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Il Foglio Rassegna Stampa
29.12.2011 Israele/Stato palestinese - perchè un ritorno ai confini del '67 è impossibile
Intanto continua lo scontro 'laici/religiosi'. Analisi di Giulio Meotti, redazione del Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 29 dicembre 2011
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti - Redazione del Foglio
Titolo: «La nuova frontiera di Israele - Il 'mare nero' d’Israele. E’ battaglia fra i religiosi e lo 'stato di Tel Aviv'»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 29/12/2011, a pag. III, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " La nuova frontiera di Israele ", seguito dal pezzo redazionale dal titolo " Il 'mare nero' d’Israele. E’ battaglia fra i religiosi e lo 'stato di Tel Aviv'".
Ecco i due articoli:

Giulio Meotti - " La nuova frontiera di Israele "


Giulio Meotti

Nel 2003 il guru della sinistra radical Tony Judt pubblicò sulla New York Review of Books un lungo saggio dal titolo esplosivo: “Israele: l’alternativa”. Fece scalpore, perché proponeva di abbandonare la soluzione “due stati per due popoli”, rinunciare allo stato ebraico e costruire un solo stato multietnico e binazionale, in cui ebrei e arabi avrebbero vissuto in armonia. Scoppiò “l’affaire Judt”: incontri cancellati con l’accusa di antisemitismo all’accademico ebreo, conferenze revocate, picchetti di fronte alla sua università e il nome di Judt che scomparve dalla lista dei “contributing editors” di New Republic. Dieci anni dopo l’opzione di un unico stato, seppur in forme diverse, circola largamente anche sulla bocca di falchi israeliani come Moshe Arens e Reuven Rivlin. Meglio un solo stato, con le sfide demografiche che comporta, piuttosto che un altro stato arabo colluso col terrorismo e che si affaccia su Tel Aviv. Intellettuali israeliani moderati come Sever Plocker di Yedioth Ahronoth parlano esplicitamente di “punto di non ritorno”.
“Mezzo milione di israeliani vivono oggi al di là della Linea verde. Questa popolazione ebraica arriverà a 750 mila nel 2025. L’evacuazione di ottomila coloni da Gaza e il loro assorbimento in Israele è costato tre miliardi e mezzo di dollari. Evacuare gli israeliani nelle aree oltre i confini del 1967 costerebbe 18 miliardi di dollari. E’ irrealistico. Mezzo milione di ebrei oltre la Linea verde costituiscono il punto di non ritorno. Ci sono due popoli, ebrei e palestinesi, che non possono essere separati. E’ troppo tardi”.
Troppo tardi per “due popoli e due stati” sulle linee del 1967, la formula dominante dagli accordi di Oslo in avanti. All’epoca si imposero tre opzioni: Israele se è grande ed ebraica, non può essere democratica; se è grande e democratica non può essere ebraica a causa della demografia; se è ebraica e democratica non può essere grande. Da qui l’idea della “Havdalah”, in ebraico separazione.
E visto che nel lungo termine non è possibile dominare quasi due milioni di arabi se si vuole difendere l’assetto democratico d’Israele, spuntano le “alternative”. Teorie che si barcamenano fra il “sionismo territoriale” della destra e quello che l’intellettuale laburista Shlomo Avineri definì nel 1982 “sionismo sociologico”, cioè l’ebraicità dello stato non dipende dall’estensione del suo territorio, ma dalla “qualità” della sua popolazione (è preferibile uno stato più piccolo e con meno arabi a uno più esteso però con il rischio di diventare multiculturale).
Yitzhak Rabin riprese questi principi quando, nel 1993, lanciò l’idea di costruire lungo le zone palestinesi una linea di confine “simile a quella che corre lungo il Libano”. Due popoli vicini, in pace ma separati. Da allora ci sono stati duemila morti ebrei per mano del terrorismo islamico, il conflitto è diventato sempre più religioso, l’Iran degli ayatollah si è imposto nella regione, Hamas e Fatah si sono divise in due entità (Gaza e Cisgiordania) e i coloni sono diventati una forza politica, economica e demografica sensazionale. Israele inoltre sa che la leadership palestinese vuole usare il proprio stato arabo contro quello ebraico, di cui rifiuta l’esistenza. I palestinesi non accettano la demilitarizzazione e il controllo da parte d’Israele dei suoi confini, specie nella valle del Giordano. Abbandonare gli insediamenti ebraici, pegni di una sicurezza e di una memoria storica vitale per Israele, appare sempre più impraticabile. Un recente studio del Macro Center for Political Economics rivela che gli insediamenti in Cisgiordania hanno un valore di 18 miliardi di dollari.
