Israele, rapporti con gli arabi, la minoranza ultraortodossa, i coloni e la lana caprina Commenti di Giulio Meotti, A. B. Yehoshua, Sergio Romano, Rolla Scolari
Testata:Il Foglio - La Stampa - Corriere della Sera Autore: Giulio Meotti - A. B. Yehoshua - Sergio Romano - Rolla Scolari Titolo: «Kippah al comando - La Palestina e l’ignoranza di Gingrich - Israele, Stato ebraico oppure Stato degli ebrei ? - Il governo israeliano non ha un piano contro la violenza interna»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 16/12/2011, a pag. 1-4, gli articoli di Giulio Meotti e Rolla Scolari titolati " Kippah al comando " e " Il governo israeliano non ha un piano contro la violenza interna". Dalla STAMPA, a pag. 1-47, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " La Palestina e l’ignoranza di Gingrich ", preceduto dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 59, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo " Israele, Stato ebraico oppure Stato degli ebrei ? ", preceduta dal nostro commento. Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Kippah al comando "
Giulio Meotti, un soldato israeliano mentre prega
Roma. “Si chiama esercito d’Israele, non esercito di Dio”. Nahum Barnea, veterano del giornalismo israeliano, su Yedioth Ahronoth ha espresso così la propria frustrazione per la metamorfosi delle forze di difesa israeliane (Idf). Se ne torna a parlare mentre il governo di Gerusalemme evacua alcuni avamposti in Cisgiordania e si verificano scontri fra i coloni e l’esercito. E’ un dibattito sulla vita stessa d’Israele, perché l’Idf è l’anima dello stato ebraico. Nei giorni scorsi ha causato un terremoto il rapporto del centro studi dell’esercito: nel 2020 la Giudea e la Samaria, dove sorgono le colonie, saranno il primo bacino di arruolamento di soldati e ufficiali. Finora l’esercito era riluttante a fornire le cifre, perché acuiscono lo scontro sociale e ideologico. Come spiega l’analista Yossi Klein Halevi, “è la peggiore crisi interna affrontata dalla nascita della nazione”. Si cominciò a comprendere l’impatto di questa rivoluzione nei giorni del ritiro da Gaza, quando una petizione per contestare l’evacuazione dei coloni venne firmata da 10 mila tra soldati e riservisti. Anche se rappresentano una minoranza (600 mila persone su sette milioni e mezzo), i coloni assumono un peso sempre più vitale nelle unità combattenti e quindi nella sicurezza di tutto il paese. Lo confermano i dati appena pubblicati: il 61 per cento dei giovani nelle colonie si è offerto volontario in unità d’élite (nella zona borghese di Tel Aviv, la percentuale è del 36 per cento). Scrive il Jerusalem Post che fra i paracadutisti “tutti i vice comandanti sono ortodossi”. Il generale Yair Naveh è il primo religioso che guida il Comando centrale e ha una figlia che vive in un insediamento in Cisgiordania. “Tsahal diventa un esercito di periferie”, scrive Yedioth Ahronoth, secondo cui il contributo maggiore giunge – oltre che dalle colonie – dalle periferie povere e religiose, come Holon e Afula, una sonnolenta cittadina di provincia a nord di Tel Aviv. Nelle settimane scorse i religiosi hanno cercato di modificare l’omaggio cerimoniale dedicato ai caduti, l’Yizkor. Al posto della formula “Israele non dimentica”, le parole “Dio non dimentica”. Per mezzo secolo i giovani israeliani educati nei licei religiosi o appartenenti a famiglie ortodosse hanno avuto un rapporto problematico con la divisa. Da un lato, il disprezzo paternalista dei socialisti. Dall’altro l’ostilità dei rabbini e delle famiglie pie, convinte che il servizio militare facesse perdere la fede, dal momento che il 70 per cento delle reclute religiose diventava “laica”. Oggi non è più così: il 50 per cento dei religiosi diventa ufficiali; il 70 per cento serve in unità di élite; il 25 per cento continua la carriera militare; l’un per cento soltanto abbandona la religione. Demograficamente nelle colonie si cresce il doppio rispetto al livello nazionale (3,8 figli per famiglia contro 1,7). E’ sempre meno l’esercito del kibbutz e sempre più degli ebrei dalla pelle scura e del sionismo religioso, che vede una motivazione biblica nell’esistenza d’Israele. Sei colonnelli su sette della brigata Golani sono nazionalisti religiosi, così come il 40 per cento dei cadetti (negli anni Novanta erano il due per cento). “Le kippah prendono il controllo dell’esercito”, scrive il giornale Maariv. Nei buchi lasciati liberi dai rampolli dell’élite laica e ashkenazita si trovano oggi soldati che sotto la divisa cachi indossano il manto di preghiera, il tallit katan, memento permanente di chi fa della propria vita una testimonianza sacra.
