Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 02/01/2012, a pag. 31, l'articolo di Francesco Mimmo dal titolo "Le vie segrete dell´oro nero l´emiro dietro gli ultrà islamici". Dal GIORNALE, a pag. 14, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " La primavera araba mai arrivata: I nuovi leader peggio dei raìs ".
Ecco i pezzi:
La REPUBBLICA - Francesco Mimmo : "Le vie segrete dell´oro nero l´emiro dietro gli ultrà islamici"
L'emiro del Qatar
«Scatenate il vostro potenziale». Lo slogan dell´onnipresente Qatar Foundation, longa manus economica e culturale dell´emirato arabo, ti accoglie ovunque nella capitale Doha. Intanto il Qatar ha scatenato il suo, di potenziale. Un flusso di denaro enorme, grazie a petrolio e gas, che rendono i suoi pochi cittadini i più ricchi del mondo. Dal lungomare che chiude la sabbia del Golfo Persico in una «cornice» di grattacieli, Doha guarda alla Primavera araba e all´Occidente con un intreccio di interessi e influenza, che arriva dall´Afghanistan fino alle banlieu parigine. Con un solo obiettivo: diventare una grande potenza nel mondo arabo attraverso finanziamenti massicci agli islamisti (salafiti, Fratelli musulmani, Hamas, persino i Taliban), che hanno raccolto l´eredità dei dittatori caduti.
Petrodollari e diplomazia li respiri appena ti avvicini a Education City, il cuore delle attività della Fondazione, che ospita un centro congressi inaugurato a dicembre con due eventi scelti non a caso: il World Petroleum Congress e il Forum dell´alleanza delle civiltà dell´Onu. Con 177mila metri cubi e una facciata di tubi di acciaio tra pietre e prato artificiale, rappresenta un albero sul deserto. E indica quello che il Qatar vuole diventare: un gigante con i piedi ben saldi sulle sue ricchezze e rami protesi in tutto il mondo.
L´emiro Al Thani ha cominciato la sua scalata a metà Anni Novanta. Il primo mattone è stato Al Jazeera, oggi influente in tutto il Medio Oriente. Ma nell´ultimo anno con la Primavera araba ha alzato il tiro, approfittando della sonnolenta politica estera saudita, condotta da una leadership ultraottantenne, che deve affrontare anche tensioni interne. Il Qatar ha appoggiato da subito i ribelli in Libia ed Egitto. Anche perché tentavano di scalzare leader «laici» come Gheddafi e Mubarak, mai benvisti in un Paese dove vige la sharia. E che in passato avevano indirizzato attacchi, irriverenti, all´emiro. Gheddafi lo sfotteva per la sua stazza, Mubarak aveva definito il suo Paese «una scatola di fiammiferi».
Ma quanti soldi ci sono nella scatola di fiammiferi? Tanti. Riserve per 25 miliardi di barili di greggio. E 77 milioni di tonnellate all´anno di gas liquido, un quarto dei consumi europei. Ricchezze che garantiscono 70 miliardi di avanzo di bilancio. Una bella base per guardare oltre i propri confini. L´emiro ha sistemato i potenziali conflitti interni concedendo un aumento del 60 per cento ai dipendenti statali, e fissando per il 2013 un round di elezioni (tanto il Parlamento ha solo potere consultivo). Poi ha messo nel mirino le rivolte arabe. La Libia innanzitutto.
Già a febbraio Gheddafi tuonava contro Al Jazeera. A Doha è stata ospitata una tv dei ribelli. E dopo la guerra mediatica, l´emiro ha portato in Libia la guerra vera. Armi ai ribelli, poi un intervento militare sul campo. Ma le mire del Qatar non si sono fermate alla caduta del raìs. Tanto che l´ambasciatore all´Onu della nuova Libia se n´è apertamente lamentato: «Vogliono dominarci». Poi l´Egitto. Per la ricostruzione del dopo Mubarak, Al Thani ha subito messo sul piatto 500 milioni di dollari e ha promesso dieci miliardi.
Ma il Qatar non fa beneficenza e ha un´agenda chiara. All´emiro, sunnita wahabita, viene attribuito il sogno di un panarabismo sotto l´Islam radicale. Da anni ospita attivisti islamici in esilio e sostiene Hamas (irritando l´alleato americano). Ci sono voci, persino sulla stampa qatariota (controllata dall´emiro), dell´imminente apertura di un´ambasciata dei Taliban a Doha. In questo quadro rientrano anche i 20 milioni, almeno, entrati in Egitto per la campagna elettorale dei salafiti.
Poi l´Occidente. In Qatar c´è la più grande base militare americana dell´area, proprio di fronte all´Iran. Ma con Teheran i rapporti sono ottimi, cementati anche da un maxi giacimento di gas. Tanto grande che nell´accordo per la base c´è la garanzia che non verrà mai preso di mira dagli aerei americani. E la Francia: investimenti massicci dal calcio fino a 50 milioni di euro per le banlieue di Parigi.
Il Qatar vuole un posto al sole e vuole fare affari. «Un primo risultato c´è già - spiega Abdullah Antepli, islamista turco della Duke University, relatore al Forum Onu di metà dicembre - l´equilibrio si è spostato. Nei Paesi della Primavera araba non si guarda più all´Europa ma ai Paesi del Golfo. Gli islamisti puntano sulla lotta alla corruzione. Agli europei viene rinfacciato di aver curato per decenni solo i propri interessi. E il simbolo di tutto questo è stato il baciamano di Berlusconi a Gheddafi. Ma non abbiate paura degli islamisti, sapranno stemperare l´estremismo. Come in Turchia, dove oggi governa chi anni fa voleva la Sharia». Una tendenza alla moderazione, però, che è ancora un´incognita.