Difficile pensare che Israele li possa distruggere o abbandonare come fece Ariel Sharon a Gaza nel 2005. In termini umani inoltre il disimpegno dalla Cisgiordania comporterebbe la rimozione tramite l’esercito di 100 mila ebrei, i più ideologici e motivati. Israele rischierebbe una guerra civile interna. Uno studio pubblicato dal New York Times a firma di David Makovsky, analista del Washington Institute for Near East Policy, dettaglia i piani di evacuazione a cui stanno lavorando gli americani. Primo scenario, poco realistico perché giudicato sbilanciato a favore di Israele: “Israele annette le colonie di Ariel, Ofra, Beit El, ma esclude Kiryat Arba e Kedumim”. In questo caso, ovvero nella migliore delle ipotesi, Gerusalemme dovrebbe abbandonare 77 comunità e portare via 59.872 coloni.
Secondo scenario, più realistico ma lontano dai confini del 1967 posti come condizione dai palestinesi: 82 comunità da cancellare e 79.805 coloni da evacuare. Terzo scenario: 88 comunità e 94.226 persone. L’ultimo scenario è il più vicino alla richiesta della comunità internazionale ma ben lontano dalla volontà israeliana: 101 comunità e 132.599 persone da portare via. Significa che l’esercito israeliano dovrà combattere altri ebrei per demolire le colonie di Kedumim, Shilo, Elon Moreh, Kiryat Arba, Yitzhar, Itamar, Kfar Tapuach, Har Bracha, Maon e Sussiya, le più ideologiche e legate alla santità della terra. Ma significa anche che Ariel, capitale della Samaria post 1967, città all’avanguardia dell’high-tech e dell’università, con i suoi 17 mila abitanti, dovrebbe sparire. Altrettanto irrealistico.
Un piano propone di lasciare i coloni all’interno di un futuro stato palestinese. La teoria è stata formulata così sul Wall Street Journal da Hillel Halkin: “Molti settlers danno più valore alla Terra d’Israele che allo Stato d’Israele, è possibile che accetteranno di rimanere. Possono continuare a essere cittadini israeliani che vivono fuori dai confini dello stato, come i canadesi francesi nel Vermont. E’ vero, i palestinesi non sono come gli abitanti del Vermont e non amano i coloni. Ma in cambio otterrebbero l’abbattimento della barriera di sicurezza, confini aperti con Israele e il diritto di vivere e lavorare in Israele come palestinesi”. Il professor Hillman della Bar Ilan University sta studiando un progetto per applicare il modello jugoslavo ai settlers.
La proposta principale dei coloni resta quella degli “stati paralleli”: ebrei e arabi votano per Parlamenti separati condividendo lo stesso territorio, legando così la sovranità all’individuo e non alla terra. E’ un ritorno alla formula del fondatore della destra israeliana, Menachem Begin: “Autonomia agli abitanti ma non ai Territori”. E’ nata anche una “Jewish Authority”, ovvero il tentativo di una parte dei coloni di mantenere la sovranità ebraica sugli insediamenti se Israele abbandonasse la regione. Il generale della riserva Giora Eiland, già capo del Consiglio per la sicurezza nazionale, ex consigliere militare del primo ministro e uno dei più importanti strateghi israeliani, ha presentato alla Bar Ilan University “due alternative alla teoria dei due stati per due popoli”. Attualmente l’approccio dominante è quello della rassegnazione per cui “non c’è soluzione” e che è basato su alcuni presupposti: la terra da spartire è troppo poca per due stati; bisognerebbe evacuare 100 mila coloni; Israele non avrebbe “confini difendibili”; Gerusalemme andrebbe divisa e i palestinesi non rinunciano ai profughi. Eiland ha spiegato l’“opzione giordana”, ovvero la creazione di un regno arabo su “tre stati”: sponda est e ovest del Giordano e Gaza. Un po’ come la Pennsylvania e il New Jersey.
