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Libero Rassegna Stampa
10.12.2011 La biografia di Ariel Sharon scritta dal figlio
intervistato da Amy Rosenthal

Testata: Libero
Data: 10 dicembre 2011
Pagina: 16
Autore: Amy Rosenthal
Titolo: «Mio padre, soldato donnaiolo, ha insegnato l'onore a Israele»

Su LIBERO di oggi, 10/12/2011, a pag.16, Amy Rosenthal intervista Gilad Sharon, figlio di Ariel, da sei anni in coma vegetativo. Il titolo "Mio padre, soldato donnaiolo, ha insegnato l'onore a Israele", ci pare forzato, là dove sembra suggerire un parallelo con Berlusconi in quanto a estimatore del fascino femminile. La figura di Sharon non ne ha certo bisogno per entrare nella storia di Israele, i risvolti privati, là come qui, appartengono, appunto, alla sfera privata, metterli in un titolo è persino riduttivo.
Ecco l'intervista:

                         Amy Rosenthal    Moshe Dayan con Ariel Sharon

Ariel Sharon era non solo uno dei più grandi comandanti militari d’Israele, ma anche uno dei suoi storici leader politici, eletto primo ministro nel 2001.Come tale, ha trasformato il panorama politico israeliano, incoraggiando il disimpegno da Gaza e poi creando con successo un nuovo partito centrista, Kadima, nel 2005. La sua carriera politica s’è interrotta nel 2006 dopo un ictus che lo ha improvvisamente reso invalido. Suo figlio minore Gilad Sharon ha da poco pubblicatoun monumentale tributo al padre: “Sharon: The Life of a Leader” (HarperCollins). In questa intervista esclusiva, Liberoha incontrato Gilad per parlare del suo libro, e del perché lo spirito di suo padre continui a incombere su Israele e oltre.
Qual è la storia personale che preferisce su suo padre?
«Girare la fattoria con mio padre al fianco. Lui adorava gli animali e ogni volta che c’era bisogno di farne morire qualcuno per ragioni di vecchiaia e scarsa produttività, per lui era un dolore. Diceva sempre che avrebbe dovuto esistere un ospizio per gli animali anziani. Inoltre mi fa ridere leggere tutte le lettere d’amore che riceveva dalle donne. Sapevo che piacesse, ma così tante lettere da donne che non erano per niente timide sono state una vera e propria scoperta».
Sua madre non era gelosa?
«No, per niente. Diceva soltanto: “Non m’importa delle lettere e neanche se fa qualcosa, basta che non s’innamori”» (Gilad ride).
La carriera militare di suo padre è stata piena di alti e bassi. Secondo lei qual è stata la sua più grande vittoria, e la sua più grande sconfitta?
«Senz’altro la più grande sconfitta è stata la battaglia di Latrun, quando comandava un plotone il 26 maggio 1948. Aveva vent’anni e l’attacco fallì. Il plotone di mio padre rimase solo sul campo di battaglia e anche lui venne ferito gravemente. Su 35 uomini ne sopravvissero 4. Quel fatto gli stampòper sempre nella testa l’idea, e la regola, che non si lasciano indietro gli uomini, il che più tardi divenne un valore dell’intero IDF. Vittorie ne ebbe molte. Negli anni Cinquanta, come comandante di una squadra comandò tutte le azioni israeliane antiterrorismo. Poi il suo comando nella Guerra dei Sei Giorni e il passaggio del canale di Suez, nella guerra del Kippur del 1973. Diede una svolta alla guerra».
Lei era un confidente di suo padre. Qual è la principale lezione che le ha insegnato sulla politica?
«Mio padre era un politico atipico. È sempre stato un po’ ai margini anche quando si dedicava alla formazione di diversi partiti politici. Detto ciò, la sua forza e perseveranza gli venivano dal popolo e non dai componenti del suo partito Le trattative politiche non erano il suo forte. Fin da quando era un giovane ufficiale aveva sempre detto quello che pensava, il che gli aveva procurato dei guai».
