Siria, chi sono gli alawiti e perchè non possono che appoggiare il dittatore Assad analisi di Nir Rosen
Testata: Il Foglio Data: 14 dicembre 2011 Pagina: 5 Autore: Nir Rosen Titolo: «I guardiani del trono»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 14/12/2011, a pag. I, l'articolo di Nir Rosen dal titolo "I guardiani del trono".
Nir Rosen è uno dei giornalisti americani più esperti e controversi che seguono il medio oriente. Ha vissuto a lungo in Iraq, dopo l’invasione americana, e ora fa base in Libano. Questo articolo è stato pubblicato sul sito di al Jazeera.
Bashar al Assad, una manifestazione alawita pro Assad
Mentre stiamo lasciando la città di Homs, al centro del paese, Abu Laith estrae da sotto la camicia una pistola Llama 9 millimetri, la carica e la sistema tra i sedili. E’ un sergente della Sicurezza di stato siriana e ha scelto di guidare un piccolo taxi di fabbricazione cinese per sfuggire all’attenzione degli uomini armati a caccia dei membri delle forze di sicurezza. Siamo diretti verso nord, verso il suo villaggio di Rabia, nel governatorato di Hama, e passiamo di fianco a negozi crivellati di colpi d’arma da fuoco. “Qui c’era un cecchino” mi dice a un certo punto della strada. “Ha sparato a sei pulman militari”. Passiamo di fianco a un edificio dei militari già bersagliato dagli attacchi dei combattenti dell’opposizione armata. “Qui c’era una statua dell’ex presidente Hafez”, spiega, indicandomi un piedistallo ormai vuoto. Chiaramente offeso, aggiunge: “L’hanno abbattuta e sostituita con una scimmietta viva”. Abu Laith appartiene alla setta degli alawiti, che costituisce all’incirca il 10 percento della popolazione siriana. Gli arabi sunniti sono il 65 per cento, mentre le comunità dei curdi sunniti e dei cristiani costituiscono il 10 per cento ciascuna. Il resto è dato da drusi, sciiti, ismaeliti e altri gruppi minoritari. Da quando i baathisti sono ascesi al potere, l’appartenenza alle sette è diventata tabù, onnipresente ma mai nemmeno citata in pubblico, al punto che chi contravviene al divieto può essere punito severamente. I pregiudizi, nelle varie forme del razzismo, sessismo e settarismo, esistono in tutte le società, ma in tempi di crisi l’identità collettiva spesso finisce per dominare le relazioni sociali. L’identità è cosa complessa e l’appartenenza alle diverse sette etnico- religiose è solo un fattore dell’identità siriana. La classe sociale, la professione, il nazionalismo, l’identità regionale e altri fattori sono tutti estremamente importanti. Ma a queste sette si appartiene dalla nascita, e solo pochi, fatta eccezione per la classe dominante ricca, supera queste classificazioni, che di norma sono evidenti già dal nome e dal luogo di nascita. Così come nei Balcani, l’identità religiosa spesso è un’identità culturale e conduce a divisioni simili a quelle etniche, anche all’interno di gruppi che parlano la stessa lingua. Poco si sa della storia della fede alawita, persino all’interno della stessa comunità alawita, perché il suo credo e le sue pratiche sono note solo ai pochi iniziati. Assomiglia assai poco alle dottrine più comuni dell’Islam e prevede la fede nella trasmigrazione dell’anima, la reincarnazione, la divinità di Ali ibn Abi Talib, quarto Califfo e cugino del profeta Maometto, e una santa trinità composta da Alì, Maometto e uno dei compagni del profeta, Salman al Farisi. Un fattore comune dell’identità alawita è il timore dell’egemonia sunnita, dovuto a un passato di persecuzioni finite solo con la caduta dell’impero ottomano. A partire dagli anni Sessanta, il regime siriano ha incoraggiato soprattutto i contadini alawiti a migrare