Come bloccare il nucleare iraniano? Sanzioni o attacco preventivo? Commenti di Daniele Raineri, Carlo Pelanda, Redazione del Foglio
Testata: Il Foglio Data: 25 gennaio 2012 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri - Redazione del Foglio - Carlo Pelanda Titolo: «Qualcuno volò sul nido di Bibi - Un equilibrio del terrore nel Golfo non conviene solo all’Iran»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 25/01/2012, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Quante risse dentro le Guardie della rivoluzione per colpa di una lettera ", preceduto dal nostro commento, l'articolo dal titolo cinematografico " Qualcuno volò sul nido di Bibi ", a pag. 3, l'articolo di Carlo Pelanda dal titolo " Un equilibrio del terrore nel Golfo non conviene solo all’Iran ", preceduto dal nostro commento.
Daniele Raineri - " Quante risse dentro le Guardie della rivoluzione per colpa di una lettera"
Daniele Raineri, Basiji
In quanto alla nostra polemica sull'atteggiamento della titolazione del Foglio da parte di Daniele Raineri sulla definizione di 'brutali sanzioni' (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=43116) pubblichiamo volentieri la risposta di Raineri via twitter: "Netanyahu può dire "crippling" e io secondo voi non potrei dire "brutali"? http://t.co/YRmK5mwg". Il link rimanda a una pagina di ABCNews con un'intervista video a Bibi Netanyahu dal titolo "Netanyahu calls for 'crippling sanctions' against Iran". Il titolo conferma la nostra critica nel senso che Netanyahu richiede sanzioni ancora più dure contro l'Iran, mentre Raineri scriveva di sanzioni 'brutali' con un'accezione quasi di critica, non di condivisione. Ecco il pezzo:
Roma. Finisce con una citazione del Corano, sura 59 versetto secondo, la lettera che ha fatto crollare l’immagine pubblica di compattezza delle Guardie della rivoluzione in Iran. “Imparate la lezione, voi che avete occhi per vedere”. Chi l’ha scritta è uno dei miti e fondatori dei pasdaran, l’ex ammiraglio Hossein Alaei, primo comandante della marina delle Guardie della rivoluzione, l’unico comandante iraniano ad avere affrontato direttamente in battaglia gli Stati Uniti, nel 1987, in due giorni di scontro navale nel Golfo persico. La lettera di Alaei ha fatto scandalo perché attacca con violenza, senza farne mai il nome, la Guida suprema, l’ayatollah Khamanei, e paragona le condizioni del paese agli ultimi mesi dello scià. L’errore più grande di chi sta al potere, scrive Alaei, è non riconoscere la forza dei primi moti di protesta che in poco tempo possono trasformarsi in una rivolta di popolo, come accadde nel 1978. Alaei immagina lo scià rimuginare dall’esilio sugli sbagli commessi. “Non sarebbe stato meglio se non avessi provocato la folla ai funerali del figlio dell’imam Khomeini? Non sarebbe finita meglio se avessi consentito alla gente di manifestare pacificamente? Non sarebbe stato meglio se non avessi dato l’ordine agli agenti di sparare sulle proteste?”. E chiosa: “La rivoluzione islamica del ’79 fu fatta per liberarsi di un regime inamovibile e per consentire agli iraniani di determinare il proprio destino con libere elezioni (…). Imparate la lezione, voi che avete occhi per vedere”. Anche la testata dove la lettera è stata pubblicata, il quotidiano Ettelaat, è causa di scandalo: sullo stesso giornale, nel 1978, apparve l’articolo contro Khomeini, scritto dal ministro dell’Informazione dello scià, che scatenò le prime manifestazioni del paese a partire dalla città santa di Qom. La casa di Alaei è stata circondata da milizie bassiji inneggianti alla Guida suprema, che hanno coperto i muri di slogan con le bombolette spray. Dodici comandanti delle Guardie della rivoluzione hanno risposto con una controlettera all’agenzia Fars (da loro controllata): “Con tutti i credenti che vorrebbero baciare la manica del leader, tu sei occupato a sfregiarne il viso e a seminare dubbi sul sentiero divino”. Conclusione: “Il nemico ti ha fatto prigioniero”. L’ammiraglio ha ritrattato ma ormai il fronte è rotto. Altri comandanti in servizio e alcuni politici si sono schierati dalla sua parte. Ali Sani Khani, ufficiale delle Guardie rivoluzionarie con padre e fratello uccisi nella guerra contro l’Iraq, ha chiesto che “le autorità”, invece che attaccare Alaei, rispondano alle sue domande. Emad Afroogh, ex deputato ed ex ufficiale delle Guardie, ha difeso Alaei in televisione. Un altro ex ufficiale, Gholam Ali Rajaei, scrive: “E se anche il bersaglio della lettera fose Khamenei, dov’è il problema? Quale legge è stata violata?”. Secondo la televisione pubblica americana Pbs, che a Teheran mantiene un ufficetto di corrispondenza impegnato in un meritorio lavoro di traduzione dalla lingua farsi, i dodici comandanti hanno provato ad ammorbidire il tono del loro anatema con una seconda lettera più conciliante; Raha press, un sito d’informazione che sta con il presidente Mahmoud Ahmadinejad, li ha ridicolizzati per la marcia indietro (“ma che bel festival del basirat”, dove basirat è la saggezza), un altro sito pro presidente – Super Enheraafi, “il Super Eretico” – dice che a febbraio c’è da aspettarsi un “evento speciale”, come la fine del presidente Ahmadinejad: “Useranno un impeachment o un assassinio”. Il pilota impiccato Manca poco più di un mese alle “elezioni” parlamentari del due marzo, a cui si presentano due schieramenti ultraconservatori impotenti e in ritardo di fronte alla crisi che aggredisce l’economia del paese. Due giorni fa la moneta iraniana, il rial, è sprofondata ancora contro il dollaro (la quotazione è passata da sedicimila a ventimila in due settimane; da ottobre il rial ha perso metà del suo valore). Le sanzioni annunciate da America e Europa – e da ieri anche dall’Australia – che entreranno in vigore fra sei mesi promettono danni in aggiunta. Monta il clima di conflittualità all’interno e all’esterno, con le ripetute minacce sullo Stretto di Hormuz. Ieri a tutte le Guardie della rivoluzione sono state sospese le licenze. Domenica un loro pilota è stato impiccato nella base aerea di Shiraz “per insubordinazione”.
