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La Stampa Rassegna Stampa
24.12.2011 Iraq: Le opinioni di Joshua Landis e Mitt Romney
2 articoli di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 24 dicembre 2011
Pagina: 13
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «E' guerra civile, ci ritroveremo in un nuovo Iraq-Romney attacca Obama: sbagliato lasciare l'Iraq»

Iraq senza più le truppe americane. Tra una strage e l'altra, ecco le opinioni del politologo americano Joshua Landis nell'intervista di Maurizio Molinari, con l'intervento del candidato alle primarie repubblicane  Mitt Romney, sponsorizzato da Bush padre, sempre in un pezzo di Maurizio Molinari. Entrambi sulla STAMPA di oggi, 24/12/2011:

Maurizio Molinari

"E' guerra civile, ci ritroveremo in un nuovo Iraq "

Joshua Landis

Bashar Assad ha deciso di battersi fino alla fine, scorrerà molto sangue e dopo di lui avremo una Siria lacerata dalle lotte interne»: ad affermarlo è l’arabista Joshua Landis, direttore del Centro di studi mediorientali all’Università dell’Oklahoma e autore della newsletter «Syria Comment», considerata una delle più accurate fonti su quanto avviene a Damasco.

Assad contesta le stime Onu sulle vittime, afferma che sono morti più militari che civili e nell’intervista alla Abc ha negato responsabilità nella repressione. A che cosa punta?

«Oramai è evidente che Bashar Assad ha deciso di combattere fino alla fine. Non sappiamo se lo stia facendo per timore di essere ucciso come Muammar Gheddafi, per salvare la sua famiglia e i suoi averi o perché è davvero convinto di potercela fare. Ciò che conta è che non ha alcuna intenzione di farsi da parte».

Quale scenario si apre?

«Quello di una lunga lotta interna, sanguinosa e feroce, perché al momento l’opposizione non è in grado di prevalere contro un esercito che resta in gran parte compatto a difesa del regime. Certo, le defezioni ci sono e la resistenza armata cresce di intensità, ma non è ancora in grado di sconfiggere l’esercito. Ciò significa che potremmo avere davanti un periodo di violenze crescenti, destinato a durare forse uno o anche due anni».

Che cosa manca all’opposizione?

«La coesione interna. Il consiglio nazionale siriano auspica una rivoluzione pacifica sul modello tunisino, ma in realtà in Siria si combatte nelle strade. I suoi appelli alle azioni non violente hanno scarso impatto. C’è un’opposizione militare che si muove da sola, si alimenta con i disertori e punta a uccidere i soldati».

Come prevede che sarà la Siria, quando tutto questo sarà finito?

«Sarà una nazione araba lacerata dai conflitto interni come lo sono oggi l’Iraq o il Libano. Sommerà conflitti etnici, religiosi e regionali. La Siria prima degli Assad ha avuto 40 anni di violente lacerazioni e saranno tali conflitti a tornare protagonisti, quando gli Assad non ci saranno più. È una nazione priva di un’unica identità, e questo sarà fonte di conflitti interni e instabilità esterna».

Come giudica la minaccia saudita di chiudere l’ambasciata a Damasco?

«Riad sta tentando di sostenere l’opposizione con mosse di grande visibilità ma di scarsa sostanza. Anche gli Stati Uniti hanno una strategia simile, ritirando e poi facendo tornare un ambasciatore che sostiene apertamente le proteste. Sono azioni tese a evidenziare l’isolamento di Bashar Assad e a favorire l’opposizione ma in realtà, al pari delle sanzioni, celano la decisione della comunità internazionale di non intervenire militarmente in Siria come è stato fatto in Libia. Né l’Occidente né la Lega Araba vogliono un’altra guerra perché sanno che l’esercito siriano non è quello libico. Sarebbe tutt’altra vicenda».

Quali sono le conseguenze di questa differenza di approccio?

«L’opposizione siriana è sola davanti a un apparato militare che resta compatto ed efficiente. Continua ad avere mezzi pesanti, truppe scelte, strutture di Intelligence, centri di comando e controllo e i suoi capi non temono di essere uccisi. È una situazione opposta a quella che abbiamo visto in Libia, dove furono i blitz della Nato a fiaccare il regime. Il confronto in Siria fra civili e militari è destinato a far scorrere molto sangue, offrendo a gruppi estremisti la possibilità di compiere attentati come quelli avvenuti a Damasco contro alcune sedi dei servizi di sicurezza».