dalle regioni di montagna verso le pianure, concedendo loro il possesso delle terre che erano appartenute a un’élite prevalentemente sunnita. Ma a cominciare dall’inizio delle rivolte di quest’anno, alcuni hanno rimandato la propria famiglia nelle zone rurali in cerca di sicurezza. Yahya al Ahmad, un medico alawita di Homs mi spiega che la sua comunità è guardata con disapprovazione, perché si è spostata e ha trovato lavoro nell’apparato statale e nelle imprese. “I sunniti dicono che abbiamo rubato i loro posti di lavoro e che dobbiamo tornarcene nelle campagne”, mi spiega. Un amico alawita mi dice di come si è sentito offeso nel vedere in tv i dimostranti sunniti che a Latakia gridavano che avrebbero rimandato il presidente Bashar “alla fattoria”. Per lui significa che i sunniti vogliono che tutti gli alawiti tornino ai propri villaggi. “La condizione degli alawiti non è mai stata invidiabile” ha scritto la storica Hanna Batatu. “Sotto gli ottomani hanno subito abusi, oltraggi e varie forme di oppressione amministrativa; talvolta, donne e bambini sono stati fatti prigionieri e venduti”. Il mandato francese che sostituì l’impero ottomano diede alle minoranze maggiore autonomia, indebolendo la preesistente élite sunnita, mentre gli alawiti chiedevano il riconoscimento da parte francese di uno stato autonomo. Le minoranze, in particolare gli alawiti, identificarono allora nel partito baathista al potere e nella sua ideologia pan-arabica uno strumento per superare gli stretti confini delle diverse identità settarie; al contempo, l’occupazione nel settore pubblico e nell’esercito diede modo a molti di migliorare la propria condizione. Nel 1955 la maggioranza dei sottufficiali era alawita, e in breve anche il comitato militare del partito si trovò sotto controllo alawita. Erano gli alawiti a decidere chi entrava nelle accademie militari, scegliendo tra le persone che provenivano da strati sociali fidati, spesso alawiti o sunniti delle zone rurali, e incoraggiando gli alleati più leali a entrare nelle unità pretoriane. Nel 1970 salì al potere Hafez al Assad, ministro alawita della Difesa ed ex funzionario militare. Concentrò il potere nelle mani di parenti e amici stretti, compresi molti alawiti provenienti dal governatorato di Latakia, sua regione natale, pur promuovendo anche alcuni colleghi dell’accademia militare sunnita. Con il nepotismo di Assad, la setta si trovò presente in modo sproporzionato nelle istituzioni. Lo stato, detto persino “assadismo”, subentrò alla religione come fulcro dell’identità settaria. Gli alawiti sono sempre stati rifiutati dalla corrente predominante dell’islam. Per essere accettato come guida, Assad dovette convincere i sunniti e gli stessi alawiti che questi ultimi rientravano in quella corrente predominante. Sebbene gli alawiti abbiano una forte identità comune e continuino a visitare i mazar (i santuari), e tendenzialmente prevedano la partecipazione di uno sceicco a funerali e matrimoni, non sanno esattamente cosa ciò significhi. Joshua Landis, direttore del centro per gli studi sul medio oriente della University of Oklahoma, ha rivelato che gli alawiti non ricevono un’istruzione in merito alla propria religione, tanto che i manuali in uso nelle scuole siriane non fanno nemmeno uso della parola “alawita”. “L’istruzione islamica nelle scuole siriane è tradizionale, rigida e sunnita – ha scritto – Il ministero dell’Istruzione non tenta in nessun modo di inculcare nozioni di tolleranza e rispetto per le tradizioni religiose diverse da quelle dell’islam sunnita”. Il cristianesimo, nota Landis, ha costituito un’eccezione. Il regime ha negato agli alawiti qualsiasi