Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 04/01/2012, a pag. 34, l'articolo di Raimondo Bultrini dal titolo "L´ombra della sharia sul paradiso dei turisti".
Bali
I capelli imbrillantinati all´indietro, le basette lunghe, un gessato scuro da diplomatico Anni ‘30, lo stemma della famiglia al petto. Oggi che ne ha 28, si può già vedere come sarà a 50 anni Suyasa III, fondatore del Centro Sukarno, da lui istituito nel cuore di Bali e dedicato al primo presidente dell´Indonesia. Nel sito Facebook, aperto "a chiunque voglia interloquire con Sua Maestà", lui si presenta così: «Dr. Shri I Gusti Ngurah Arya Wedakarna Mahendradatta Wedasteraputra. Re di Majapahit Bali». Nel titolo lascia intendere di essere l´erede della più grande dinastia di sovrani hindu che regnarono su Giava dal XIV al XVI secolo, prima di fuggire a Bali con l´arrivo dei califfi islamici conquistatori delle attuali 13mila isole. Il giovane Suyasa III, vero o falso monarca che sia, non nasconde le sue mire condivise da molti altri nazionalisti e religiosi balinesi come lui: «Se il sistema non fa qualcosa per proteggere la nostra cultura tradizionale, noi giovani e le donne di Bali, faremo una rivoluzione».
Bali, l´Isola dei sorrisi e delle mille divinità, è l´unica enclave hindu nel Paese islamico più popoloso al mondo, nonché una delle dieci destinazioni turistiche più celebri del pianeta, ricca di spiagge mozzafiato, verdissimi campi di riso, vulcani spenti e attivi, templi d´ogni foggia e dimensione. Secondo Suyasa III e i nazionalisti suoi pari, il movimento dei diritti civili guidato dalla celebre psichiatra di Denpasar Luh Ketut Suryani, esporrebbe Bali a una progressiva e «intollerabile giavanizzazione». Una parola che qui è sinonimo di islamizzazione, anche se la percentuale di musulmani sull´Isola non supera ufficialmente il 10 per cento dei 4 milioni di abitanti. Paramananda Muni Daksa, leader di una grande associazione di ashram, i centri spirituali degli hindu, protesta: «Ci sono 1200 nuove moschee a Bali, e 800 sono concentrate a Kerobokan, a ridosso di affollati centri costieri. Fino a pochi anni fa si contavano sulla punta delle dita. Al Parlamento di Bali sono rappresentati 3 partiti islamici, il Pks, Pan e PKB, mentre nel 2004 non ce n´era nessuno». Daksa azzarda: «Dietro ci sono i soldi della Shaarya bank (Banca della Guerra santa, ndr) e della Muamalat, entrambe fondate dai gruppi islamici ortodossi wahabiti del Medio Oriente, che concedono prestiti senza interessi ai musulmani per aprire business o acquistare terre da noi».
Il rettore dell´Università di Studi vedici I Made Titib respinge le critiche dei nazionalisti. «Quello islamico è un fenomeno in crescita. Ma non sarei così allarmato, perché noi induisti dobbiamo ai musulmani indonesiani tolleranti la nostra sopravvivenza e la libertà di culto. Inoltre dai tempi dei primi boom turistici degli Anni ‘60 e ‘70, Giava incassa da hotel, ristoranti, attività commerciali dell´isola parecchi miliardi di tasse, che finiscono nelle tasche dei politici di Giakarta».
Il leader dei centri spirituali Parabananda ammette che il "fenomeno islamico" è controllato. «Ma appena diventeranno forti, cercheranno di imporre la sharia», indovina. «Lo hanno già fatto distruggendo i nostri templi di Lombok, imponendo la legge contro la pornografia o sulla pianificazione familiare. Noi balinesi ci limitiamo a fare due figli al massimo, ma i musulmani no perché hanno 3 o 4 mogli». Inoltre, «con i soldi delle nostre tasse i giavanesi investono a Bali, aumentando la dipendenza dell´Isola dallo Stato "madre"». Succede perfino con il cibo: oggi molte famiglie balinesi non potrebbero vivere senza i piatti warung cucinati dagli immigrati, disponibili nei banchetti di strada a poche rupie, nello stile di Madura, di Padang o della stessa Giakarta e con la dicitura halal, il marchio igienico dell´Islam.