Questi tre stati avrebbero un budget, un governo, proprie leggi, una polizia e simboli di indipendenza, ma la politica estera e di difesa rimarrebbe nelle mani del governo “federale” di Amman. Il progetto è formulato in chiave anti Hamas e a favore di una Cisgiordania demilitarizzata: il regno giordano non potrebbe vivere con uno stato vicino dominato da Hamas. Poi c’è lo “scambio territoriale”: l’Egitto cederebbe a Gaza 720 km quadrati, una zona compresa fra Rafah, el Arish e il valico di Kerem Shalom; Israele in cambio darebbe agli egiziani un pezzo del Negev; lo stato ebraico potrebbe conservare il dodici per cento della Giudea e Samaria (come nel progetto originario della barriera di sicurezza) e smobilitare “soltanto” 30 mila coloni anziché 100 mila (garantendosi bastioni religiosi e nazionalistici come Ofra, Ariel e Kiryat Arba). L’idea di un solo stato, resa celebre per primo da Edward Said, il più poliedrico e cosmopolita intellettuale palestinese, è stata ripresa così dall’ex ministro della Difesa del Likud, un super falco come Moshe Arens: “I negoziati non procedono bene. Propongo di annettere la Giudea e la Samaria e dare cittadinanza a un milione e mezzo di palestinesi”.
Anche il presidente della Knesset, il leader del Likud Reuven Rivlin, ha aperto all’annessione: “E’ meglio far diventare cittadini i palestinesi che dividere il paese”. Anche Tzipi Hotovely, astro nascente della coalizione di Benjamin Netanyahu, alla Knesset ha presentato il programma “Alternative ai due stati”: “Sappiamo che la soluzione di un solo stato ha dei problemi, ma preferisco combattere i palestinesi in Parlamento piuttosto che con i carri armati”. Uri Elitzur, ex portavoce dei coloni, ha promosso un progetto di “graduale democratizzazione degli arabi”, mentre Emily Amroussi, già leader degli insediamenti, parla esplicitamente di “una sola terra in cui i figli dei coloni e i figli dei palestinesi vanno a scuola assieme”. Vista la realtà demografica che ne risulterebbe, pur oggetto di discussione, per tutelare la componente ebraica dello stato, alcuni leader dei coloni prefigurano un assetto costituzionale simile al Libano prima della guerra civile: un primo ministro ebreo, un vice arabo e una distribuzione di seggi parlamentari secondo etnie e non numeri, per tutelare l’equilibrio politico.
L’annessione dei territori invocata dalla destra si basa sulla “nuova demografia” che fa capo all’ex ambasciatore a Washington Yoram Ettinger e al Begin-Sadat Center: Israele può restare una democrazia ebraica anche garantendo la cittadinanza ai palestinesi della Cisgiordania. “Le cupe profezie demografiche sono false”, ha scritto Ettinger. “Gli ebrei israeliani sono la maggioranza con il 66 per cento a ovest della Giordania, contro l’8 per cento nel 1900 e il 33 per cento nel 1947. Nel 2011 la popolazione araba di Cisgiordania è stata gonfiata di un milione di persone (2,5 milioni anziché 1,5). E’ immaginabile che nel 2035 ci sarà una maggioranza ebraica dell’80 per cento nelle aree comprese fra la Linea verde e la Cisgiordania”.
Caroline Glick, senior editor del Jerusalem Post, ha dato voce allo scetticismo di una parte del Likud al governo: “Ci sono soltanto due opzioni: o i palestinesi assumeranno il controllo della Giudea e Samaria, o Israele annette i territori. Nel primo caso, avremo uno stato terroristico, come hanno dimostrato il ritiro da Gaza e dal sud del Libano. Assorbire la popolazione araba di Giudea e Samaria accrescerà la minoranza araba d’Israele dal 20 per cento al 33. Ovviamente è uno scenario con sfide legali e politiche, ma anche vantaggi e opportunità. Israele riassumerebbe il controllo militare dell’area, ceduto all’Olp nel 1996. L’annessione non è semplice, ma l’alternativa è il suicidio nazionale. Le opzioni sono che i palestinesi formino uno stato terroristico che dichiara guerra a un indifendibile stato ebraico o che Israele espanda le dimensioni dello stato ebraico”.