Nel suo libro sostiene: «La deterrenza è un tema di cui ho sentito miopadre parlare molto». Che cosa diceva?
«Diceva che ci sono cose che ci vogliono anni a costruire, e poi le perdi in un attimo. Credeva fortemente che se un nemico supera una linea, e non c’è reazione, il potere di deterrenza di tutto un Paese perde ogni valore».
Suo padre ha incontrato molti capi di stato mondiali. Con chi di loro ha avuto legami personali e affinità politica?
«Era molto legato al presidente George W. Bush, lo ha incontrato 12 volte ed è anche stato invitato nel suo ranch di Crawford, in Texas. Era anche legato a Tony Blair. Ma aveva rapporti ravvicinati anche con leader arabi. Quando Anwar Sadat venne in Israele nel ’77, stringendo la mano a mio padre gli disse: “L’ho cercata nel deserto vicino al canale di Suez”. Si riferiva alla guerra dello Yom Kippur. Mio padre rispose: “Adesso mi ha trovato, se vuole, come amico”». Cosa ne pensava suo padre delle aspirazioni dell’Iran di avere la bomba atomica?
«Pensava che il loro tentativo di arrivare all’atomica doveva essere gestito da una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Vedeva la minaccia come rivolta non solo a Israele. Anche i sunniti sono terrorizzati. Tra sanniti e sciitic’è una guerra che dura da mille anni, anche se non lo dicono apertamente. Questo è un altro problema con il mondo islamico. Quando parli con loro in privato dicono cose completamente diverse da quelle che poi ripetono in pubblico. Un esempio: se parli con gli egiziani, si riferiscono ai palestinesi nei peggiori termini possibili».
Secondo lei, ai palestinesi interessa davvero avere uno Stato?
«Se dichiarassero di essere uno Stato il mondo intero lo accetterebbe. Ma uno Stato vuol dire responsabilità. Non puoi girare il mondo a piangere e a chiedere soldi e poi non accettare le responsabilità.
È ottimista sulle possibilità di pace tra israeliani e palestinesi?
«Ci vorrà del tempo prima che i palestinesi raggiungano il benessere, la vita senza terrore è molto meglio anche per loro. Il terrorismo ha colpito Israele, ma più ancora i palestinesi. Il problema è che a loro va bene soffrire finché a soffrire sarà anche Israele. Devono provare che il loro scopo è costruire un loro Stato e non distruggere il nostro, e allora col tempo impareremoa fidarci di loro e loro di noi e alla fine ci sarà pace».
Israele non ha detto niente a proposito degli avvenimenti della Siria degli ultimi mesi. Come pensa che suo padre li interpreterebbe?
«Israele non sta dicendo niente, ma l’Europa? Guardi al suo atteggiamento verso la Libia e la Siria. In Libia c’è il petrolio, ed è vicina all’Italia. In Siria il 4 per cento della popolazione, la minoranza Allowita comanda sul resto, ma non importa a nessuno. Non si possono paragonare le due realtà perché, per dirla tutta, viviamo in un mondo cinico».
Lei ha riso al pensiero che la “Primavera Araba” sfocerà in democrazie di stile occidentale in posti come l’Egitto, la Libia o la Tunisia.
«La democrazia è più che andare a votare. Purtroppo non credo che vedremo delle democrazie di tipo occidentale in quei Paesi. Sarà ancora come prima, o anche peggio se gli estremisti islamici dovessero prendere il potere».
Come affronta lo stato di coma di suo padre, che dura dal 4 gennaio 2006?
«Le cose stanno così, che cosa posso fare? Gli facciamo visita ogni giorno, mio fratello, miamoglie e io».
Qual è il messaggio principale per i lettori di “Sharon: The Life of a Leader”? «Ho voluto mostrare l’altra parte di Sharon, quella dell’uo - mo in famiglia, affettuoso e con un gran senso dell’umorismo. Che era adorato da così tante donne, che viveva per i suoi valori e che ha protetto lo Stato ebreo con tutto se stesso». (Traduzione di Paolo Bianchi)

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