spazio pubblico per praticare la propria fede; non ha riconosciuto un consiglio alawita che avrebbe potuto stilare norme religiose e che sarebbe stato uno strumento utile a spiegare la religione alawita agli altri, per ridurre i sospetti su quella che molti siriani percepiscono come una fede misteriosa. La perdita del ruolo tradizionale dei capi di comunità ha frammentato la setta, impedendo ai suoi adepti di definire posizioni unitarie e di instaurare un dialogo in quanto comunità con le altre sette siriane, e rafforzando in questo modo le paure e la diffidenza settarie. E’ difficile dire quali fattori definiscano l’appartenenza alla setta, se non il fatto di essere nati da genitori alawiti. Poiché la loro identità si fonda sul ruolo guida di Assad, hanno adottato un motto come “Assad per sempre”, che impedisce loro di distaccarsi dal regime e di immaginare una Siria senza Assad. Gli alawiti che osano opporsi al regime credono che incorreranno in una speciale punizione a causa del loro “tradimento”. La rivolta dei Fratelli musulmani iniziata nel 1976, che ha portato alla guerra civile tra il ’79 e l’82, ha condizionato il modo in cui gli alawiti leggono le rivolte attuali. All’epoca, i Fratelli musulmani avevano tentato di riunire i sunniti in una lotta settaria. Uccisero molti intellettuali, giudici e medici alawiti. Il massacro dei candidati ufficiali nell’accademia militare di Aleppo nel 1979, insieme all’assassinio dello sceicco alawita Yusuf Sarem, sono ancora vivi nella memoria della comunità. La maggioranza sunnita, dal canto suo, ricorda la brutalità con cui è stata schiacciata la rivolta dei Fratelli musulmani: l’organizzazione è stata annientata in Siria e ancora oggi è largamente assente nelle attuali rivolte, anche se la maggior parte dei dimostranti odierni è costituita da sunniti conservatori. Quella di quest’anno è una rivolta popolare, particolarmente sentita tra i poveri, a differenza della sommossa dei Fratelli musulmani (che, per quanto abbiano perso molta credibilità dopo la repressione, continuano a essere influenti nell’opposizione che fomenta le paure alawite). Nel 1981, lo storico Hanna Batatu scrisse: “A favorire la coesione nella congiuntura attuale è il forte timore, diffuso tra gli alawiti di tutti gli strati sociali, che su di loro potrebbero ripercuotersi conseguenze terribili se il regime esistente dovesse essere destituito dal potere o collassare”. Gli alawiti ritengono di essere più “liberali” e laici dei sunniti: consumano alcol, vivono più liberamente i contatti tra uomini e donne, l’abbigliamento e il comportamento femminili sono più occidentali. Si sentono offesi dalle voci diffuse dalla maggioranza sunnita, secondo le quali le loro pratiche religiose prevedono orge; così come li offende sentir dire che la Siria è un regime alawita e che per questo sarebbero privilegiati. In realtà, gli alawiti appoggiano la famiglia Assad in sé più che il regime, tant’è vero che criticano prontamente la corruzione dell’amministrazione statale. Non potendo mobilitarsi come alawiti, si rivolgono alla famiglia al potere per seguirne la guida. Il regime però agisce nel proprio interesse, non in quello degli alawiti. Il blogger alawita Karfan ha scritto: “Cancellando tutte le forme di identità religiosa e impedendo agli alawiti di costruirsene un’altra altrove, gli alawiti sono stati semplicemente trasformati in una sorta di tribù, unita intorno a un unico obiettivo: mantenere il re al potere. Intanto tutti continuano a parlare di un ‘regime alawita’ e ad addossare tutte le sue responsabilità agli alawiti. Saremo destinati a portare il fardello delle colpe delle stesse