Che cosa sta diventando l'Iraq senza gli Usa commento di Daniele Raineri
Testata: Il Foglio Data: 18 gennaio 2012 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri Titolo: «La deriva di Baghdad»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 18/01/2012, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " La deriva di Baghdad ".
Daniele Raineri, Nouri al Maliki, Saddam Hussein
Roma. Il pezzo di una chiappa in bronzo, staccato da un soldato delle forze speciali britanniche alla statua allungata a mezz’aria di Saddam Hussein nell’aprile 2003, mentre le telecamere internazionali filmavano l’arrivo degli americani in piazza a Baghdad. Ora il governo guidato dal primo ministro Nouri al Maliki ha scoperto il pezzo su Internet in vendita per beneficenza, ne accusa il furto e ne pretende la restituzione, nell’ansia – che s’allarga a ogni settore – di fare risplendere davanti a tutti gli arabi la ritrovata sovranità dell’Iraq, adesso che le truppe di Obama sono tornate a casa. E’ passato meno di un mese dal ritiro completo. Ne hanno fatto le spese – scriveva lunedì il New York Times – centinaia di contractor stranieri, tanti americani, trattenuti e arrestati per giorni e in alcuni casi settimane per irregolarità nei documenti. Roba che negli anni passati finiva sotto il tappeto della convivenza di guerra, quando per forza di cose non si faceva troppo caso ai timbri e alle date di scadenza. Nelle ultime settimane di dicembre è stato il figlio del primo ministro al Maliki in persona a dirigere lo sgombero delle compagnie occidentali di contractor dalla Zona verde al centro della capitale: simbolismo familiare che colpisce perché il leader sciita non spreca un’occasione, vive da due anni in campagna elettorale permanente e la rivincita irachena ne è il tema dominante. I visti, le licenze per le armi e i permessi per guidare in certe strade sono lasciati scadere dal governo e non rinnovati apposta, per creare pressione sugli stranieri. L’ambasciatore americano ieri s’è scusato a nome di quattro compatrioti sorpresi e arrestati dai soldati nei dintorni della casa del governatore della capitale senza un documento speciale. E’ il nuovo clima a Baghdad, di voluttà xenofoba (anche contro gli iraniani? No, con loro no). La rivincita più grande Maliki se l’è presa contro Washington, a cui fino all’ultimo ha promesso la permanenza dei soldati dentro basi strategiche, salvo negare l’accordo soltanto un mese e mezzo prima della scadenza ufficiale. Mahir Zeynalov, del giornale turco Zaman, dice che Bush non commise un errore a invadere l’Iraq, sbagliò soltanto momento: “Intervenisse ora, contro il premier che sta aizzando la guerra civile tra sunniti e sciiti”. Zeynalov è furioso perché al Maliki ha risposto – male – al premier turco, Recep Tayyip Erdogan, di non interferire con gli affari interni di Baghdad, dopo che Erdogan aveva espresso preoccupazione sullo stato delle cose in Iraq. E’ seguito uno scambio di dichiarazioni secche da entrambe le parti che ha sfiorato la crisi diplomatica piena, i reciproci ambasciatori sono stati convocati. E’ vero che Maliki sta scatenando di nuovo la rivalità tra le due confessioni islamiche, che sono anche i due blocchi maggiori della politica irachena. Ha fatto spiccare un mandato di cattura contro il suo vice, il sunnita Tariq al Hashemi, con l’accusa di usare le sue guardie del corpo come una squadra della morte. In queste ore è prevista la trasmissione di nuove confessioni delle stesse guardie, ancora sotto processo, ma l’annuncio è arrivato da un ministero e non da parte dei giudici – cosa che fa evidentemente pensare che il processo scottante a un politico di livello altissimo non sia affatto nelle mani del potere giudiziario, ma in quelle del governo. Ieri i ministri sunniti che per solidarietà con al Hashemi boicottano le riunioni dell’esecutivo sono stati sospesi dalle loro funzioni e non possono più entrare nei loro dicasteri. Reidar Visser, lo storico contemporaneo che si occupa al microscopio di politica irachena, riporta la definizione di al Maliki che circola nelle strade: “La versione sciita di Saddam Hussein”, e si dice sostanzialmente d’accordo. Visser disegna lo schema più preciso e comprensibile della grande divisione della politica irachena. Da una parte c’è il cosiddetto Accordo di Erbil, dal nome di una città curda, una visione molto anticentralista dell’Iraq, con quote studiate di rappresentanza per le confessioni religiose in tutte le istituzioni e qualche favore concesso all’etnia curda. Dall’altra c’è l’autoritarismo Dawa – che è il nome del partito di Maliki – con enfasi sulla forza centrale dello stato, e che però tende a colonizzare tutti i ministeri della sicurezza e a manipolare il potere giudiziario per scopi politici.
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