


Domani in edicola con il Corriere della Sera al prezzo di 1€, Train de vie di Radu Mihaileanu. Dello stesso regista ricordiamo anche i film Vai e Vivrai e Il Concerto.
Sabato, invece, in uscita sempre col Corriere della Sera ad 1€, il film di Louis Malle Arrivederci ragazzi.
Ecco il pezzo di Paola Casella:
Estate 1941: un intero villaggio ebraico dell'Europa dell'Est decide di sfuggire alle persecuzioni antisemite inscenando la propria deportazione — parte degli abitanti si travestirà da nazista, il resto da deportato, e insieme saliranno su un treno acquistato con i fondi della comunità diretti verso la Russia, e da lì verso la Palestina. Che il piano sia folle è evidente: del resto è stato concepito dal matto del villaggio, Shlomo. Ed è proprio la voce di Shlomo a raccontare in retrospettiva questa grande fuga in Train de vie, secondo lungometraggio diretto dal regista ebreo rumeno Radu Mihaileanu, in edicola domani con il «Corriere della Sera».
Vincitore del premio della critica internazionale Fipresci alla Mostra del cinema di Venezia, del Premio del pubblico al Sundance film festival e del David di Donatello nel 1998, Train de vie è una favola gentile e stralunata che mescola commedia e tragedia, farsa e dramma con la spregiudicatezza e agilità caratteristiche del teatro yiddish e della tradizione letteraria ebraica. «L'ironia è sempre stata la mia arma di resistenza proprio in quanto ebreo», ha detto Mihaileanu, il cui padre sopravvisse all'internamento in un campo di concentramento. «Ridere è un altro modo di piangere, ma anche un modo di decidere che non sarà la morte ad avere l'ultima parola».
Per la preparazione del film il regista ha dichiarato di aver attinto alla Bibbia come ai libri di storia, alla filosofia di Emmanuel Lévinas come a quella di Hanna Arendt, all'opera letteraria di Isaac Bashevis Singer come all'umorismo yiddish di Shalom Aleichem. La profonda conoscenza della cultura e della spiritualità ebraiche pervade il film di Mihaileanu tanto nei dialoghi, ben adattati in italiano da Moni Ovadia, quanto nell'accompagnamento musicale del bosniaco Goran Bregovic, già autore delle colonne sonore dei film di Emir Kusturica, che in Train de vie si rifà ai ritmi trascinanti della tradizione klezmer, quanto infine nella simbologia, a cominciare dal treno del titolo, che nell'esperienza ebraica rappresenta sia il viaggio, e dunque il possibile raggiungimento di una terra promessa, che la deportazione forzata verso un ineluttabile destino di morte. Mihaileanu decide di invertire il segno negativo della storia e raccontare quel treno come un veicolo in corsa verso la vita e la speranza, anche se la scena finale del film, fulminante nel suo impatto drammaturgico, mostrerà quanto presente e pregnante resti la realtà storica nella mente del regista.
Approdato sui grandi schermi quasi in contemporanea con altri due film che trattavano il tema dell'Olocausto im chiave surreale e favolistica, La vita è bella di Roberto Benigni e Jacob il bugiardo di Peter Kassovitz (a sua volta un remake dell'omonimo film del 1974 firmato dal regista tedesco Frank Beyer), Train de vie abbonda di gag umoristiche e di situazioni paradossali che nascono dallo stratagemma del travestimento (memorabile la scena in cui gli abitanti del villaggio travestiti da nazisti si imbattono nei nazisti veri... o almeno così credono) ma anche dalla vis comica dei singoli personaggi, usciti direttamente dalla galleria di caratteri del teatro yiddish. La fotografia di Yorgo Arvanitis, già collaboratore di Theo Anghelopulos, rende fortemente pittorica l'immagine, ispirandosi sia a celebri dipinti come Il violinista di Marc Chagall sia alle scenografie del musical teatrale Il violinista sul tetto, che a quel quadro si ispirava, rendendo così l'iconografia della tradizione ebraica immediatamente accessibile anche al grande pubblico. E come i violinisti di Chagall, Mihaileanu si mantiene in equilibrio sul crinale fra tragedia e farsa, consentendo il sollievo della risata senza permettere allo spettatore di allontanare lo sguardo dal baratro che attenderebbe gli abitanti del villaggio qualora il loro rocambolesco piano non dovesse andare a buon fine.
La forma narrativa della farsa scelta dal regista deve qualcosa anche alla sua formazione culturale francese, dato che Mihaileanu risiede Oltralpe dagli anni Ottanta e sono francesi la lingua originale e la produzione del film, che vede fra i cofinanziatori Romania, Belgio e Paesi Bassi, uniti in un'insolita cordata europea. Del resto quello della contaminazione fra i popoli, insieme al messaggio di tolleranza che ne deriva, è argomento ben presente anche nella trama di Train de vie, che ad un certo punto vede l'incontro fra la comunità ebraica e quella rom, entrambe in fuga dai nazisti, pronte tanto a rimarcare le proprie differenze quanto a condividere il proprio destino di perseguitati. Anche l'affiliazione politica marxista di alcuni dei membri dello shtetl (il villaggio ebraico) viene raffigurata da Mihaileanu più come elemento di divisione interna che come cassa di risonanza di un ideale di condivisione sociale. Il regista non si sottrae neppure alla suggestione che l'uniforme possa fare l'uomo, raccontando il personaggio di Mordechai, l'ebreo che indossa i panni del comandante tedesco incaricato di sovrintendere alla «deportazione» degli altri membri del villaggio, come posseduto da un irresistibile impulso ad impartire ordini dall'alto di una improvvisa «superiorità».
L'irriverente regia di Mihaileanu abbatte ogni distanza fisica ed emotiva fra gli spettatori e le vicende narrate, intrufolandosi in mezzo agli abitanti del villaggio o all'interno dei vagoni del convoglio in fuga, prendendo vorticosamente parte alle danze o soffermandosi ad ascoltare i racconti delle donne ai bambini raccolti intorno al fuoco, scivolando agilmente da un volto all'altro salvo arrestarsi improvvisamente davanti ad un nemico, ad un ostacolo inatteso. Talvolta i personaggi stessi si rivolgono alla cinepresa, e dunque a noi, comunicandoci il proprio stato d'animo e invitandoci a entrare a far parte della narrazione, in qualche modo chiamandoci in causa. Impossibile rimanere indifferenti: ed è questa, a ben vedere, la vera posizione morale di Train de vie. «Bruceresti qualcuno solo perché il tuo superiore te lo ordina?», chiede il matto del villaggio Shlomo al finto nazista Mordechai, dimostrando a lui (e al pubblico) che in fondo tanto matto non è.
L'energia narrativa con cui Mihaileanu racconta la favola della comunità in fuga dall'orrore è un inno alla vita che si contrappone alla ferocia della storia, rivendicando la supremazia dello spirito indomabile di un popolo, e per estensione del genere umano, sulla determinazione nichilista di una dittatura deumanizzante. Nella tradizione del Grande dittatore di Chaplin o di Vogliamo vivere di Ernst Lubitsch, recentemente rievocata persino dal Quentin Tarantino di Bastardi senza gloria, Mihailenau usa l'ironia per esorcizzare un fantasma senza per questo cancellarne l'ombra, o sottovalutare la minaccia delle sue possibili apparizioni future.
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