Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 04/12/2011, a pag. 32, l'intervista di Alain Elkann a Elie Wiesel dal titolo "La letteratura lascia sempre tracce di sé".
Elie Wiesel Alain Elkann
Incontro Elie Wiesel in un albergo parigino. È leggermente dimagrito, ma sorridente e come sempre ottimista. Da Flammarion sta uscendo il suo ultimo libro «Coeur ouvert», in cui descrive la recente operazione al cuore e nello stesso tempo fa un’analisi sulla sua vita e sulla sua opera letteraria, sul suo lavoro di professore e di testimone della Shoah. Cosa ne viene fuori?
«Forse il mio bisogno di scrivere. Tra tutti i 57 libri che ho scritto, questo è quello che più si avvicina a ciò che volevo raggiungere, cioè la verità e la semplicità».
Ha avuto paura di morire?
«Di morire prima della morte, di rendermi conto che si è impotenti fisicamente. Ora sono guarito, sto meglio ma il cammino talvolta mi sembra ancora pieno di spine e di ostacoli».
Cosa le dispiaceva di più lasciare?
«Naturalmente mia moglie, mio figlio, mio nipote e anche i miei allievi. Ho capito che dovevo prolungare il mio insediamento. Lo studio e la scrittura sono le due passioni della mia vita. Comunque non vedo nella morte una tragedia».
Ha capito molte cose invecchiando?
«Non sapevo di essere così fragile, e poi mi sono reso conto che un’iniezione o una pillola in certi momenti ha più forza del pensiero più profondo, dell’opera filosofica, della musica e anche dei sentimenti amorosi. E quindi protesto moltissimo perché non voglio dipendere da una pillola».
Lei ha riflettuto molto sui suoi libri e sul suo lavoro, ma da quanto scrive si capisce che non è contento. È così?
«Non sono soddisfatto nemmeno quando li metto giù. Pensavo di trasmettere, attraverso i miei scritti e le mie parole, cose indicibili, ma non è così».
Almeno è gratificato dal suo ultimo libro?
«Se uno scrittore è onesto sa che ciò che ha appena pubblicato non è il libro con la “L” maiuscola che voleva scrivere, eppure continua a farlo sperando che un giorno porterà a termine il “Libro”, quello buono».
Secondo lei nel mondo di oggi gli scrittori contano ancora qualcosa?
«Sì per i singoli individui, non per i politici e per la politica. Viviamo in un’epoca in cui si legge poco e si guarda molto la televisione: tutto è oggi uno show, compresi i notiziari. E io in nessun modo voglio fare parte dello spettacolo».
Che cosa pensa della Primavera araba?
«È un fatto che naturalmente mi è piaciuto e interessato molto. Non voglio però che vada troppo lontano. Mi sembra bello che i giovani, anche a costo di morire o di essere feriti, ad un certo punto abbiano saputo dire basta».
Ritiene che l’Iran rappresenti un pericolo?
«Sì, non solo per Israele ma per il mondo intero. Ed è proprio Ahmadinejad, negatore dell’Olocausto, colui che in qualche modo oggi lo rappresenta».
Crede che ci sarà una guerra?
«Non ho accesso alle informazioni ufficiali o ufficiose, quindi sarebbe inopportuno se dessi una qualunque risposta. Ma so che molti anni fa è stato deciso che l’Iran non può diventare una potenza nucleare militare».
Come vede la crisi che sta attanagliando il mondo?
«Non capisco molto di economia e di politica, però conosco la cultura, l’educazione e la filosofia. Certo che in America, il Paese in cui vivo, appena parte una campagna elettorale il fango si sparge dappertutto. Il livello si è davvero deteriorato in modo spaventoso e la qualità dei politici è bassissima, il loro linguaggio è volgare. Non esiste più quella fiera nobiltà nell’aspirazione di dirigere una comunità».
È vero che ha rifiutato di essere Presidente dello Stato d’Israele?
«Sì, era improbabile che lo potessi fare. Ho detto di no malgrado le moltissime insistenze. Un giorno, mentre mi trovavo in Israele, un giornalista mi ha detto: “Io non la capisco, non siamo abbastanza importanti per lei visto che rifiuta questo onore?”. Una domanda che mi ha fatto male, anche perché non volevo insultare Israele. Sono un uomo schivo che insegna e scrive. L’unica cosa che domino bene sono le mie parole, se diventassi Presidente non sarebbero più davvero mie. Inoltre sapevo che il mio amico Shimon Peres era il Presidente giusto per Israele».
È importante al giorno d’oggi il ruolo di un intellettuale?
«Sì, ma non negli Stati Uniti. In politica solo in Francia gli intellettuali si mescolano e in qualche modo riescono bene nei loro compiti. Nell’Europa personalmente ho creduto molto, mi è piaciuto pensare che non ci sarebbero state più guerre tra Francia, Germania e Inghilterra. E adesso, quando leggo che l’euro potrebbe avere le ore contate, sto male. Forse allora l’Europa unita era soltanto un’illusione...Io amo quello che unisce e non quello che separa. La letteratura, ad esempio, unisce e lascia sempre una traccia importante di sé negli uomini».
Per inviare la propria opinione ala Stampa, cliccare sull'e-mail sottostante