" Romney attacca Obama: sbagliato lasciare l'Iraq "

Bush padre con Mitt Romney

È duello fra Mitt Romney e la Casa Bianca su Iraq ed economia. Interrompendo settimane di liti interne al campo repubblicano, l’ex governatore del Massachusetts chiama in causa il presidente Obama sulle violenze interetniche in corso in Iraq dall’indomani del completamento del ritiro americano. «Dovevamo riuscire a mantenere in Iraq un contingente fra 10 mila e 30 mila uomini ma Obama ha fallito e ora assistiamo a una grave ripresa delle violenze, sperando che abbiamo presto fine» dice Romney parlando a Littleton, in New Hampshire, per rimproverare alla Casa Bianca un ritiro affrettato che non ha tenuto conto delle condizioni di sicurezza sul territorio.

Il linguaggio di Romney è modellato sulle obiezioni che i comandi militari del Pentagono hanno sollevato negli ultimi mesi alla Casa Bianca, premendo senza successo per mantenere un ridotto contingente sul terreno. Non a caso Mike Rogers, presidente repubblicano della commissione Intelligence alla Camera, svela l’esistenza di un rapporto della Cia che preavvertì Obama dei rischi di violenze interetniche se il ritiro degli Usa fosse stato totale. «La Casa Bianca ha avuto un’abbondanza di analisi, consigli e suggerimenti sul rischio, ma non ne ha tenuto conto» lamenta Rogers. Ciò significa che Romney si prepara a sfruttare l’eventuale instabilità in Iraq come un’arma per evidenziare gli errori e l’incompetenza di Obama sulla politica estera, con una mossa tesa a raccogliere favori e consensi fra i militari come nella comunità di intelligence.

È una mossa che conferma il legame di Romney con l’establishment repubblicano di Washington, evidenziato dalla scelta dell’ex presidente George H. W. Bush di affidare alle colonne dell’«Houston Chronicle» una aperta dichiarazione di sostegno. «Rick Perry mi piace - ha dichiarato Bush padre, riferendosi al governatore del Texas, anche lui candidato con i repubblicani - ma non andrà molto avanti, mentre Romney è la scelta migliore per noi, perché somma stabilità, esperienza, saldi principi ed è una persona per bene».

Sebbene i portavoce dell’ex presidente si affrettino a spiegare che si tratta di «appoggio informale», il linguaggio di Bush è esplicito: «Romney è maturo, ragionevole e non è un bombarolo» ovvero non assomiglia a Newt Gingrich, l’ex presidente della Camera per il quale Bush non mostra eccessiva stima a causa «dell’imprevedibilità spesso dimostrata con rapidi cambiamenti d’opinione di cui sono stato a volte testimone». Anche nel 2008 Bush padre aveva puntato su Romney, scegliendo poi il silenzio dopo la nomination vinta da John McCain. Ora però la situazione è differente perché i sondaggi suggeriscono che l’ex governatore ha molte possibilità di prevalere nella sfida delle primarie.

A prendere sul serio Romney è anche la Casa Bianca e a provarlo è il vicepresidente Joe Biden, che sulla prima pagina del «Des Moines Register», il più diffuso quotidiano dell’Iowa, firma un lungo articolo nel quale ne attacca frontalmente le posizioni economiche: «Mitt Romney si accontenta di un’economia nella quale sono in pochi ad avere successo mentre i più restano indietro. Le sue proposte raddoppiano le politiche all’origine della maggiore calamità dalla Grande Recessione e aggravano l’assalto alla classe media».

Se il vicepresidente picchia duro è perché Romney lo accusa di voler costruire, con Obama, una «società dove il merito non conta». «Ciò che conta per noi sono i posti di lavoro» ribatte Biden. Al debutto delle primarie repubblicane mancano ancora dieci giorni ma la Casa Bianca non vuole perdere tempo nell’assalto al probabile sfidante.

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