Il mistero dell'atomica di Saddam Hussein I dettagli nel libro mai tradotto di Jafar Dhia Jafar, padre dell'atomica irachena. Commento di Pio Pompa
Testata: Il Foglio Data: 21 dicembre 2011 Pagina: 6 Autore: Pio Pompa Titolo: «Il mistero dell'atomica irachena»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 21/12/2011, a pag. III, l'articolo di Pio Pompa dal titolo "Il mistero dell'atomica irachena".
Jafar Dhia Jafar, Pio Pompa, Saddam Hussein
C’è un libro che racconta le mire atomiche di Saddam Hussein, il dittatore iracheno contro cui l’America ha fatto due guerre, una all’inizio degli anni Novanta e una nel 2003. La seconda è stata dichiarata “finita” da Barack Obama la settimana scorsa – prematuramente. Queste missioni militari si sono trasformate in un attacco contro siti nucleari di cui nessuno sospettava l’esistenza, con la distruzione di fatto delle prove sulla volontà di Saddam Hussein di dotarsi di armi di distruzione di massa, inutilmente cercate da George W. Bush alla vigilia dell’invasione dell’Iraq. Così si finì nella trappola tesa dai servizi francesi, con la diffusione di documenti falsi sui tentativi iracheni di acquistare uranio grezzo (yellowcake) dal Niger e dalla stessa Agenzia atomica dell’Onu, allora diretta da Mohammed ElBaradei, attraverso pronunciamenti omissivi, ambigui e tardivi sul persistere o no delle mire nucleari di quel regime. Lo stesso ElBaradei è stato definito da una fonte di intelligence “pavido e infranciosato”, e gli ha ascritto gran parte della responsabilità per l’escalation nucleare di Teheran (si sospetta l’avvenuto perfezionamento di tre testate atomiche). Da questo deriva l’estrema attualità, mutatis mutandi, di un libro pressoché sconosciuto, “Oppdraget” (“L’incarico”), pubblicato a Oslo in sola lingua norvegese dalla casa editrice Spartacus nel gennaio del 2005 che costituirebbe, secondo Richard Wilson, professore di Fisica presso l’Università di Harvard ed estensore della prefazione, “una lettura indispensabile per chiunque vigili, ufficialmente e non ufficialmente, sulla proliferazione degli armamenti”. Di più: “La trattazione dettagliata di questo volume dovrebbe essere diretta non soltanto a tutti coloro che si occupano di frenare la diffusione delle armi nucleari ma, soprattutto, a garantire e rendere efficaci le ispezioni future”. Senonché, ed è forse la causa che ne ha limitato la diffusione assieme alle sue scomode verità, l’autore è nientemeno che Jafar Dhia Jafar, lo scienziato ritenuto il padre del programma nucleare iracheno, cui Saddam aveva conferito nel 1981, come reazione al raid israeliano contro la centrale di Tuwaitha nei pressi di Baghdad, “l’incarico” di procedere senza indugi allo sviluppo della bomba atomica. Ebbene, i fatti riportati da Jafar presentano aspetti del tutto simili a quelli che, con esito ben diverso, hanno reso possibile e incombente la minaccia nucleare iraniana. A partire dalla genesi dei percorsi nucleari seguiti dai due paesi, sull’onda del famoso discorso sugli “Atomi per la pace” tenuto dal presidente Dwight D. Eisenhower il 23 dicembre 1953 all’Assemblea generale dell’Onu, nel quale promise l’aiuto incondizionato degli Stati Uniti a tutti i paesi che desideravano avvalersi dell’energia atomica per scopi pacifici. “Al discorso – puntualizza Jafar – seguirono immediatamente i fatti: la commissione statunitense per l’energia atomica, la Usaec, iniziò a donare e diffondere grandi raccolte di testi scientifici, relazioni di ricerca e documenti relativi a quell’ambito scientifico che, fino a quel momento, erano stati tenuti segreti”. Iraq e Iran trassero entrambi beneficio da tale iniziativa tranne poi, negli anni seguenti, procedere a una diversificazione delle forniture allargando i rapporti a Francia, Gran Bretagna e Unione sovietica. Tuttavia è con l’avvento del regime Baath in Iraq, e di quello degli ayatollah in Iran, che l’applicazione a scopi civili dell’energia atomica muta il suo percorso, divenendo la migliore copertura per il suo utilizzo in campo militare. Ed è proprio ciò che ha in mente Saddam quando ordina al dottor Khalid Ibraim Said, direttore della centrale di Tuwaitha, di contattare l’amico e collega Jafar Dhia Jafar per invitarlo a rientrare in Iraq da dove si era repentinamente allontanato a causa “dell’atmosfera avvelenata” dovuta alla pesante ingerenza del partito Baath, espatriando in Gran Bretagna. Quello era il paese della formazione universitaria, lì aveva conseguito il dottorato in Fisica, presso l’Università di Birmingham, che, nella veste di ricercatore in fisica delle alte