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Il Giornale Rassegna Stampa
15.01.2012 Iran: i nodi arrivano al pettine
Commento di Fiamma Nirenstein, cronaca di Gian Micalessin

Testata: Il Giornale
Data: 15 gennaio 2012
Pagina: 19
Autore: Fiamma Nirenstein-Gian Micalessin
Titolo: «Perchè sta arrivando l'ora dell'attacco agli ayatollah-Obama si prepara al blitz israeliano in Iran»

Iran e la bomba. i nodi stanno arrivamdo al pettine. Sul GIORNALE di oggi, 15/01/2012, a pag.19, il commento di Fiamma Nirenstein e una interpretazione - non sapremmo come definirla diversamente - di Gian Micalessin.  Che gli Usa la pensino come racconta Micalessin potrà anche essere vero, ma non si può basare una tesi solo su supposizioni.
Ecco gli articoli:

Fiamma Nirenstein: " Perchè sta arrivando l'ora dell'attacco agli ayatollah "


I siti nucleari                                        Fiamma Nirenstein

Non è che tutti si debba credere ai film ma­de in Usa: l'allarme americano per un immi­ne­nte attacco israeliano all'Iran potrebbe es­sere una specie di «tenetemi, sennò non so che gli faccio», sulle orme del solito political­ly correct obamiano, contro la guerra, per le trattative, per la pace… un modo di nascon­dere quello che invece è almeno il cinquanta per cento di una confusa intenzione per cui Dennis Ross dichiarò che il presidente era pronto a intervenire militarmente se l'Iran si fosse affacciato sull'atomica. Può darsi che gli americani ci preparino per una scena in cui Israele, nonostante i saggi avvertimenti attacca, e gli Usa, complici ma santificati, alla fine lo devono aiutare. Israele ha buone ragio­ni di pensare che l'attacco sia necessario?
In­tanto, nessuno ci avvertirà, resteremo co­munque stupiti. Ogni attacco a sorpresa, sia quando si voglia uccidere un terrorista (lo sceicco Yassin, nel 2004) o distruggere una struttura (il reattore di Osirak, nell'81) sfrutta un'occasione. Per un attacco importante in genere si apre solo per pochi minuti un'occa­sione unica che non tornerà. Stavolta, ma è pura speculazione, potrebbe essere fornita dai recenti movimenti collegati alla nuova centrale struttura di arricchimenti di Fordo, annunciata dagli ayatollah: un'altra linea ros­sa superata da una classe dirigente che si fa sotto ogni giorno di più roteando i pugni.
La sfida del nuovo sito concorderebbe con l'annuncio di Olli Heinonen, ex vicedirettore dell'Agenzia Onu per l'Energia Atomica:
l'Iran con i ritmi attuali di arricchimento avrà la bomba entro un anno. L'annuncio viene con un commento di Netanyahu sul fatto che l'Iran «oscilla per la prima volta»: mentre la sua inflazione è al cento per cento ed è colpi­to­da sanzioni che impoveriscono la popola­zione, sparisce la fiducia patriottica in una leadership fissata sull'atomica. La fissazione degli ayatollah si esprime in molti gesti di sfi­da all'Occidente, come la minacciata chiusu­ra di Hormuz, l'uso terroristico degli hezbol­lah a diverse latitudini, ultimamente in Thai­landia, l'invio a Bashar Assad di aiuti armati, la costruzione di una alleanza antiamerica­na e antisemita con il Venezuela… Queste continue urlate sfide convincono della temi­bi­le irrazionalità della leadership khomeini­sta, protesa alla dimensione messianica e ca­t­astrofista dello sciismo militante.
Israele attaccherà? Non può aspettare trop­po: il rischio che un Medio Oriente nucleare a causa di Ahmadinejad, diventi dissemina­to di atomiche saudite, egiziane, del Golfo… tutto in una funzione antiraniana che subito può diventare antisraeliana.

Gian Micalessin: " Obama si prepara al blitz israeliano in Iran "

Israele si arma e l’America tre­ma. A Washington lo chiamano il paradosso Iran. Quel che a parole suona come un grattacapo è in re­altà un incubo strategico. Un incu­bo da cui nessuno al Pentagono o alla Casa Bianca sa come liberar­si. Israele,il miglior alleato medio­rientale – la nazione a cui Washin­gt­on non ha mai lesinato finanzia­menti e forniture militari ­non risponde più, si rifiuta di far sapere se e come in­tenda colpire l’Iran.
Il nervosismo america­no nasce innanzitutto da alcune recenti dichiarazio­ni uff­iciali dei vertici di Ge­rusalemme. «La sicurezza non si basa solo sulla capa­cita di difendersi, ma an­che sulla capacità di attac­care », ha ricordato lo scor­s­o 31 ottobre il primo mini­stro israeliano Benjamin Netanyahu in un discorso alla Knesset. E il 5 novem­bre il presidente Shimon Peres ha aggiunto che l’ipotesi di un raid è «sem­pre più probabile».
La decisione iraniana di spostare tutti i laboratori per l’arricchimento del­l’uranio in una base segreta scava­ta
nel cuore di una montagna non contribuisce certo a rasserenare gli animi. La mossa iraniana, an­nunciata nei giorni scorsi, viene considerata una delle cosiddette «linee rosse» capaci di scatenare l’intervento dello Stato ebraico.
Per evitare sorprese Washin­gton, secondo il
Wall Street Jour­nal , ha già messo a punto un pia­no d’emergenza per fronteggiare le conseguenze dell’intervento militare israeliano. Per compren­dere le preoccupazioni america­ne basta dare un’occhiata ad una cartina geografica. Dopo un raid degli aerei con la stella di Davide, l’Iran potrebbe non solo colpire lo Stato ebraico utilizzando i missili di Hezbollah, ma anche attaccare le basi a stelle e strisce in Afghani­stan o tenere nel mirino quelle in Bahrein, Kuwait e Arabia Saudita, oltre che lanciare una serie di at­tentati contro il personale civile americano in Irak, Paese sempre più instabile dove ancora ieri un kamikaze ha ucciso 53 sciiti.
Non più tardi di ieri la Suprema Guida iraniana Alì Khamenei ha attribuito agli americani la re­sponsabilità per l’eliminazione di
uno scienziato nucleare ucciso con tutta probabilità da sicari del Mossad. In caso di raid israeliano la reazione non sarebbe diversa. Anche perché questo garantireb­b­e una più vasta possibilità di rap­presaglia. L'ambasciata e le altre sedi diplomatiche in Irak dove ­dopo il ritiro militare - lavorano circa 15mila fra tra diplomatici, di­pendenti federali e contractor so­no, da questo punto di vista, gli ob­biettivi più vulnerabili.
Proprio per questo il Pentago­n­o ha inviato una seconda portae­rei nel Golfo Persico e ha messo in stato d’allerta i 15mila militari di­spiegati in Kuwait e considerati la
principale forza di deterrenza nei confronti della Repubblica Islami­ca. Washington sta inoltre posizio­nando altri disp­ositivi militari e ac­celerando il trasferimento di armi e aerei ai principali alleati nella re­gione tra i quali gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita.
E mentre l’America si prepara
al peggio, la diplomazia dello Sta­to ebraico si guarda bene dal tran­quillizzarla.
«La politica del no­stro governo è far sì che tutte le op­zioni restino sul tavolo. È cruciale – ha fatto sapere l’ambasciatore israeliano a Washington, Michel Oren - che Teheran prenda tutto questo molto seriamente».

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