persone che hanno distrutto la nostra religione”. Quando Hafez al Assad prese il potere, favorì la secolarizzazione del Partito baathista, fiaccandolo per trasformarlo in un partito pro Assad. La solidarietà alawita e il sostegno di alcune ricche famiglie sunnite consolidarono il regime. All’indebolimento del Partito baathista seguì anche quello dei sindacati e delle organizzazioni imprenditoriali; il vuoto sociale fu riempito dai sunniti conservatori, le cui organizzazioni di beneficenza poterono svolgere un ruolo di crescente importanza. Anche i membri del clero sunnita ottennero qualche libertà (una decisione che, se in un primo momento aumentò i sostenitori del regime, ora alimenta le divisioni tra i sunniti e i servizi di sicurezza dominati dagli alawiti). La debolezza del partito baathista significa anche che il regime non può mobilitare gli abitanti intorno a nulla di diverso da Bashar al Assad, che ha preso il potere dopo la morte del padre, nel 2000. Tant’è vero che di questi tempi è facile capire se ci si trova in una zona alawita: sono luoghi in cui tutto lo spazio disponibile è tappezzato di immagini del presidente Bashar, del fratello Maher o del padre Hafez (mentre gli uomini sfrecciano avanti e indietro sulle moto, tutti con indosso le magliette di Bashar). Parlare con accento alawita può essere d’aiuto a superare i posti di blocco militari. Il tassista che mi ha portato nel quartiere di Duma, una roccaforte dell’opposizione a Damasco, è un alawita di Latakia. Ha parlato con gli ufficiali al posto di blocco con l’accento alawita, sostenendo che fossi libanese; ci hanno fatto passare senza nemmeno guardare la mia carta d’identità. Di ritorno nel governatorato di Hama, invece, Abu Laith si preoccupa dei posti di controllo presidiati da uomini dell’opposizione. E’ pienamente consapevole dell’identità culturale di ognuno dei villaggi circostanti, e abbandona la strada principale per evitare l’irrequieta città sunnita di Hama. Passiamo dal povero villaggio alawita di Alamein, nei pressi di Tumin. “Tumin è un villaggio cristiano – mi spiega – Dei cristiani qui ci si può fidare. Tumin è ricca e la gente è molto buona”. Facciamo salire un autostoppista diretto a Rabia; è un soldato di ritorno dal lavoro. Sembra rilassarsi quando vede chi guida. Aveva paura di stare sulla strada, racconta, “paura dei terroristi”. Veste in abiti civili. “Perché mi farebbero fuori”, spiega. E’ ostile a tutti i sunniti, che ritiene responsabili della brutalità con cui sono stati uccisi i soldati. Abu Laith è a disagio: “Non sono tutti così”, ammonisce. I pullman pubblici ora attraversano Rabia per evitare i villaggi sunniti “meno sicuri”. Grandi barriere di pietra bloccano l’ingresso alla città. Tre uomini armati di fucile e con le cinture foderate di munizioni ci fanno cenno di rallentare, fino a quando non riconoscono Abu Laith. Passiamo di fianco ad altri uomini che pattugliano la zona in moto con il fucile a tracolla e ci dirigiamo verso il cimitero cittadino. Forse un migliaio di persone partecipa al funerale di un soldato, Naeem Tarif, ucciso ad Hama. Molti dei partecipanti hanno con sé un’arma; alcuni bambini sventolano immagini del presidente. La strada che lascia la città in direzione ovest è anch’essa bloccata da massi di pietra e da un posto di blocco. Diversi uomini, tutti armati, se ne stanno seduti in un piccolo capanno di legno, che su una parete reca la scritta “Dio, Siria e Bashar, e nient’altro”. Molte strade di Rabia non sono asfaltate. Nel centro città troviamo una statua color rame lucido dell’ex presidente Hafez al Assad che con una mano brandisce una spada e nell’altra tiene un ramoscello d’olivo. Gli abitanti l’hanno fatta innalzare a proprie spese un mese prima, come mi racconta Abu Laith. “A Rabia ci sono solo scuole, niente parchi giochi o altro”, si lamenta Abu Laith. Mi porta alla casa del padre, dove il figlio di sei anni mi saluta chiedendomi immediatamente: “Stai coi nostri o coi loro?”