" Qualcuno volò sul nido di Bibi "
Bibi Netanyahu
Roma. Nel corso dell’ultimo Consiglio dei ministri, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha evocato contro l’Iran anche la Conferenza di Wannsee, nella quale i vertici nazisti pianificarono la “soluzione finale del problema ebraico”. Ha detto che Israele ha “il diritto, il dovere e la capacità” di prevenire l’eliminazione del popolo ebraico. “Quello che c’è di diverso dal 1942 al 2012 è la nostra capacità di difenderci e la nostra determinazione a farlo”, ha spiegato. Israele è dunque pronto a muovere guerra all’Iran pur di evitare che gli ayatollah testino la bomba atomica. Un’inchiesta del Wall Street Journal dice che anche gli Stati Uniti ne sarebbero sempre più convinti, tanto da aver approntato un piano d’emergenza per salvaguardare gli interessi nel Golfo in caso di conflitto militare tra Gerusalemme e Teheran. Il sito di intelligence israeliana Debka ha appena rivelato che l’Iran avrebbe preso la decisione di costruire la bomba atomica. La tensione sullo strike cresce, prima di tutto fra Israele e gli Stati Uniti: Netanyahu si è rifiutato di promettere di coordinarsi con Washington prima di un eventuale attacco contro l’Iran, e al capo di stato maggiore americano, il generale Martin Dempsey, avrebbe garantito appena “dodici ore” di preavviso sull’attacco israeliano. Il premier di Gerusalemme deve vincere anche la resistenza interna al proprio vertice di comando. Decisiva sarà la nomina del nuovo capo dell’aviazione. Netanyahu vuole un falco ideologico, Yohanan Locker, mentre il capo di stato maggiore, Benny Gantz, che in teoria ha le chiavi della nomina, propende per Amir Eshel, pragmatico e contrario allo strike. L’aviazione, nota anche come le “Tigri del cielo”, non è soltanto l’aristocrazia dell’esercito israeliano: saranno i suoi caccia F-16 a colpire le installazioni iraniane in caso Gerusalemme decida per l’attacco. Haaretz, il giornale di sinistra impegnato da mesi in una campagna di boicottaggio dello strike, ha titolato così un editoriale: “L’aviazione salvi Israele da un attacco all’Iran”. Ma lo scorso autunno il settimanale tedesco Spiegel, citando fonti dell’intelligence israeliana, ha scritto che “i comandanti dell’aviazione stanno diventando sempre più pressanti nel chiedere l’attacco”. Uno di questi è il generale Eitan Ben Eliyahu, che prese anche parte all’attacco della centrale irachena di Osirak. Netanyahu, però, ha già contro il Mossad, schierato a favore di mirate operazioni di sabotaggio. La decisione di attaccare l’Iran è politica e nelle mani del primo ministro, che però deve avere l’appoggio dell’aviazione che materialmente dovrà fermare il programma iraniano. Eshel è in cima alla lista dei candidati per la successione a Ido Nehushtan, mentre Netanyahu vorrebbe il suo consigliere militare, Yohanan Locker: figlio di sopravvissuti all’Olocausto e il cui padre era a bordo dell’Altalena, la nave dei gruppi legati alle destre che, carica di armi, fu affondata davanti a Tel Aviv per volere dei laburisti di David Ben Gurion. Locker è oggi l’uomo più ascoltato dal premier e l’unico israeliano a indossare l’uniforme al Palazzo di vetro quando lo scorso settembre Netanyahu parlò all’Assemblea generale. Su Haaretz Amir Oren ha scritto che Netanyahu ha bisogno di tre condizioni per lo strike: prove che Teheran stia cercando di realizzare la bomba atomica, il sostegno delle proprie Forze armate e il nulla osta americano. Le prove materiali gliele ha fornite l’Agenzia atomica dell’Onu, Netanyahu sta cercando il sostegno dell’aviazione, ma Barack Obama resta contrario allo strike. Ricorda sempre Haaretz, però, che quando Israele distrusse il reattore iracheno di Osirak nessuna delle tre condizioni erano state rispettate. Gerusalemme potrebbe fare di nuovo di testa propria. Agli americani resterebbero dodici ore per prepararsi e ai caccia con la stella di David dodici minuti per bruciare il cielo iraniano.
