Coi salafiti l'economia dell'Egitto cola a picco analisi di Daniele Raineri
Testata: Il Foglio Data: 09 dicembre 2011 Pagina: 5 Autore: Daniele Raineri Titolo: «E' l'economia, stupidi salafiti !»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 09/12/2011, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " E' l'economia, stupidi salafiti !" .
Daniele Raineri
Prima della rivoluzione di febbraio l’Egitto aveva una riserva di valuta straniera di circa 35 miliardi di dollari. In undici mesi, per colpa dell’incertezza politica, la riserva è calata a circa 19 miliardi. Il ritmo delle perdite ora è di un miliardo di dollari al mese, più o meno pari a quello della Siria, che però è un paese tra le fiamme della guerra civile. Di conseguenza la sterlina egiziana continua a perdere valore contro le monete straniere e questa settimana ha toccato il minimo degli ultimi sette anni. Il Wall Street Journal assegna all’Egitto un tempo molto stretto prima del disastro, circa sei mesi, fino a metà 2012, e ieri l’agenzia di rating Moody’s ha abbassato il rating: è la terza volta consecutiva quest’anno, e la previsione da “stabile” è passata a “negativa”. Il downgrading vuol dire naturalmente meno prestiti stranieri, perché il rischio di default è più alto. L’esercito che in Egitto detiene il potere ha reagito con arroganza. A giugno ha rifiutato un prestito da parte del Fondo monetario internazionale di tre miliardi di dollari, preferendo rivolgersi al mercato nazionale. Le cinque banche più grandi del Cairo – National Bank of Egypt (NBE), Banque Misr, Banque du Caire, Bank of Alexandria e la Commercial International Bank – però ora sono così esposte con le casse dello stato da chiedere tassi d’interesse sempre più alti, che sfiorano il 15 per cento. Prima della rivoluzione la soluzione c’era: il turismo portava ogni anno nelle casse del paese 39 miliardi di dollari in valuta straniera – fonte New York Times – abbastanza, come si vede, da ripianare subito qualsiasi perdita e da tranquillizzare qualsiasi governo. Il problema è che in questo momento, sempre per colpa dell’incertezza politica, il turismo è quasi ridotto a zero. L’ultimo dato disponibile, tra marzo e giugno, parla di un calo del 42 per cento, poi le cose sono andate peggio. Lungo il viale principale del quartiere di Mohandessen, progettato per far sentire i turisti stranieri a casa con la sua fila di ristoranti occidentali, di club e di fast food, i marciapiedi sono deserti. Si può mangiare una bistecca perfetta con patate fritte vere e una bottiglia di vino di qualità, ma agli altri tavoli non c’è nessuno. I camerieri attendono nel vuoto. Un egiziano su otto ha un posto di lavoro nel turismo, e una quota importante mantiene una famiglia numerosa, ma è appeso alla ripresa del settore. In questa situazione, irrompono i salafiti, con il loro 19 per cento di successo elettorale inaspettato al primo turno. Durante la campagna i salafiti hanno rilasciato un ampio ventaglio di dichiarazioni sul turismo, abbastanza disordinate perché si coordinano malamente, ma che cadono tutte nel campo dell’orrore: le più moderate accusano i turisti di contaminare il paese con vizi, prostituzione e droghe, e ragionano sulla creazione di speciali “riserve per turisti” dove gli stranieri – e soltanto loro – potrebbero consumare alcol, non acquistato sul posto ma quello che hanno portato da casa. Egitto: bring your own beverage. Per i russi benestanti a mollo almeno due settimane l’anno nelle piscine sulla costa del mar Rosso è come un visto d’ingresso annullato. Altri salafiti sono più duri. Si rumoreggia sulla sorte delle statue egizie, che sarebbero destinate a fare la fine dei Buddha di Bamian fatti saltare in aria dai talebani in Afghanistan. Il partito che ha fatto campagna elettorale senza mostrare la faccia delle proprie candidate per obbedire ai precetti del Corano vorrebbe distruggere la Sfinge – oppure proporne la distruzione, senza riuscirvi – come simbolo della sua conquista del potere in Egitto. Rumors, ma il viceministro per il Turismo, Hisham Zaazou, già chiede un tavolo d’incontro con i salafiti per “salvaguardare una risorsa di introiti così vitale per il paese”. Due giorni fa i salafiti hanno perso ai ballottaggi contro i Fratelli musulmani, più moderati e concreti. Venti scontri diretti, venti sconfitte. Colpa delle loro dichiarazioni – si dice che “le dichiarazioni dei salafiti sono la miglior campagna elettorale possibile per i Fratelli musulmani” – che investono un po’ tutto, tranne i campi che contano, l’economia e la sicurezza. Un leader ha detto che “l’Egitto avrà un presidente copto quando Israele avrà un presidente musulmano”. Lo sceicco Abdel Monem el Shahat, da Alessandria, ha accusato lo scrittore Naguib Mahfuz, da vivo gloria culturale della nazione, di incitare all’uso di droghe e alla prostituzione. Tre giorni fa, pur avendo Alessandria mezzo milione di elettori salafiti, al Shahat ha perso al