. “E tu con chi stai?”, gli chiede il padre. “Io sto con la Siria”. Gli uomini della sicurezza come Abu Laith sono da sempre più occupati degli altri, e raramente riescono a fare visita alle famiglie. Ha quattro fratelli nelle forze di sicurezza e uno disoccupato. “La maggior parte degli uomini qui fa parte delle forze di sicurezza – mi spiega – ma abbiamo pochissimi ufficiali. Non ci permettono di diventarlo”. Quanto a quei giorni d’agosto, Rabia ha pagato con dieci “martiri” delle forze di sicurezza e altri abitanti, forse 15, sono stati feriti negli scontri con i combattenti dell’opposizione armata. Altri due ufficiali delle forze di sicurezza di Rabia, due sergenti, sono stati uccisi alcuni giorni più tardi. Facciamo visita alla famiglia di Naeem Tarif, l’uomo di cui abbiamo visto il funerale poco prima, in una tenda fuori casa. Tarif aveva 40 anni, era un sergente con vent’anni di carriera. E’ stato ucciso ad Hama una settimana fa, ma il suo corpo è stato trovato solo il giorno del mio arrivo. E’ stato decapitato, e il suo corpo bruciato, mi racconta il fratello. I video che ritraggono uomini armati mentre si liberano del corpo, trovati su alcuni cellulari sequestrati, sono stati trasmessi in tv e su Internet. “Abbiamo paura”, mi dice un nipote. “Tutto il villaggio è pronto a sacrificarsi per la nazione”, proclama un altro. Sono spaventati dai gruppi armati. “Già in passato sono stati qui, come cellule dormienti”, dice un parente. Sono tutti furenti con i mezzi di comunicazione internazionali perché non raccontano quanto sta succedendo loro. Incontro la famiglia di Issa Bakir, che da undici anni è sergente di polizia ad Aleppo. Dopo aver fatto visita alla sua famiglia a Rabia, il 5 luglio, Issa stava tornando ad Aleppo, passando per Hama. E’ stato fermato a un posto di blocco. E’ stato colpito alla testa con un bastone, poi gli hanno tagliato la gola. “L’hanno fermato, hanno bruciato la macchina, l’hanno sgozzato e l’abbiamo trovato vicino alla moschea”, mi racconta il padre. Il fratello di Bakir lavorava con lui nella polizia di Aleppo, ma ora per andare al lavoro passa per Latakia, per evitare Hama. “L’hanno ucciso perché era alawita – continua il padre – I miei figli e io siamo un sacrificio offerto per la patria. Non siamo settari. Prima i nostri rapporti (con i sunniti) erano normali”. E’ lo stato che deve occuparsi di rendere giustizia al figlio, mi dice: “Non vogliamo vendetta. Perché non ci deve essere una logica settaria in Siria”. Non lontano vive Muhamad Khazem, un sergente della sicurezza di stato; ha 46 anni, è grande e grosso e riposa a letto, ferito. Mi mostra il foro d’ingresso di una pallottola, appena sotto la gola, e il punto da cui è uscita, sulla schiena, giusto una settimana prima. Lui e altre decine di uomini della sicurezza erano in missione per rimuovere i blocchi stradali dell’opposizione, quando è stato colpito. “E’ al Qaeda – sostiene il fratello – Ho combattuto nella guerra del ’73. Fosse stato Israele a ferire un siriano, l’avrebbero portato in ospedale, e se fosse morto l’avrebbero sepolto dignitosamente. Gli israeliani hanno più compassione di questi altri, che sono selvaggi”. Rabia confina con due villaggi sunniti: Tizeen e Kifr Tun. L’elettricità viene da Tizeen e gli abitanti sostengono che i sunniti della città vicina di recente