Con il titolo "Ma quanto sono stretti i denti di Obama mentre celebra il ritiro dall'Iraq", Il FOGLIO pubblica oggi, 15/12/2011, a pag.1, una analisi sul prossimo ritiro delle truppe Usa dall'Irak.
Roma. Ieri il presidente americano, Barack Obama, assieme alla moglie Michelle è andato a Fort Bragg nel North Carolina, la base dell’esercito americano che fa da casa ai reparti migliori, paracadutisti e forze speciali, per pronunciare un discorso sulla fine della presenza militare in Iraq. “Welcome home, welcome home, welcome home”, ha detto ai soldati, che stanno lasciando il paese al ritmo di 500 ogni giorno e da 170 mila ora sono rimasti in circa 5.000. Nelle basi ancora attive si cominciano a servire razioni fredde da campo perché i pasti caldi non ci sono più – anche le cucine stanno chiudendo, una dopo l’altra – e Camp Victory, la colossale area fortificata a Baghdad attorno a cui ruotava tutto l’apparato militare americano e che contiene i palazzi di marmo e i laghi artificiali che un tempo furono di Saddam Hussein, è stato riconsegnato all’esercito iracheno. Obama non ha parlato di “Mission accomplished”, missione compiuta, la due parole del maggio 2003 a cui il predecessore George W. Bush fu poi impiccato per tutta la durata della guerra, ma ha detto che i risultati sono “straordinari”. Ha ricordato i sacrifici americani e il successo del “surge”, la decisione di mandare più soldati in Iraq che nel 2007 quasi portò a zero le vittime della carneficina quotidiana e che offrì protezione ai primi passi politici del nuovo governo di Baghdad. Obama, da senatore, votò contro il “surge” e il ritiro – una delle promesse vincenti durante la campagna elettorale nel 2008 – segue l’esatto calendario fissato tre anni fa dall’Amministrazione Bush, anche se nessuno se ne ricorda più. A dire il vero, Obama ha anche tentato con tutte le sue forze di restare in Iraq con almeno 19 mila soldati, perché Washington ha investito troppi uomini, troppi mezzi e troppi soldi per rinunciare a cuor leggero a basi così importanti nel cuore del medio oriente, vicino all’Iran e al Golfo e sulla via d’accesso all’Asia (per esempio gli aerei americani che volano in Afghanistan fanno – facevano – scalo in Iraq). Ma l’accordo politico con il governo di Baghdad per garantire la permanenza dei soldati è crollato quando ormai sembrava cosa fatta: è uno dei fallimenti silenziosi della Casa Bianca. Tanto vale, allora, incassare i vantaggi d’immagine in vista delle elezioni del prossimo novembre: da qui la sensazione che la celebrazione del disimpegno americano dall’Iraq si stia allungando, ma anche il senso di cautela che si percepisce a ogni discorso. Il candidato repubblicano Mitt Romney ha definito il discorso di Obama “straordinariamente debole e timido”. L’Amministrazione conosce i rischi del disimpegno: i sunniti ora si sentono abbandonati in balia dello strapotere sciita, il governo è tentato dall’autoritarismo – arresti arbitrari, prigioni segrete – gli iraniani si fanno sotto con offerte allettanti di collaborazione ma è chiaro che puntano a comprare l’anima del paese per farne un’altra Siria. L’ex ambasciatore a Baghdad, Ryan Crocker, nel 2008 disse che “i fatti per cui ricorderemo la guerra in Iraq devono ancora accadere”. Si riferiva al rischio di una ripresa della guerra. Per ora, il paese è però stabile e sta facendo bene con l’economia: nel mondo arabo si parla di Baghdad come di una nuova mecca delle imprese, “vai lì se vuoi diventare milionario in dollari, è una nazione riaperta dopo trent’anni di chiusura e guerre e ora ci sono chance infinite”.
Per inviare al Foglio il proprio commento, cliccare sulla e-mail sottostante.