Il mese scorso il più celebre intellettuale palestinese, Sari Nusseibeh, ex consulente di Arafat, presidente della Al Quds University, ha detto che uno stato palestinese è “inutile”: “Non serve avere una bandiera e una moneta se poi non si migliora la vita dei cittadini”. Meglio “una federazione Israele-Palestina”, in cui “non si chiede ai coloni di andarsene” e i palestinesi vedano garantiti i diritti civili, in primis quello a spostarsi liberamente, ma anche i propri interessi economici. “Dovremmo lottare per l’accesso se non ai diritti politici, che gli israeliani vedrebbero come una minaccia, almeno a quelli civili di base, come spostarsi liberamente o accedere ai servizi sanitari senza ostacoli”. Nel tentativo di salvare la soluzione a due stati il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, propone il “modello Cipro”. La soluzione del conflitto con i palestinesi non verrà soddisfacendo le loro “aspirazioni territoriali massimaliste”, ma creando due stati, ebraico e palestinese, omogenei in termini di popolazione tramite lo scambio di aree popolate. La sinistra e gli arabi accusano Lieberman di “pulizia etnica”.
“Le attuali richieste di una parte della comunità internazionale – ha detto Lieberman - sono di creare uno stato palestinese puramente omogeno e uno stato binazionale in Israele. Ma per una pace duratura in sicurezza è necessario creare una reale divisione politica tra arabi ed ebrei che dia a ciascuno di loro il godimento dell’autodeterminazione. Perciò per una soluzione equa e permanente sono necessari scambi di territori popolati per creare due stati largamente omogenei, uno ebraico israeliano e uno arabo palestinese. Ciò non esclude alle minoranze che resteranno in ciascuno stato il riconoscimento di pieni diritti civili. Non è pensabile che si faccia uno stato palestinese senza ebrei e che noi ci trasformiamo in uno stato binazionale con una minoranza etnica superiore al venti per cento. Il suo legame con lo stato palestinese ci sbriciolerebbe”.
Lieberman porta come riferimento la piccola isola nel Mediterraneo: “Il mio modello è Cipro. Fino al 1974 greci e turchi vissero assieme, e versarono sangue. Da quando l’isola è stata spartita con i turchi da una parte e i greci dall’altra ci sono sicurezza, stabilità e prosperità. Lo stesso modello lo realizzerei qua”. Al posto del fallito slogan “land for peace”, terra in cambio di pace, Lieberman parla di “land for land”, terra per altra terra. Lieberman propone quello che francesi e tedeschi hanno potuto fare in Alsazia e Lorena. Israele dovrebbe spostare la Linea verde nello Wadi Ara e nel triangolo della Galilea per compensare l’annessione di insediamenti. Secondo numerosi giuristi però trasferire villaggi arabi sotto l’Autorità palestinese è contrario alla legge internazionale. Inoltre la maggioranza degli arabi israeliani, come quelli di Umm el Fahm, preferisce restare parte dello stato ebraico che vivere sotto un’altra autocrazia araba.
Originariamente il “transfer” della popolazione era una idea che circolava soltanto nell’estrema destra. Oggi anche l’Institute for Policy and Strategy di Herzliya, il più prestigioso istituto strategico israeliano, ha sdoganato l’iniziativa. E’ a favore anche Uzi Arad, una carriera nel Mossad e già consulente di Netanyahu. Alcuni membri del governo Netanyahu ritirano fuori dagli archivi il “Piano Allon”, avanzato nel luglio 1967 dall’allora ministro laborista Yigal Allon: Israele manterrebbe il controllo della valle del Giordano, di posizioni strategiche sulla dorsale montuosa tra Jenin e Hebron, di larghi settori sulle colline dominanti la costa tra Tel Aviv e Haifa e della regione che collega Gerusalemme al resto del paese. Alla Bosnia-Erzegovina guarda come modello Meron Benvenisti, ex vicesindaco di Gerusalemme negli anni Settanta, storico, esperto di conflitti tra comunità diverse, come nel caso dell’Irlanda del nord: “Una specie di confederazione divisa su base etnico-confessionale, formata da due entità politiche con governo e Parlamento largamente autonomi”. Altri esponenti della destra al governo pensano a soluzioni già applicate in altre parti del mondo: un Israele “federale”, in cui la maggioranza ebraica garantisce autonomia civile e culturale alla minoranza araba, come nel caso degli scozzesi in Gran Bretagna o dei baschi in Spagna.