La STAMPA - A. B. Yehoshua : " La Palestina e l’ignoranza di Gingrich "
A. B. Yehoshua
L'articolo è la risposta di A. B. Yehoshua alle dichiarazioni di Newt Gingrich circa l'inesistenza del popolo palestinese. Yehoshua scrive : "Anche gli Stati Uniti d’America non erano una nazione prima del 1779 bensì una colonia dell’impero britannico nel Nord America. Questo implica forse che i residenti di quei territori non avessero diritto di fondare un loro stato indipendente?". Il paragone non regge, perchè le due situazioni sono ben diverse. La guerra di indipendenza americana è stata una guerra di emancipazione. Le colonie americane si sono ribellate ai Paesi europei che le controllavano, si sono date una costituzione e sono diventate indipendenti. Non hanno mai messo in discussione l'esistenza e il diritto ad esistere degli Stati europei. Per quanto riguarda lo Stato palestinese, invece, esso sarebbe potuto nascere insieme a quello ebraico, come stabilito dalla risoluzione Onu del 29/11/1947. Sono stati gli arabi a rifiutare la spartizione del mandato di Palestina. I palestinesi coi quali Israele dovrebbe trattare non solo rifiutano qualunque compromesso, ma non riconoscono a Israele il diritto di esistere. Yehoshua scrive : "Il 29 novembre 1947 il rappresentante degli Stati Uniti, (...)votò a favore della spartizione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo.(...). Con che diritto il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti afferma che questa decisione non è valida o è un’invenzione?". Gingrich ha solo affermato che non è mai esistito uno Stato palestinese. Questa è pura e semplice verità. Il mandato britannico di Palestina non era uno Stato autonomo. Era un mandato, appunto, derivato dalla disgregazione dell'Impero Ottomano. Il nome 'Palestina' rappresenta una zona geografica, non uno Stato autonomo. Per questo ne consegue che non esiste un popolo palestinese. Esiste quello ebraico. Il popolo palestinese è solo un'invenzione, frutto della propaganda araba contro Israele. Questo è il senso delle parole di Gingrich. Yehoshua continua : "La difesa di Israele dipende forse dall’annessione di qualche chilometro quadrato di territorio palestinese in cui ora Israele stipa coloni ebrei? O dipende in primo luogo dai rapporti di pace e di fiducia che riuscirà a stabilire con i palestinesi e dalla demilitarizzazione di ogni arma offensiva nel loro territorio sotto stretto controllo internazionale?". Se gli arabi fossero interessati alla pace con Israele e fossero disposti ad accettare l'esistenza dello Stato ebraico, il problema non si porrebbe. E non si sarebbe posto già all'origine. Non è stato Israele ad attaccare gli Stati arabi per impedire la nascita di quello palestinese, ma il contrario. Come può esserci pace e fiducia con qualcuno che rifiuta il tuo diritto all'esistenza? E con un'associazione terroristica che lancia quotidianamente razzi contro la popolazione israeliana è possibile avere un rapporto di pace e fiducia? Il 'moderato' Mahmoud Abbas, poi, rifiuta di riconoscere Israele come Stato ebraico e si oppone alla nascita di uno Stato palestinese demilitarizzato. I confini del'67 sono indifendibili da potenziali attacchi non solo dello Stato palestinese, ma anche degli altri Stati limitrofi. Ecco il pezzo:
Se il candidato repubblicano nega la creazione di uno Stato palestinese, cosa ne pensa dei milioni di palestinesi che vivono in Giudea e Samaria? Mi hanno detto che Newt Gingrich, candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, è uno storico di formazione più ampia rispetto alla media dei membri del Congresso e del Senato statunitense. Se questo è vero allora le sue affermazioni durante un’intervista a un canale televisivo ebraico americano - sul fatto che il popolo palestinese sia «inventato» e che i confini del ‘67 non sarebbero difendibili - lo rendono sospetto di ignoranza storica e di superficialità politica.