ballottaggio. Al Shahat è citato anche in un reportage del New York Times sulle differenze tra salafiti e Fratelli musulmani, con citazioni come questa: “La libertà dev’essere ristretta dalla sharia, la cittadinanza dev’essere decisa dalla sharia, tutto deve essere deciso dalla sharia”. Ieri il partito gli ha imposto d’autorità di tacere per tutto il resto della campagna. Il fallimento dei salafiti è contenuto in ugual misura in quello che dicono e in quello su cui tacciono. Non dicono nulla sul prezzo del frumento, anche se l’Egitto è il più grande importatore mondiale, il costo della farina è stato uno degli elementi scatenanti delle rivolte nei paesi arabi e quest’anno la produzione nazionale è calata ancora, di circa il 15 per cento. Per contro, i cugini del partito Giustizia e libertà dei Fratelli musulmani hanno risposte pronte, si fanno trovare preparati, riconoscono che “si tratta di uno dei problemi più urgenti, che l’Egitto è troppo dipendente da fattori esterni per la sua sopravvivenza e questo lede la sovranità nazionale peggio di un’occupazione”. Esiste un piano per alzare la quota di produzione dal 50 fino al novanta per cento – “e l’abbiamo fatto nostro, anche se non lo abbiamo elaborato noi” – e “per strappare un 30 per cento in più di terra fertile al deserto, soprattutto nel nord vicino alla costa”. Se si prova a interrogare l’ufficio della campagna elettorale dei salafiti, non si ottiene nulla. L’esperimento dà lo stesso risultato con i sussidi, che sono il terzo problema esplosivo dell’economia sul Nilo, dopo l’agonia del turismo e l’autonomia alimentare. L’Egitto a dispetto di un recente giro di liberalizzazioni finite per lo più male, tra corruzione e incompetenza, è un paese con una forte impronta socialista: lo stato è tutto e pensa a tutto. Il costo di cibo, benzina e gas è tenuto basso dal governo con i sussidi. Mentre in Italia il costo per un litro di verde sta salendo sopra 1,7 euro al litro, in Egitto è fermo a 1,85 ghinee (venti centesimi di euro al litro), che rispetto al costo della vita qui non è poco, ma consente agli egiziani di vivere sotto la protezione dell’ombrello statale (da noi è il contrario: il consumo di benzina è il pretesto per ogni genere di imposte aggiuntive). Questo essere un’oasi al riparo dalle tariffe internazionali non potrà durare a lungo: la spesa statale per i sussidi alla benzina è più alta di tutto il budget per l’istruzione. Il regime artificiale sta già scricchiolando sul gas butano, che in questi mesi scarseggia. In teoria una bombola da un litro costa 5 ghinee, in pratica nell’alto Egitto la stessa quantità si trova soltanto al mercato nero per 50 ghinee, una cifra disperante per le famiglie. E nessuno si fa illusioni: un clima di rinnovata ostilità contro Israele o bombardare la Sfinge sono due misure che non farebbero calare il prezzo, piuttosto lo alzerebbero. Lo stato socialisteggiante corre incontro alla fine e l’islam nella sua interpretazione più dura non è la risposta: è questo il riassunto dei discorsi che più s’ascoltano al Cairo. L’Egitto non è l’Iran di Khomeini o l’Arabia Saudita, con giganteschi giacimenti di gas e di greggio. Ne ha un po’ nel Sinai, ma non può permettersi di essere intransigente fino a rischiare l’isolamento internazionale. Viene in mente la boutade di Flaiano: “Non sono comunista, non me lo posso permettere”. Non sono salafita, ecc. Viene da chiedersi perché allora l’Egitto abbia scelto, fra il tycoon internazionale Naguib Sawiris e i salafiti, di affidare di più il proprio portafogli a questi ultimi. C’è una ragione economica anche in questo caso. Se sei povero e poco istruito, l’islam ti offre una rete di protezione naturale in cambio di obbedienza. La grandezza politica di Fratelli musulmani e salafiti si basa sulla loro rete assistenziale e sulla sete di giustizia sociale, che non soltanto provvedono ai fedeli la presenza puntuale di un pasto ma anche la sicurezza che i corrotti – di cui l’Egitto abbonda – saranno puniti. Poco per tutti e senza dover sopportare la vista di eccessi iniqui. L’islam, se sei pio e vivi in una piccola realtà, pensa a tutto, anche a darti moglie – non devi possedere un appartamento, come si chiede al Cairo, basta che tu sia osservante e l’imam combina il resto. Sono due scuole di pensiero economico in collisione tra loro: la ridistribuzione del poco che c’è contro l’aspettativa del pieno sfruttamento di un potenziale economico immenso che gli egiziani più aperti e moderni intuiscono dietro l’angolo (“Guarda la nostra posizione sulla mappa – dicono – siamo al centro di tutto, perché a Singapore l’economia vola e da noi no?”). I Fratelli musulmani riescono a blandire entrambe, e stanno sbancando le elezioni. Salafiti e liberali, che rappresentano gli estremi con una naturale maggioranza di proletari senza istruzione a vantaggio dei fanatici, muovono minoranze inconciliabili di elettori.
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