energie all’Imperial College di Londra, lo aveva collocato, ricorda Jafar, “in una posizione scientifica di primo piano presso il Centro europeo di ricerca sull’atomo a Ginevra (Cern)”. In ogni caso Jafar accetta l’invito rivoltogli da Saddam che solo dopo averlo sottoposto alle cure del Mukhabarat, il famigerato servizio segreto, e una detenzione protrattasi per diciotto mesi al fine di “garantirne la sicurezza personale”, si decise a riceverlo. “Era di una bomba atomica – racconta Jafar – che Saddam voleva parlarmi quando fui prelevato dagli arresti domiciliari a Masbah, il primo settembre del 1981, per essere condotto al palazzo presidenziale. Saddam era seduto alla scrivania in divisa. Si alzò e mi strinse la mano. Appariva molto nervoso per il bombardamento israeliano che soli due mesi prima, il 7 giugno, aveva distrutto i reattori Tammuz e Osirak della centrale di Tuwaitha”. Dopo essersi avventurato in un duro attacco contro Israele il rais entrò nel vero ubi consistam dell’incontro con Jafar Dhia Jafar, conferendogli ufficialmente “l’incarico” di sviluppare l’atomica irachena. Aggiungendo una raccomandazione: “Dobbiamo non soltanto ricostruire ciò che è andato distrutto nel bombardamento israeliano ma anche procurarci segretamente armi atomiche senza che il mondo se ne accorga”. Da qui in poi la narrazione di Jafar si fa più serrata e iniziano a emergere quegli aspetti, accennati più sopra, che accomunano, sia pure nella loro diversità temporale e conclusiva, i percorsi del nucleare iracheno e iraniano. Aspetti che ruotano, per Jafar, essenzialmente intorno al ruolo svolto prima dall’Aiea e poi dalla Francia. Non va dimenticato, suggerisce la nostra fonte di intelligence, il ruolo assunto dall’Iran nel 2003 alla vigilia dell’invasione dell’Iraq. Iniziamo dall’Agenzia atomica dell’Onu, che già negli anni Ottanta era considerata dagli ambienti accademici inadeguata e troppo politicizzata. Tant’è, scrive il fisico statunitense Richard Wilson nella prefazione al libro di Jafar, che il commento più lusinghiero era: “L’Aiea non è in grado di trovare un granello di sabbia nel Sahara”. Fu facile, dunque, per Jafar Dhia Jafar aggirarne le ispezioni nel corso dei lunghi anni che lo condussero, nel 1991 e a dieci anni esatti dall’incarico ricevuto da Saddam, vicinissimo alla realizzazione dell’atomica e, precisamente, come oggi per l’Iran, ad affrontare il problema finale degli inneschi e dell’adattamento delle testate ai missili a lunga gittata. Si avvalse anche del sostegno francese per via dei grandi interessi economici intessuti da Parigi con il regime di Saddam. Non a caso, ed è lo stesso Jafar a raccontarlo, fu la Francia a scatenare lo strike israeliano contro la centrale di Tuwaitha con le sue forniture di uranio altamente arricchito. “Anche i rifornimenti di combustibile per i nuovi reattori di Tuwaitha preoccupavano Israele. Nel contratto con i francesi, avevamo concordato che i reattori Tammuz 1 e 2 avrebbero utilizzato uranio arricchito al 93 per cento. Lo stesso impiegato nei reattori gemelli, Osiris e Isis, a Saclay vicino Parigi. Inizialmente ne sarebbero stati consegnati 70 chili. L’uranio con un grado di arricchimento così elevato ha, come il plutonio, una qualità tale da consentirne l’utilizzo per la produzione di armi nucleari. La bomba di Hiroshima si avvalse di uranio arricchito all’80 per cento. La consegna, da parte della Francia, di 70 chili di uranio arricchito al 93 per cento era più che sufficiente per l’allestimento di 4 o 5 atomiche qualora fossero stati dirottati verso impieghi militari”. A quanto pare, era proprio questo l’intento di Saddam: rendere l’attacco israeliano non solo opportuno ma, addirittura, indispensabile. Anche l’Iran, nel recente passato, tentò l’escamotage delle forniture da Francia e Russia di quantità di uranio arricchito sottoponendole, a differenza di quanto avvenuto in Iraq in quegli anni, al controllo dell’Aiea con il chiaro obiettivo di prendere tempo e distogliere l’attenzione dalle migliaia di centrifughe da tempo attive nei suoi siti nucleari. Nell’uno e nell’altro caso l’Aiea non si è mostrata all’altezza del compito affidatole. Molte sono le pagine che Jafar dedica ai medoti usati per aggirare le ispezioni dell’Agenzia atomica e non destare i sospetti dei servizi segreti occidentali e, in particolare, del Mossad: “Ogni anno effettuavamo migliaia di acquisti, fuori dai confini dell’Iraq, senza essere scoperti”. Il tutto era reso possibile, come nel caso dell’Iran, dalla complicità di alcuni paesi come Francia e Russia. La parabola del nucleare