Gingrich dice che non è mai esistito uno stato palestinese e che la Palestina faceva parte dell’Impero Ottomano fino all’occupazione britannica. Anche gli Stati Uniti d’America non erano una nazione prima del 1779 bensì una colonia dell’impero britannico nel Nord America. Questo implica forse che i residenti di quei territori non avessero diritto di fondare un loro stato indipendente? Lo stesso si può dire di decine di stati fondati durante l’ultimo secolo da popoli che erano parte di vasti imperi quali quello britannico, quello francese o persino quello austro-ungarico. Ed era diritto degli abitanti della ex Cecoslovacchia di dividersi in due stati - la Repubblica Ceca e la Slovacchia - in base a una ripartizione territoriale. È infatti il territorio a stabilire la realtà dei suoi abitanti, sia che essi si definiscano un popolo a sé, o parte di una popolazione più ampia.
Palestina è un nome antico che risale all’epoca romana ed è chiaro che i residenti di questa regione siano autorizzati a definirsi «palestinesi» e, in quanto tali, possano decidere se far parte di un Paese arabo o avere uno stato indipendente che mantenga legami e affinità culturali e religiosi con la grande nazione araba.
Come può il signor Gingrich sostenere che i palestinesi e lo stato palestinese siano «inventati»? Il 29 novembre 1947 il rappresentante degli Stati Uniti, insieme con la maggior parte del mondo libero e dei paesi appartenenti al blocco sovietico, votò a favore della spartizione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo. Lo stato ebraico si chiama oggi Israele e quello arabo che sorgerà si chiamerà Palestina. Con che diritto il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti afferma che questa decisione non è valida o è un’invenzione?
La superficialità del signor Gingrich si fa evidente quando afferma che i confini del ‘67 non sono difendibili. Se avesse studiato bene la mappa di Israele, o della Palestina, avrebbe visto che l’ampiezza del futuro stato palestinese, la cosiddetta Cisgiordania, o Giudea e Samaria, è di circa 60 chilometri in base ai confini del ‘67. Se Israele spingesse i suoi confini dieci chilometri più a Est riuscirebbe a proteggersi meglio dal lancio di missili o da tiri di artiglieria? La difesa di Israele dipende forse dall’annessione di qualche chilometro quadrato di territorio palestinese in cui ora Israele stipa coloni ebrei? O dipende in primo luogo dai rapporti di pace e di fiducia che riuscirà a stabilire con i palestinesi e dalla demilitarizzazione di ogni arma offensiva nel loro territorio sotto stretto controllo internazionale?
E anche se il signor Gingrich nega la creazione di uno stato palestinese cosa ne pensa dei milioni di palestinesi che vivono in Giudea e Samaria? Può una persona cresciuta in base ai valori democratici del suo Paese permettere che milioni di altre persone siano private dei diritti civili e del diritto di voto nella propria madrepatria come lo sono oggi?
Quando uno dei principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti rilascia dichiarazioni talmente irresponsabili per attrarre i voti della comunità ebraica (in gran parte sostenitrice dei democratici) si può capire perché è difficile sperare che gli Usa possano davvero guidare il processo di pace in Medio Oriente e, alla luce di questo, reputare che il ruolo dell’Europa come guida di questo processo diventi sempre più vitale e necessario.
CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " Israele, Stato ebraico oppure Stato degli ebrei ? "
Sergio Romano
Sergio Romano lascia intendere che il riconoscimento di Israele come Stato ebraico comporti una discriminazione della popolazione non ebraica al suo interno. Cosa falsa, dal momento che in Israele sono sempre vissuti anche arabi che godono degli stessi diritti dei cittadini ebrei. Tutte le minoranze sono garantite, in Israele. Perciò quello che descrive Romano è un problema inesistente. Ci chiediamo, inoltre, per quale motivo non sia lecito pensare che, con la nascita di uno Stato palestinese, magari la popolazione araba israeliana preferirebbe trasferirsi. Dato che Israele è un luogo in cui si viene discriminati se non si è ebrei, non si sente anche la necessità di migrare nel futuro Stato palestinese gestito da Anp e Hamas? No? Evidentemente in Israele la vita non è così dura per le minoranze etniche e religiose. Si potrebbe dire altrettanto per Paesi arabi e islamici come il nuovo Egitto reduce dalla 'primavera', o per l'Iran, per il quale Romano ha sempre una parola buona? Romano lascia intendere anche che col riconoscimento di Israele come Stato ebraico gli ultraortodossi avrebbero sempre più potere. Niente di più lontano dalla realtà. Gli ultraortodossi sono una minoranza. In democrazia, e Israele lo è, non sono le minoranze a decidere. Il problema degli ultraortodossi e delle loro pretese e manifestazioni violente è reale, ma questo non significa che essi godano dell'appoggio del governo, nè che rappresentino il futuro della società israeliana. In quanto alla disquisizione sulla differenza tra 'Stato ebraico' e 'Stato degli ebrei' è lana caprina, tessuto particolarmente caro a Romano. Israele non è uno Stato teocratico, per cui l'intera discussione non ha senso, se non semantico. Forse Romano confonde Israele con Iran. Ecco lettera e risposta:
Nella sua risposta a un lettore lei evidenzia con molta precisione i dati dei flussi migratori ebraici in Palestina. Dall'analisi di questi flussi si può dedurre che il sionismo come movimento politico non aveva avuto un gran successo (l'America era la vera terra promessa anche per gli ebrei), ma che poi fu fondamentale per assicurare una patria-rifugio a quelle centinaia di migliaia di persone in fuga dall'Europa nazificata o sopravvissute allo sterminio. In altri termini, Israele non è nata dal «colonialismo europeo» di fine Ottocento, come spesso si sente dire da alcune parti politiche, ma proprio dal popolo perseguitato, colpito e terrorizzato dalla più vasta, gelida, metodica, puntigliosa opera di «sparizione» di esseri umani che la cultura europea sia mai riuscita a concepire. Questo, insieme con il lavoro e la resistenza dei suoi «nuovi» abitanti, conferisce a Israele il suo diritto a esistere e — so che lei su questo non è d'accordo — a esistere proprio come Stato «ebraico», cioè di coloro che hanno condiviso la drammatica esperienza, diretta o indiretta, della persecuzione. È la genesi reale di questo Stato che ne fa una storia particolare; pretendere che Israele rinunci al suo carattere «ebraico» (cosa che forse accadrà un giorno lontano) ha un vago e incomprensibile sentore di negazione di questa specifica, terribile storia. Senza nulla togliere, sia chiaro, al diritto palestinese a uno Stato libero e autonomo, accanto a quello ebraico. Fabio Della Pergola f.dellapergola@gmail.com
Carlo Della Pergola, L o «Stato ebraico» è quello in cui soltanto un ebreo può essere compiutamente cittadino. Credo nel diritto di Israele alla sua esistenza, ma rimango convinto che uno Stato etnico-religioso sia in stridente controtendenza rispetto a quello Stato costituzionale dei cittadini che è il traguardo ideale delle maggiori democrazie occidentali. Israele è uno Stato moderno, retto da principi democratici, caratterizzato da una brillante economia che lavora con il mondo e per il mondo. Come è possibile che un tale Stato possa isolarsi e riservare alcuni diritti fondamentali soltanto a coloro che possono dimostrare di appartenere a una stessa stirpe? Che cosa accadrà degli arabi musulmani e cristiani che sono già suoi cittadini? Che cosa accadrà dei lavoratori stranieri che sono arrivati in Israele grazie allo sviluppo della sua economia? Che cosa accadrà di quei rifugiati provenienti dall'Africa (circa 2.000 al mese nel corso dell'estate) a cui verrà concesso il diritto d'asilo? Aggiungo, caro Della Pergola, che il concetto di Stato ebraico mi sembra essere in contraddizione con la filosofia politica del fondatore del movimento sionista. Il libro che Theodor Herzl pubblicò a Vienna nel 1895 s'intitola «Der Judenstaat» non «Der Jüdischer Staat»: lo Stato degli ebrei (o per gli ebrei), non lo Stato ebraico. Nove anni dopo, nel 1904, Herzl pubblicò a Lipsia un romanzo fantapolitico e utopistico («Altneuland», vecchia terra nuova) in cui si narra la storia di un ebreo viennese che approda in Palestina, dopo un lungo viaggio in Asia, e scopre con grande piacere una società moderna e vibrante in cui ebrei e arabi lavorano insieme alla creazione di un mondo migliore. Osservo infine, caro Della Pergola, che l'instaurazione d'uno Stato ebraico, di cui oggi il governo Netanyahu chiede il riconoscimento ai suoi vicini arabi, avrà l'effetto di aumentare il potere dei gruppi ortodossi nella società israeliana. Abbiamo parlato molto della condizione della donna nel mondo musulmano; ed è giusto che si continui a parlarne. Abbiamo parlato meno delle pretese di quegli ortodossi ebrei per cui le donne non dovrebbero cantare in pubblico (la loro voce potrebbe suscitare pensieri impuri), dovrebbero camminare su marciapiedi diversi da quelli degli uomini e viaggiare su mezzi di trasporto in cui i due sessi occupino posti distinti. Nelle scorse settimane il Financial Times ha pubblicato corrispondenze da Gerusalemme di Tobias Buck da cui risulta che persino l'esercito, in occasione di una cerimonia, si è piegato alla richiesta di separare i soldati dalle soldatesse. So che esiste un forte ebraismo liberale deciso a difendere la laicità dello Stato. Ma se Israele fosse «Stato ebraico», la loro battaglia sarebbe più difficile.