Carlo Pelanda - " Un equilibrio del terrore nel Golfo non conviene solo all’Iran"
Carlo Pelanda
Discutibile l'opinione di Pelanda, lo status quo non ha mai portato a nessuna soluzione. Ecco il pezzo:
Aumenta il pessimismo sulla stabilità della regione del Golfo. Molti temono: la frammentazione dell’Iraq con l’annessione del sud sciita da parte di Teheran, il mancato contenimento dell’ambizione nucleare iraniana, in generale una destabilizzazione complessiva della regione a causa del conflitto sempre più aperto tra sunniti e sciiti. La rubrica, invece, vede segni che indicano che la regione si stia muovendo verso un equilibrio del terrore. Dal 2003 Washington ha mantenuto un dialogo segreto con Teheran allo scopo di evitare eccessivi guai di fonte sciita alla stabilizzazione dell’Iraq. Grazie a questo fu in grado di garantire la minoranza sunnita e ottenere dai sauditi un intervento per calmierare la guerriglia su quel lato. Nello scambio, dopo il 2008, Teheran ottenne il non intervento di Obama nelle sommosse popolari anti regime, una garanzia di immunità contro attacchi al suo programma nucleare, alla condizione che questo fosse stato rallentato, e vie di uscita riservate alle sanzioni economiche. Ciò innervosì Israele che, infatti, iniziò a far filtrare sulla stampa internazionale scenari di attacco preventivo, ovviamente ben lontani dal vero piano tecnico (un gioco delle parti peraltro utile agli americani per spaventare gli iraniani). Ma i sauditi si innervosirono sul serio quando si accorsero che Obama si stava veramente disingaggiando dalla regione e proiettarono uno scenario nel quale l’Iran sarebbe emerso come potenza regionale non più contenuta da Washington. Per questo iniziarono l’offensiva di destabilizzazione della Siria filoiraniana e di consolidamento del potere wahabita in tutta l’area sunnita (che qualche romantico chiama primavera araba): per evitare che Teheran usasse le divisioni intra-sunnite per trovare una famiglia più amica da mettere nella posizione di sceriffo della Mecca e del petrolio. Inoltre cercarono qualcuno che rendesse loro disponibili armi nucleari non americane per dissuadere l’Iran, sondando perfino la Francia, avviando una collaborazione strategica con Israele e puntando a utilizzare il potenziale pachistano, dopo il ritiro americano dall’AfPak. Ora l’America è fuori dall’Iraq, in ritirata dall’Afghanistan e con capacità decrescenti di controllo dell’arsenale nucleare pachistano. Quindi l’Iran potrebbe sentirsi libero di annettere l’Iraq e di dichiararsi potenza nucleare, provandolo con un test. Lo farà? In realtà non ha alcuna convenienza a spaccare l’Iraq, pur finanziando ben sei gruppi di sciiti iracheni filoiraniani contro gli sciiti iracheni nazionalisti, perché ciò lascerebbe liberi i curdi di rendersi stato, romperebbe l’alleanza di interessi con la Turchia (e, forse, con la Russia) e spingerebbe i sauditi spaventati a organizzare una penetrazione destabilizzante dell’Iran da est, cioè da Afghanistan e Pakistan, raccordata da una nuova insorgenza iracheno-nazionalista che bloccherebbe la produzione petrolifera. Teheran, in realtà, è molto prudente rispetto alla possibilità di dichiararsi potenza nucleare. Un attacco preventivo prima della conquista dell’atomica è problematico per legittimità. Ma qualora la ottenesse, e se qualcuno facesse sembrare l’Iran eccessivamente minaccioso, la risposta sarebbe un attacco con bombe nucleari ai neutroni, selettivo ma totalmente inabilitante, con il consenso della comunità internazionale. Solo un forte sostegno all’Iran da parte della Cina potrebbe evitare a Teheran questo destino. Ma Pechino, pur tentata, non lo farà perché costringerebbe l’America a un re-ingaggio. D’altra parte Teheran non potrà rinunciare del tutto all’ambizione nucleare per motivi di coesione interna del regime. Mettendo insieme queste considerazioni, e l’interesse di tutti a evitare gravi incidenti al ciclo del petrolio, sembra più probabile che gli attori cerchino un punto di equilibrio, essendo tutti capaci di produrre terrore, ma anche vulnerabili a esso. Teoria: se manca un impero capace di imporre il monopolio della violenza (pax) in un’area, la miglior seconda opzione è l’equilibrio del terrore. Per questo va consolidato e non temuto.
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