Con il titolo "L'islam fanatico arruola tra i disperati delle carceri", LIBERO pubblica oggi, 23/12/2011, una accurata analisi di Souad Sbai sulla diffusione e reclutamento di futuri terroristi sul nostro territorio.
Souad Sbai
«Come ti senti? Hai qualcuno fuori che ti aspetta?». «No,sonosolo». «Non seipiùsolo fratello. Io ho la soluzione. Seguimi e un giorno sarai libero». Ecco il colloquio, raccontato da un ragazzo appena uscito dal carcere, fra un detenuto e colui che lì dentro ci marcisce perché ha fatto del fondamentalismo islamico la sua ragione di vita. Lo guarda negli occhi, legge le sue angosce, la sua paura nell’essere in carcere da solo e nel non sapere cosa sarà di lui quando sarà uscito. Non sa che la sua vita sta per cambiare. È entrato criminale comune, uscirà estremista islamico salafita. Da quel momento inizia un percorsoperverso, chedeviale menti dicoloro che dovrebbero essere riabilitati, portandole verso l’abisso della follia terroristica. Questo è il risultato della vicinanza, indiscriminata e pericolosissima, tra detenuti comuni e qaedisti salafiti nelle nostre carceri, cosa denunciata da tempo ma mai presa in considerazione dalle autorità italiane. Un brodo di coltura micidiale, che crea un esercito silenzioso di martiri pronti a distruggere la società occidentale. Oppure una schiera di mariti, amici, compagni e fratelli pronti a massacrare ogni donna che non sia prona ad un fanatismo estremista, distruttivo della sua libertà e dignità umana. Come se non bastasse, da organizzazioni vicine all’estremismo arrivano i cosiddetti “mediatori culturali carcerari”, il cui ruolo non risulta certificato in nessun accordo con lo Stato Italiano e la cui funzione non viene da nessuno controllata. I materiali che portano con sé, le lezioni che implicitamente impartiscono ai detenuti sotto forma di assistenza personale, l’indottrina - mento proselitista applicato senza alcun timore. Nessuno si fa illusioni sulla provenienza di quel materiale: l’Arabia Saudita, che foraggia la costruzione di una rete estremistaanche nelle carceri, laddove la dawa attecchisce veloce, cavalcando la solitudine e la ricerca di un punto di riferimento nel buio. Stupisce che anche istituzioni le quali dovrebbero avere un occhio attento alle carceri, come l’Ambasciata Marocchina, siano più attente a fondare Federazioni Islamiche lombarde dalle torbide radici, piuttosto che alla situazione carceraria in cui versano moltissimi marocchini. E soprattutto a come ne potrebbero uscire. E proprio mentre si parla demagogicamente di sovraffollamento delle carceri e di uscita anticipata per mancanza di spazio, mifa indignare la totale assenza di attenzione ai centri antiviolenza, in cui le donne vittime di quei reati che si vorrebbero “con - donare”, soffrono una pena a vita che non hanno fatto nulla per meritare, se non essere donnee mogli, sorelle e figlie. Si pensi piuttosto ad una seria politica di rimpatri immediati per chi durante la detenzione abbraccia la dottrina estremista salafita e diventa un pericolo per la nostra società, che al di fuori del penitenziario non può gestirne la pericolosità. Siamo al paradosso pericolosissimo per cui il carcere, che dovrebbe essere luogo di riabilitazione, crea terroristi salafiti pronti a divenire pedine di una rete più ampia, che li attende a braccia aperte fuori dal portone del carcere. E dire che dal maggio di quest’anno la Consulta per l’Islam Italiano presso il Viminale lavora su una bozza di documento per la formazione degli imam e dei mediatori da inviare presso le carceri, con la supervisione delle moschee. La questione salafita si sta sottovalutando e siamo solo all’inizio di questo processo di infiltrazione: lo testimonianole denunce di coloro che sanno cosa avviene davvero al freddo delle prigioni.
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