Il FOGLIO - Rolla Scolari : " Il governo israeliano non ha un piano contro la violenza interna"
Ehud Barak, ministro della Difesa israeliano
Gerusalemme. I soldati hanno agito di sorpresa, per evitare scontri. Sono arrivati nell’outpost illegale di Mitzpe Yitzhar, in Cisgiordania, alle quattro del mattino. Dopo aver dichiarato l’intera area zona militare, hanno sgomberato e distrutto le abitazioni provvisorie, i container di lamiera. Poco dopo, una moschea vicino al villaggio arabo di Burqa è stata bruciata, le pietre della costruzione sfregiate da graffiti contro il profeta Maometto. Lo stesso è successo mercoledì, a Gerusalemme, dove un’antica moschea ha subìto un “price tag” – il prezzo da pagare – l’etichetta con cui gli ultranazionalisti israeliani, per la maggior parte abitanti degli insediamenti, siglano gli attacchi contro proprietà palestinesi, luoghi sacri, ma anche simboli israeliani legati al dialogo, come il monumento all’ex premier Yitzhak Rabin a Tel Aviv, vandalizzato a ottobre. In Cisgiordania la tensione ora è alta non a causa degli scontri tra soldati e palestinesi, ma del confronto con israeliani. Martedì, alla voce del presunto sgombero di un insediamento, circa 50 militanti della destra nazionalista religiosa e radicale si sono infiltrati in una base militare israeliana nei Territori palestinesi e hanno attaccato alcuni veicoli. E’ l’accelerazione di una frattura dolorosa e difficilmente sanabile. A settembre, una pattuglia dell’Idf era stata circondata e aggredita da un gruppo di coloni e un’altra base militare era stata vandalizzata. Per molti commentatori israeliani è stata attraversata una “linea rossa”. Le azioni sono state condannate da tutte le parti: dalla destra al governo, dalle opposizioni, dalla leadership dei coloni. Per il presidente Shimon Peres: “E’ un disastro”. Danny Dayan, leader dello Yesha Council, organizzazione degli insediamenti della Cisgiordania, spiega che la maggioranza dei coloni si oppone alla violenza. Ma il loro numero è compreso tra 60 mila e 90 mila, se resistessero come gli 8.000 di Gaza sarebbe una crisi nazionale. Sono in molti a percepire un’atmosfera simile a quella del 1995, quando un estremista uccise Rabin, colpevole di aver firmato gli accordi di Oslo. “Soffia un vento cattivo”, ha detto ai microfoni della radio israeliana il presidente del Parlamento Reuven Rivlin. Yossi Sarid, sul giornale liberal Haaretz, usa toni apocalittici: “Stai perdendo il tuo paese, come lo conoscevi, come lo amavi. Forse lo hai già perso”. Parole dure non arrivano soltanto da sinistra. Avigdor Lieberman, il ministri più falco del governo di Benjamin Netanyahu, parla di “erbacce da estirpare”. Il premier ha reagito con velocità, secondo Amos Harel, corrispondente militare di Haaretz, sotto la pressione dell’opinione pubblica. Ha rifiutato le raccomandazioni di alcuni membri del suo gabinetto di etichettare i militanti come “terroristi”, come proposto anche dal ministro della Difesa Ehud Barak, ma ha accettato misure che danno ai soldati la possibilità di arrestare in Cisgiordania, e processare nei tribunali militari gli estremisti (come per i palestinesi). Per Netanyahu, “chiunque metta le mani su un soldato sarà punito duramente”. Il premier evita toni allarmisti, parla di un piccolo gruppo radicale, una minoranza. “C’è paura per lo scoppio di violenze interne, ma siamo molto lontani da un’atmosfera da guerra civile”, dice al Foglio Avraham Diskin, analista politico. “E’ deterrenza – per Shlomo Brom, esperto di sicurezza – i coloni mandano un messaggio al governo: questo è quello che faremo se pensate a un accordo”.
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