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " La primavera araba mai arrivata: I nuovi leader peggio dei raìs "
La chiamavano primavera,ma quest’anno non arriverà. La stagione delle illusioni se n’è andata,ha lasciato posto allo sconforto di una rivoluzione mai germogliata. Lo dicono a Sidi Bouzit dove la fiammata e il sacrificio del venditore ambulante Mohammed Bouazizi accese la rivolta tunisina. Lo ripetono le folle egiziane di piazza Tahrir. Lo gridano qui a Maidan Al Shajara, la Piazza dell’Albero nel cuore di Bengasi dove i lavoratori neri in tuta e caschetto giallo fedeli a Gheddafi randellarono i dimostranti dando vita alla leggenda dei mercenari al soldo del raìs.
Dieci mesi dopo la piazza è di nuovo piena con i sacchi a pelo srotolati e le tende coperte di murales. Ci sono gli invalidi di guerra con i moncherini fasciati. Ci sono i reduci in mimetica e scarponi, gli intellettuali verbosi, gli arrabbiati cronici. Tutti di nuovo in piazza. Tutti di nuovo a gridare slogan al cielo. Tutti pronti a inveire contro i nuovi «raìs». Ibrahim Musmari ha 25 anni compiuti da poco. Le due gambe dilaniate da un razzo esploso davanti alla sua jeep sono rimaste su una duna di Brega. Fino a una settimana prima era solo un fabbro. Raccoglieva ferraglia, la plasmava tra incudine e martello e ci ricavava quel che bastava per vivere. Poi ha imbracciato il kalashinikov, s’è sentito un eroe. «Quando mi svegliai all’ospedale e scoprii di essere vivo mi arrabbiai. Avrei preferito essere già in paradiso. Gli amici mi dissero “sii felice, ora sei un eroe hai dato metà di te per la rivoluzione”.Mi mandarono a curarmi in Qatar e poi in Grecia. Non avevo più le gambe ma tutti mi aiutavano. Poi hanno ucciso Gheddafi e io mi sono ritrovato qui a Bengasi, senza un soldo, senza un sussidio, senza un grazie. Non sono più né martire, né eroe. Sono solo un rottame. Sono come quei pezzi di ferro con cui mi guadagnavo da vivere. Mi hanno usato e venduto ».
Dietro alla carrozzella dell’invalido si fan largo le urla di Mararfel Sway. Ha 50 anni, dirige un sindacato e nonostante cammini ancora sulle proprie gambe sembra molto più infuriato del povero Ibrahim. «Perché grido? Perché urlo? Leggiti quei 18 punti - sbraita puntando il dito contro il manifesto appeso a un palazzo - vogliamo che il Cnt (Consiglio Nazionale di Transizione) ci dica come usa i soldi del petrolio, vogliamo sapere quando ci sarà un’elezione e come gestiranno il nostro futuro. A dieci mesi dalla rivoluzione non conosciamo neppure i nomi di tutti i componenti del Cnt, l’identità di molti continua ad esser segreta... e sai perché? Perché sono gli stessi che controllavano soldi e istituzioni con Gheddafi».
Anche tra i giovani ritornati nella Piazza dell’Albero il refrain più di moda è trasparenza.
«Il potere del Cnt è oscuro come una finestra infangata- s’infervora il 23enne Mohammad Albajenie. A febbraio bivaccava nelle tende dei Giovani per il Cambiamento piantate davanti al tribunale,sognava l’eldorado petrolifero di una Libia trasformata in nuova Dubai. Ora per pagarsi l’università lavora in un supermercato e la sera corre in piazza per urlare la propria delusione: «Ci hanno promesso la democrazia perché non si dimettono? Non sono stati né scelti né eletti, sono lì solo perché erano gli unici a disposizione, devono andarsene a casa, vogliamo un Cnt eletto dal popolo».
La rabbia di Maidan Al Shajara a Bengasi è la stessa respirata due settimane fa a Sidi Bouzit in Tunisia. Nell’epicentro di tutte le rivolte arabe del 2011 Moez e gli altri colleghi del carrettiere martire Mohammed Bouazizi, ripetono in coro un solo concetto. «Lui è morto e ci ha regalato la libertà di protestare, ma quelli arrivati dopo Ben Alì non ci hanno ancora dato né lavoro né dignità. Qui la rivoluzione è solo uno slogan, tutti lo ripetono ma quando fanno i conti con il portafoglio scoprono di esser poveri come prima».
Un’identica frustrazione dilaga tra i tavolini del quartiere Bursa, la retrovia di piazza Tahrir dove i rivoluzionari della prima ora, i ragazzi e le ragazze ammaliati dal sogno di un Egitto democratico, laico e liberale fanno i conti con il tradimenti degli islamici e i fucili dei militari.
Alaa Alja, 22 anni, ti mostra i quindici punti di sutura nascosti sotto la fascia azzurra annodata sul capo. «Li vedi questi? I militari ci hanno tirato dei mattoni dall’alto di un palazzo, intorno a me i miei amici sono morti colpiti dai proiettili. In piazza quella sera c’eravamo solo noi. I Fratelli Musulmani, i salafiti, gli islamici ormai pensano solo alle elezioni e al potere. Ci hanno usati per cacciare Mubarak e ora lasciano che i militari ci facciano fuori. La rivoluzione un anno fa era un sogno, ora è solo un ricordo dal gusto amaro».
Per inviare la propria opinione a Repubblica e Giornale, cliccare sulle e-mail sottostanti