Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/01/2012, a pag. 23, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " A Damasco, capitale 'fedelissima' circondata dalla Siria in fiamme ".



Lorenzo Cremonesi, Bashar al Assad, Damasco
DAMASCO — Nei pochi chilometri dall'aeroporto alla città i posti di blocco quasi non si vedono. Poca polizia, controlli irrisori. Il regime, almeno per ora, non teme minacce per la capitale. Ci pensano i servizi di sicurezza a monitorare il «nemico esterno». Atterrati martedì notte a Damasco abbiamo trovato una città tutto sommato tranquilla. I tassisti si lamentano per la mancanza di turisti, per l'aumento di aggressioni criminali in periferia. Nulla a che vedere però con Tripoli tesa e spaventata la scorsa estate, o con il vuoto spettrale per le vie di Tunisi un anno fa mentre il presidente Ben Ali cadeva. A Damasco si transita tranquilli anche alle tre di notte.
È la conferma di ciò che i leader della rivoluzione siriana sostengono dal loro esilio in Turchia ed Egitto: «Noi operiamo in campagna e in provincia, le grandi città restano in mano al regime». Ventiquattro ore a Damasco servono appena per iniziare a comprendere cosa accada in questo Paese complesso, scosso da oltre 10 mesi di rivolte sanguinose. I giornalisti e commentatori locali accettano di parlare, ma quasi tutti chiedono l'anonimato. «I 25 milioni di siriani sono profondamente divisi. Almeno il 30%, per lo più sciiti alawiti, sostengono il presidente. Con loro tanti cristiani che temono la crescita dei Fratelli Musulmani e guardano la sorte dei copti egiziani o dei caldei in Iraq. Un altro 30%, quasi tutti sunniti, sono per la lotta ad oltranza ma sono divisi. I capi nella diaspora, nel Congresso Nazionale Siriano vicino ai Fratelli Musulmani, vorrebbero l'intervento militare straniero, come in Libia. A loro si oppongono però i leader locali, più laici e legati all'avvocato Hassan Abed Al Azim, che a Damasco guida la coalizione Comitato di Coordinamento Democratico: loro si accontentano delle pressioni internazionali e dell'embargo economico. C'è poi la maggioranza silenziosa che sta a guardare pronta a saltare sul cavallo vincente», dice un noto reporter.
Per le strade la gente commenta con discrezione le notizie confuse dalle piazze in rivolta. La novità delle ultime ore è la trattativa tra la Quarta Divisione corazzata di Maher Assad (fratello del presidente) e il Nuovo Esercito Siriano Libero, composto da disertori. «Il fatto incredibile è che per la prima volta i disertori hanno trattato alla pari con l'esercito regolare. Segno che le armi arrivate dal Libano cominciano a cambiare le regole di battaglia», afferma un altro giornalista locale. Epicentro delle tensioni restano le città di Homs, di Idlib al confine turco, di Dayr Az-Zor nel profondo Sud e di Deraa, culla delle rivolte. Per monitorare le violenze sul campo ci sarebbero i 165 osservatori della Lega araba arrivati a Natale. Ma l'incontro con loro ieri nei saloni dell'hotel Sheraton ha confermato i giudizi di impotenza già apparsi sui media internazionali. Da quando uno di loro su Al Jazeera ha criticato la missione e i trucchi del regime per depistarla, l'ordine è l'assoluto silenzio stampa. Non dicono neanche quanti sono, mentre si aggirano con le loro giacchette arancioni accompagnati da decine di ufficiali del regime. La loro missione è ancora più in dubbio dopo la richiesta del Qatar di mandare un corpo di spedizione militare arabo per garantire una zona cuscinetto tra ribelli e militari, idea respinta però da Algeria, Iraq e Libano, nonché da Russia e Cina.
Le organizzazioni della rivolta denunciano 6.200 morti da marzo e 14 mila prigionieri. Il governo replica che almeno 2.000 soldati sono stati uccisi dai «terroristi» e scoraggiano gli inviati stranieri a girare da soli: «Guardate il reporter della tv francese assassinato dai terroristi una settimana fa a Homs». Affermazione messa in dubbio dal tam tam delle sommosse, per cui l'assassinio avrebbe la firma dei servizi segreti siriani interessati a scoraggiare le inchieste indipendenti e criminalizzare la rivoluzione. Internet funziona, a differenza di Egitto, Libia e Tunisia l'anno scorso. Ma censurata. Skype, Facebook, Twitter sono utilizzati con grande cautela dei militanti. «La dittatura non li taglia, se ne serve per raccogliere informazioni sulle opposizioni», mi dicono in un Internet caffè.
Ma il vero tema al centro dell'attenzione è la crisi economica generata dalla destabilizzazione e dall'embargo internazionale. Sino a metà estate il cambio ufficiale imperava. Ora nelle banche euro e dollari si cambiano rispettivamente a 73 e 57,44 lire siriane, ma sul mercato nero il valore sale a 86 e 73. «Il governo non riesce più a stabilizzare la nostra moneta. Sino ad ora ci hanno salvato le ampie reserve di valuta straniera, scese però in un anno da 17 a 13 miliardi di dollari. La disoccupazione è salita dal 10 al 22%. Il turismo dava lavoro a oltre un milione di persone, che ora sono a spasso. Migliaia di piccole aziende hanno chiuso. Il danno causato dalla mancanza di export del nostro petrolio va ancora valutato ma è devastante. Fino a quando il Paese riuscirà a tenere l'attuale tenore di vita?», osserva Nabil Sukkar, ex dipendente della Banca mondiale e ora direttore di un centro di ricerche economiche a Damasco. Eppure sarebbe un errore pensare che il regime sia a un passo dal collasso. Tutt'altro. «Esercito e polizia restano in gran parte fedeli. Le diserzioni sono un fenomeno minoritario. Guai se si pensasse davvero a un intervento armato dall'estero. La guerra civile sarebbe ancora più sanguinosa», aggiunge Sukkar. Come uscire dall'impasse? «Il compromesso politico. Costituente, pluripartitismo, fine negoziata del monopolio baathista tra regime e opposizione interna. Ogni altra via sarebbe la ricetta per nuovi massacri».
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