I sondaggi però dicono che la maggioranza degli israeliani ritiene molto difficile pensare che due popoli che si combattono da cent’anni in nome di un progetto nazionale e religioso sarebbero disposti, come per incanto, a rinunciarvi per vivere insieme condividendo quanto vedono come esclusivamente loro. Come avvenne nei Balcani, evocati da alcuni dei nuovi strateghi come modello cui ispirarsi, lo stato multietnico, che si chiami “binazionale” o “confederato”, rischia di diventare l’anticamera della guerra civile. E per usare le parole hobbesiane di Elyakim Haetzni, uno dei capi dei coloni: “La vita sarebbe sgradevole, brutale, e breve… Soprattutto breve”.

" Il 'mare nero' d’Israele. E’ battaglia fra i religiosi e lo 'stato di Tel Aviv' "

Roma. A scatenare l’ira dell’Israele laica è stato il caso di Tanja Rosenblit. La ragazza, salita sull’ autobus che collega la città costiera di Ashdod a Gerusalemme, si era accomodata nella parte anteriore del pullman, che secondo i passeggeri ultraortodossi (haredim) è riservata agli uomini, e ha resistito a tutti i tentativi di costringerla a passare nella parte posteriore, oppure a scendere.
Il quotidiano Yedioth Ahronoth, con l’enfasi tipica della stampa liberal israeliana, l’ha paragonata a Rosa Parks, la donna afroamericana che nel 1955 in Alabama sfidò la segregazione razziale. Martedì migliaia di persone hanno manifestato contro gli ortodossi per le strade di Beit Shemesh, piccolo centro a sud di Gerusalemme, a seguito di un caso di presunta discriminazione nei confronti di una bambina.
Ciclicamente riesplode il sentimento di estraneità della parte ultrareligiosa nei confronti della leadership laica che, fin dai tempi di David Ben Gurion, li ha sempre chiamati “i pinguini”, “i parassiti” o “i neri”, per via delle calze bianche fino ai polpacci e i pantaloni alla zuava su cui calano giacche e palandrane di forma diversa, a seconda del gruppo di cui si fa parte. Il pubblico haredi è sempre più gonfio e immenso. Da anni chiede “autobus ultraortodossi” nei propri quartieri, in cui gli uomini e le donne possano viaggiare separati. Prendono a modello le concentrazioni ebraiche ultraortodosse negli Stati Uniti, dove simili bus esistono da tempo.
A Monsey, cittadina a maggioranza ebraica a nord di New York, gli autobus sono divisi da un paravento: da una parte gli uomini, dall’altra le donne. L’opinione pubblica liberal israeliana parla invece di una spia preoccupante verso il radicalismo confessionale. I partiti religiosi assicurano un terzo dei voti al premier Benjamin Netanyahu al grido di “Kaddosh, Kaddosh, Kaddosh” (Sanctus, Sanctus, Sanctus). Se negli ultraortodossi prevale oggi un sentimento addirittura di oppressione, come se abitassero in uno stato straniero, da anni la loro integrazione nella società israeliana è aumentata notevolmente. Sempre più ortodossi lavorano e servono nell’esercito. Sul Jerusalem Post l’ex rabbino capo dell’esercito, Avichai Rontzky, ieri ha scritto che è in corso una guerra culturale: “La cosiddetta élite – ashkenaziti non religiosi che vivono nel mezzo del paese in quello che è noto come lo ‘stato di Tel Aviv’ – percepisce la propria posizione minacciata dalla comunità nazionale religiosa”. Recenti studi dicono che entro due decenni, Israele avrà un terzo della popolazione ultraortodossa.

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