abbiano tagliato la linea elettrica. Li accusano anche di aver ucciso due uomini alawiti sei giorni prima. Gli alawiti di Rabia dicono che i villaggi sunniti di Mitneen, Arzi e Kifr Tun hanno espulso le famiglie alawite, e Rabia ha accolto gli sfollati. Il contadino Hamid Diab e i suoi otto figli sono stati tra le trenta famiglie espulse da Kifr Tun, dove vivevano dal ’59. Racconta che gli alawiti in città sono stati minacciati. Li hanno avvisati: “Vi sgozzeremo”. Una settimana prima, di mattina, erano stati attaccati da uomini armati. “Hanno bruciato pneumatici e hanno sparato per spaventarci”, racconta. “Alcuni sunniti sono brave persone e non l’hanno accettato: è stato un sunnita ad aiutarci a uscire”. Sostiene che uno dei membri del commando era un beduino che si fa chiamare Dahib al Thawra, “macellaio della rivoluzione”. Dice che gli abitanti di Rabia li hanno accolti bene, ma che hanno lasciato tutto a Kifr Tun. Ora non hanno accesso alle loro fattorie o ai loro orti. Non c’erano mai stati problemi prima della rivolta, sostiene, e i suoi figli erano andati a scuola con i bambini sunniti. Sospetta che prima l’odio fosse nascosto. “E’ stata la gente del villaggio ad attaccarci. Erano usciti allo scoperto durante il Ramadan, quando avevano inviato il loro saluto a Bandar e Arur”, racconta, riferendosi al potente principe saudita Bandar bin Sultan e allo sceicco agitatore siriano Adnan al Arur. “Adorano tutti Arur da quelle parti, quando parlava alzavano il volume, così potevamo sentirlo da casa nostra”. Hamid mi dice che lo stesso giorno gli abitanti di Kifr Tun hanno assalito un alawita del villaggio di Addas mentre stava attraversando la città in moto, cospargendolo di benzina. Ha preso fuoco, ma altri abitanti l’hanno salvato. Non c’erano forze di sicurezza nel paese, mi dice. Solo una stazione di polizia nel villaggio alawita di Jarjara, che aveva competenza sui tanti villaggi della zona. “Non avevamo armi, altrimenti avremmo risposto al fuoco”, dice Hamid. “Le forze di sicurezza hanno bisogno dei carri armati per entrare nei villaggi. L’opposizione ha bloccato le strade. L’esercito deve entrare nei villaggi, ma è troppo occupato ad Hama. Perché lo stato temporeggia?”. Il padre di Abu Laith, Abu Iyad, soldato in pensione, è d’accordo: “Solo l’esercito può risolvere la situazione. Se rispondiamo, sarà una risposta settaria, gli altri villaggi si uniranno a loro e saranno più di noi”. Per i vicini sunniti, Rabia è altrettanto preoccupante, perché rappresenta i fanatici alawiti, sostenitori del regime. Firas, uno degli organizzatori dell’opposizione nella città di Rasta, mi racconta del cugino Muhamad Hussein Shahul, un tassista 35enne che non partecipa all’attività dell’opposizione. A luglio, Shahul ha portato quattro operai che tornavano a casa, a Tizeen, dal Libano. La strada che attraversava la città di Hama era chiusa perché erano in corso degli scontri, per cui sono passati per la città cristiana di Kfarbo e poi da Rabia, dove, dice Firas “una banda di alawiti fedeli ad Assad” ha teso loro un’imboscata. Un passeggero è sfuggito, ma gli altri quattro uomini sono stati torturati e giustiziati. I cadaveri sono stati lasciati nella macchina, abbandonata vicino alla città di Masyaf prima di dare la notizia alle famiglie. “Non abbiamo potuto andarci noi”, continua suo cugino, “perché ci avrebbero uccisi”. I funzionari dell’esercito di Rastan hanno coordinato l’intervento con i colleghi di Masyaf, che hanno portato il corpo di Muhamad al confine con un villaggio alawita, dove la famiglia ha potuto recuperarlo per dargli sepoltura.
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