Non solo. I padroni degli alberghi o dei negozi preferiscono assumere personale giavanese, perché i dipendenti locali se ne stanno a casa 150 giorni su 365. Il motivo è che sono richiesti dai capi dei loro villaggi per preparare le decine di cerimonie annuali in favore degli dei, come prescrivono i regolamenti vigenti in tutta l´isola. Per questo oggi i tradizionalisti balinesi si dividono tra quanti vorrebbero preservare lo stesso numero e tipo di rituali per ogni occasione e quanti invece sarebbero disposti a ridurli al minimo, per salvare l´economia e i posti di lavoro in questa sfida alla globalizzazione e all´immigrazione giavanese.
Ma gli isolani sono come attori di una rappresentazione perenne che i turisti ormai reclamano di diritto, parte del pacchetto "tutto compreso" che include spiagge, vulcani, fiori esotici, risaie, statue d´ogni foggia e dimensione. Dalle cerimonie il popolo non trae però nessun profitto economico diretto e anzi la sempre più massiccia presenza islamica è associata al declino degli introiti familiari dei balinesi e alla perdita di lavoro dei giovani. Pochi vogliono assumerli, visto che gli immigrati si adattano meglio a ogni lavoro con poco salario e stanno a casa solo una volta l´anno.
Secondo Surpi Aryadharma, giornalista veterana del Bali Times e docente universitaria, la trasformazione dell´isola è un processo irreversibile e le terre vengono comprate in grossi lotti dagli immigranti ricchi e distribuite in tanti frammenti senza controllo. Secondo le sue ricerche, oggi gli hindu sono poco più dell´80 per cento contro gli oltre 90 di appena sette anni fa. «In quanto cittadini indonesiani, quelli di religione islamica hanno lo stesso nostro diritto di lavorare a Bali e dopo un certo tempo possono ottenere la residenza. Ogni 20 famiglie con carta d´identità balinese, si può teoricamente aprire una moschea, ma ne bastano 3 o 4 per una mussolla, una stanza di preghiera. La nostra tolleranza - secondo Surpi - è anche il nostro tallone d´Achille».
Alla periferia della grande e caotica Denpasar ci fermiamo in una strada costellata di vicoli nel villaggio di Panjer. Ragazzine col velo e la borsa della scuola si alternano a uomini e donne nello stile arabo. «Nel 2007 qui vivevamo solo noi. Oggi ci sono 250 famiglie di balinesi e 700 di immigrati musulmani», spiega Agung, il capo villaggio, nel suo piccolo negozio emporio. «Vista la rapidità con cui crescono - prosegue - gli abbiamo proibito di aprire tante moschee quante ne prescriverebbe la legge e facciamo continue ispezioni nei loro luoghi di riunione».
Ma molti non condividono gli allarmismi dei nazionalisti hindu. «I benefici del turismo fanno comodo a tutti», assicura il console onorario italiano Pino Confessa, che vive qui da decenni ed è sposato a una donna locale. E in effetti dopo le bombe islamiche del 2002 e del 2005, Bali vive una relativa pace. Anche nel vicino Kalimantan tutto sembrava filare in apparente tranquillità, prima che i tribali dell´etnia dayak rispolverassero dieci anni fa le loro asce di guerra per cacciare a colpi di machete gli immigrati islamici maduresi accusati di aver monopolizzato le terre, gli affari e la religione. La cultura animista che ispirò quelle sanguinose rivolte, culminate con la decapitazione di 500 maduresi, è simile alla cultura originaria di Bali, presente ben prima che l´induismo sovrapponesse mille anni fa i suoi dei agli spiriti locali. Da qui la sensazione che un nuovo vulcano stia agitandosi inquieto sotto la superficie del Paradiso.
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