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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.01.2012 Un bilancio del ritiro americano dall'Iraq
commento di André Glucksmann

Testata: Corriere della Sera
Data: 20 gennaio 2012
Pagina: 50
Autore: André Glucksmann
Titolo: «Iraq, gli americani si ritirano male non vinti ma neppure vittoriosi»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/01/2012, a pag. 50, l'articolo di André Glucksmann dal titolo "Iraq, gli americani si ritirano male non vinti ma neppure vittoriosi".


André Glucksmann

In favore o contro, si parla della guerra come di una realtà univoca, benché ciascuno percepisca in maniera diversa le esperienze di volta in volta gloriose o devastanti che questo termine evoca. A seconda che si sia russi, tedeschi, inglesi o francesi, le grandi date della storia europea veicolano sentimenti e giudizi che, anche dopo oltre mezzo secolo di pace, non concordano. Allo stesso modo, l'esperienza americana dei conflitti armati continua ad apparire sconcertante ai non americani. Alexis de Tocqueville l'aveva previsto: ci sono due cose che la democrazia d'Oltreoceano «farà sempre con molta fatica: cominciare la guerra e finirla». L'ultima avventura irachena non trasgredisce alla regola.
Cominciare la guerra male: sin dall'inizio, Washington aveva accumulato falsi pretesti (Saddam Hussein, c'era da giurarci, era bardato d'armi di distruzione di massa e procedeva mano nella mano con Al Qaeda...). Eppure, i veri motivi bastavano a giustificare un intervento militare (Saddam minacciava i Paesi vicini, torturava, massacrava e all'occorrenza usava armi chimiche contro il proprio popolo, non rispettava il cessate il fuoco dell'Onu, aggirava l'accordo sul petrolio in cambio di cibo...). Appena cominciata, se pur accompagnata da inutili menzogne, l'offensiva in Iraq silurò comunque il Raìs in men che non si dica, come qualche rara persona in Europa aveva previsto e auspicato, fra cui un povero peccatore come il sottoscritto. Si può anche supporre che la caduta di Saddam Hussein annunciasse l'estromissione di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi, e significasse la fine dell'appoggio incondizionato garantito da Washington ai dispotismi arabi: «Il fatto che per sessant'anni le nazioni occidentali abbiano giustificato e accettato la mancanza di libertà in Medio Oriente non aiutò per nulla la nostra sicurezza perché, a lungo termine, la stabilità non può essere acquistata al prezzo della libertà» (G. W. Bush, 7 novembre 2003).
È dopo, una volta caduta Bagdad, che l'America si impantanò. I soldati del tiranno decaduto furono abbandonati a se stessi con le loro armi, e la popolazione fu consegnata alle televisioni satellitari degli integralisti islamici. I soldati americani credevano forse di liberare un minuscolo Stato come Panama? Il Pentagono aveva dimenticato che gli sbirri di Saddam Hussein per decine di anni avevano disinformato e privato di cervello venti milioni e più di civili terrorizzati? Il Dipartimento di Stato ignorava la ferocia del partito Baath di ispirazione fascista e poi staliniana? Gli stessi generi del dittatore non erano stati ferocemente torturati e giustiziati? Come supporre che il «popolo iracheno» avrebbe subito «ristabilito» una democrazia che non aveva mai sperimentato? Subentrarono allora i terrorismi etnico-religiosi, che sguazzarono nel sangue dei loro concittadini, e solo alla lunga furono contenuti da un nuovo sforzo militare («surge»).
Terminare la guerra male: oggi, le truppe americane hanno concluso il loro ritiro dall'Iraq alla chetichella. Non chiaramente vittoriose, non ufficialmente vinte. Obama può dedicarsi alla propria incerta rielezione, poiché gli attentati hanno saggiamente atteso che i soldati americani lasciassero l'Iraq prima di insanguinare di nuovo Bagdad e dintorni. Questa partenza «in sordina», la prima potenza mondiale l'ha pagata cara: ha legittimato sul posto il governo di Nuri al-Maliki, fedele seguace della vicina teocrazia iraniana e quindi molto poco democratico o affidabile. I fanatismi etnici e religiosi sono in agguato, mentre intrighi polizieschi e caccia all'uomo imperversano ai vertici del potere.
Dove prenderanno fuoco le polveri? I curdi si trincerano nel proprio territorio, ma Kirkuk, la città petrolifera che essi rivendicano, può incendiarsi alla prima occasione. I sunniti si sono acquattati dietro le mura che dividono la capitale senza rinunciare alle bombe e alle autobomba. Lungi dal predicare una politica di pacificazione, al-Maliki vuole mostrare la propria forza e far il più possibile piacere ai suoi protettori di Teheran. E allora se la prende con i più deboli. Da parecchi mesi, minaccia di disperdere e di espellere manu militari i 3.500 uomini, donne e bambini raggruppati nei campi profughi di Achraf. Sono ex «mujahiddin del popolo», nemici giurati degli ayatollah iraniani, che resero le armi agli americani in cambio della promessa scritta di ricevere protezione e asilo. Infischiandosene del proprio giuramento, l'esercito americano li abbandona a una ben triste sorte; ormai, Bagdad li perseguita e Teheran giura di farli fuori. Se il cielo si fa cupo attorno a Achraf, Washington se ne lava le mani.
Ancora una volta, come nel 1975, come nel 1991, l'America fa le valigie e torna a casa; e tanto peggio per coloro che abbandona. Su più vasta scala (e quanto!), i cambogiani non furono forse freddamente lasciati nelle mani dei loro carnefici per numerosi anni? Gli iracheni non hanno provato l'amarezza di un ritiro precipitoso quando George Bush padre, rifiutando di continuare fino a Bagdad un'offensiva vittoriosa, lasciò Saddam Hussein soddisfare la propria vendetta sui curdi e sugli sciiti? L'Onu, l'Alto commissariato per i rifugiati, le istituzioni dell'Europa non ignorano che a Achraf si sta preparando un brutto colpo. Negoziano. Auguriamoci che riescano a salvaguardare i civili in grande pericolo, speriamo che non preparino fiacchi alibi alla loro abituale indolenza.
La sorte di Achraf fa da segnale. Ritorneranno, in Iraq, i tempi dei massacri? Tutto è ancora in gioco. La voce messianica di Barack Obama copre un isolazionismo tradizionale, egoista e pericoloso, mentre il lucido realismo di Hillary Clinton vi si oppone. Le primarie repubblicane testimoniano un'indecisione analoga. Il popolo americano esita, vacilla, e con lui l'avvenire, democratico o no, di una mondializzazione irresistibile.

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