iracheno termina per caso e definitivamente nel 1991 con la guerra del Golfo, venendo poi riesumata, tra il 2002 e il 2003, in vista dell’invasione dell’Iraq. E’ in questo periodo che si consuma, stante la ricostruzione fornita da Jafar, una trappola ai danni del presidente George W. Bush. Una trappola che vede coprotagonisti, come detto all’inizio, l’Aiea, diretta da Mohammed ElBaradei, e i servizi segreti francesi. Il primo maggio del 2002, Jafar Dhia Jafar incontra al Palazzo di Vetro ElBaradei sottoponendogli un episodio, accaduto nel 1998, riguardante il comportamento avuto dall’ispettore capo dell’Aiea, Gary Dillon, che ripartendo da Baghdad al termine delle ispezioni aveva certificato l’avvenuto disarmo nucleare da parte del regime, impegnandosi a informare di ciò il Consiglio di sicurezza con una specifica relazione. Cosa che Dillon si guardò bene dal fare nel corso del suo intervento in quella sede. Jafar chiede a ElBaradei di fornirgli una spiegazione: “Non posso nascondere che alzai un po’ la voce quando il mio interlocutore iniziò ad ammorbarmi con il funzionamento dell’Agenzia atomica in tutte le sue parti. Fu pedante e fastidioso, e ritardò terribilmente la discussione sulle dichiarazioni complete e definitive che avevamo consegnato. Di fatto l’Agenzia usò due pesi e due misure. A noi dichiaravano una cosa, al Consiglio di sicurezza un’altra. Prima gli ispettori dell’Aiea ci assicurarono di considerare completato il disarmo nucleare iracheno salvo poi riunirsi con il Consiglio di sicurezza annunciando che non erano in grado di fornire, sull’Iraq, garanzie assolute”. Qui entra in scena il francese Jacques Baute, direttore dell’Ufficio per l’Iraq dell’Aiea, che impedisce a Jafar di prendere visione del dossier in cui l’Iraq viene accusato di voler acquistare ossido di uranio (yellow cake) dal Niger. “Chiesi di poter visionare i documenti di cui l’Agenzia atomica era in possesso, ma la mia richiesta non fu accolta. Baute li aveva ricevuti da un certo paese a condizione che non fossero mostrati alle autorità irachene. Io risposi che dovevamo, per difenderci dall’accusa, prendere visione dei nostri documenti visto che erano stati prodotti in Iraq”. Ne emerge una notizia clamorosa: Jacques Baute aveva ricevuto direttamente da Parigi, e non dall’Aiea o dalla Cia, i documenti in questione che il Dgse francese aveva trasmesso ai colleghi britannici dell’MI6 con la certezza, trattandosi di una palese bufala, di porre in grande difficoltà l’Amministrazione Bush. Quindi Baute mentiva, sapendo di mentire, quando insisteva con Jafar sui rapporti intercorsi tra Niger e Iraq. L’Aiea poteva dunque impedire che la vicenda del tentativo iracheno di acquistare uranio dal Niger finisse nel discorso sullo stato dell’Unione che George W. Bush pronunciò davanti al Congresso il 28 gennaio 2003. “Soltanto il 7 marzo – stigmatizza Jafar – ElBaradei prese coraggio spiegando che tutta la storia delle importazioni di uranio dal Niger era priva di fondamento. Ma non usò la parola falsificazione bensì disse che i documenti non si erano rivelati autentici”. Le omissioni, i colpevoli ritardi e le ambiguità dell’Aiea di ElBaradei, la stessa cui oggi va ascritta gran parte della responsabilità sulla vicenda dell’atomica iraniana, raggiunsero il culmine quando “a meno di due settimane dall’inizio della guerra”, scrive Jafar, “ElBaradei, intervenendo al Consiglio di sicurezza, dopo aver ritenuto inverosimili le accuse formulate contro l’Iraq, affermò che tuttavia era necessario continuare a studiare e approfondire la questione. Un’altra dichiarazione ambigua. Ancora una volta ElBaradei rinunciava a chiamare le cose con il proprio nome”. Esattamente come avvenuto nel caso del programma nucleare iraniano che, afferma la nostra fonte di intelligence, fu implementato da Teheran, nella sua versione militare, proprio nel 2003, quando Washington e i principali servizi segreti erano strenuamente impegnati nel conflitto iracheno. La strategia adottata fu duplice: da un lato mantenere alta la tensione in Iraq, fornendo alla resistenza armi e appoggi logistici, in modo tale da procedere quasi indisturbati nell’arricchimento dell’uranio per l’atomica; dall’altro assumere un atteggiamento di basso profilo proponendosi addirittura come un paese aperto alla mediazione e alla stabilizzazione della situazione irachena”. Quanto a Jafar Dhia Jafar, lasciò il suo paese nell’aprile del 2003 con il volo Emirates Airlines, EK 912, diretto a Dubai.
Per inviare la propria opinione al Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante