Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 22/12/2011, a pag. 20, l'articolo di Paolo Colonnello dal titolo "Ora che ho avuto giustizia voglio solo essere italiana".
" Lui non è più mio padre e io non sono più pakistana: mi sento soltanto una ragazza italiana ". Con queste parole Nosheen But ha commentato la condanna all'ergastolo di suo padre, colpevole, insieme al figlio, di aver assassinato la moglie a colpi di pietra e di aver tentato di assassinare anche lei perchè 'troppo occidentale' e per il suo rifiuto di sottomettersi a un matrimonio combinato.
Che il male appartenga all'essere umano e che i crimini vengano commessi ovunque, è un dato di fatto, ma è democratico cercare di imporre alla propria figlia un marito che lei non desidera e cercare di ammazzarla perchè rifiuta di obbedire? Fa parte della cultura occidentale considerare la donna inferiore all'uomo, come se fosse un oggetto? Fa parte della cultura occidentale massacrare a colpi di pietra la propria moglie perchè prende le difese della figlia? Fa parte della cultura occidentale tentare di uccidere a colpi di spranga la propria sorella perchè si integra nella società in cui vive?
Scontro di civiltà fra Occidente e islam? Com'è possibile negarlo?
Ecco il pezzo:
Non era più suo «padre» già da tanto tempo, da ancor prima che lui, Hamad Kahn But, 54 anni, operaio pakistano, tentasse di farle sposare un connazionale contro la sua volontà e poi uccidesse sua madre che si opponeva, a colpi di pietra in una sera di ottobre di un anno fa. E quando ieri il gup di Modena, Paola Losavio, ha condannato all’ergastolo l’uomo che con le sue gelosie e in nome della «reputazione» nella comunità pakistana le aveva rovinato la vita, la ventunenne Nosheen ha accolto la notizia dal suo avvocato Giorgio Pellicciardi come se le parlassero di un estraneo. «Lui non è più mio padre e io non sono più pakistana: mi sento soltanto una ragazza italiana».
Poi ha salutato l’anziana signora che accudisce da alcuni mesi per mantenersi ed è uscita per le strade di Modena a respirare il Natale, sognando un giorno di poter finire gli studi da modista e infine di poter difendere le donne che non hanno un futuro. Perché nella vita di Nosheen, immigrata di seconda generazione nella provincia grassa e operosa di Modena, non c’è più spazio per le tradizioni e i riti tribali di un paese lontano che non sente più suo. «Io vorrei solo poter finire la scuola e poi lavorare. Adesso mi sento serena. Non per la sentenza ma perchè ho deciso che voglio impegnarmi affinchè non succeda ad altri quello che è capitato a me. Alle ragazze che soffrono come ho sofferto io dico soltanto di non superare i limiti, di avere pazienza ma di non cedere mai».
«Vergogna della nostra famiglia» la chiamava sua padre quando le vedeva indossare un paio di jeans o la vedeva uscire con dei coetanei italiani. Finché una sera, il 3 ottobre del 2010, era tornato a casa con quell’idea pazzesca di farla sposare a un uomo più anziano, che lei non aveva mai visto. E quando Nosheen ha detto di no e ha spiegato che si sarebbe sposata soltanto per amore, davanti agli altri due fratelli e alla sorellina di 14 anni, il padre aveva iniziato a picchiarla facendosi aiutare da Umair, il figlio più grande. La madre, Sahnnaz Begum, aveva tentato di difenderla, così i due uomini le erano saltati addosso: Hamad But con un mattone in mano l’ha colpita più volte, lapidandola nell’orto, fino ad ucciderla. Mentre Umair, che aveva solo 19 anni, ha bastonato Nosheen prima con una spranga di rame e poi, quando questa si è rotta, ha continuato con una di ferro, lasciandola a terra in coma. «Un assalto preordinato contro le due donne», ha spiegato durante il processo a porte chiuse il pubblico ministero Pasquale Mazzei. Nella precedente udienza, Kahn Hamad But si era difeso parlando di «onore». Della sua «reputazione» irrimediabilmente perduta davanti alla comunità pakistana di Novi - il paesino in provincia di Modena dove avvenne il massacro - che quella sera assistette alle grida disperate delle due donne senza intervenire. Nemmeno una parola di pentimento per Hamad. I parenti pakistani si sono preoccupati di continuare a pagargli il mutuo della casa voltando le spalle a Nosheen e i suoi fratelli, rimasti orfani e separati in diverse comunità di accoglienza. «Non ho niente da dire alla comunità pakistana. Io mi sento soltanto offesa da loro e non voglio più avere a che fare con questa gente». Per sicurezza, il comune di Modena le ha trovato alloggio in una comunità protetta lontana dai luoghi famigliari. Nosheen, che era arrivata in Italia nel 2004, ha perduto tutto: una madre che amava, un padre che non riusciva più a capire («non lo odiavo, perché non è sempre stato così»), un fratello che l’ha tradita e picchiata e che è stato condannato a 20 anni per concorso in omicidio e tentato omicidio, guadagnandosi le attenuanti per l’età e lo sconto di pena per il rito abbreviato. «Ma Umair è l’unico che perdono, perchè lui era il preferito di mia madre e se mia madre lo amava non posso che amarlo anch’io», così parla Nosheen mentre si massaggia il braccio ancora ferito dalle sprangate di Umair. Intanto cammina piano per le strade di Modena accompaganta da Souad Sbai, la presidente dell’Associazione donne musulmane che con l’avvocato torinese Loredana Gemelli si è costituita parte civile chiedendo un euro simbolico di risarcimento, per lasciare il più possibile a Nosheen e i suoi fratelli, di 14, 16 e 18 anni. «Si parla sempre di violenze domestiche - dice Souad Sbai - ma questa è solo violenza culturale e religiosa, è il risultato di chi non ha nessuna intenzione di integrarsi. La strada da fare è ancora lunga. Tanto per cominciare sarebbe bello che il Presidente della Repubblica concedesse a questa ragazza la cittadinanza che ancora non ha e che il Comune di Modena s’impegnasse a pagarle gli studi. È l’unico modo concreto per risarcirla da ciò che ha subito». Nosheen, così minuta, sorride timida: forse un giorno ritroverà anche suo padre. Oggi ha ritrovato se stessa.
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