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Un libro da leggere 26/11/2011

Gentile Redazione,
mi permetto di segnalare un interessante libro su Israele scritto da due giovani esperti e competenti e pubblicato da una piccola casa editrice meridionale e di allegare la recensione di Benedetto Ligorio, recensione che, avendo letto il libro, reputo esplicativa, dettagliata e puntuale sul contenuto del testo.
Cordiali saluti

Daniele Coppin

Jonathan CURCI - Raffaele PETRONI, L’esistenza dello Stato d’Israele, il Medio Oriente e la comunità internazionale, Considerazioni sul conflitto. Preambolo di Scialom Bahbout. Prefazione di Antonio Donno, Messaggi Edizioni, Collana Cedri diretta da Cesare Colafemmina, Cassano Murge 2011

Una pace possibile solo attraverso il reciproco riconoscimento e l’accettazione della cultura dell’altro: questa la tesi di fondo che emerge dal volume di Petroni e Curci edito, per i tipi della Messaggi Edizioni, nella collana Cedri diretta dal professor Cesare Colafemmina. Gli autori elaborano un’analisi sistematica del conflitto mediorientale tesa a superare preconcetti e luoghi comuni, cause della reciproca demonizzazione tra cultura palestinese e civiltà ebraica. Il testo è percorso da costanti richiami al legittimo diritto storico, degli ebrei, di vivere in Eretz Israel e al valore religioso, per gli ebrei e non solo, di questo ristretto lembo di terra che si affaccia sul Mediterraneo, culla delle tre grandi religioni monoteistiche. Il testo offre una panoramica delle principali minacce allo stato d’Israele dal punto di vista sia culturale che militare. La disparità di giudizio, prevalentemente filo-arabo, da parte dei mass media e di conseguenza dell’opinione pubblica occidentale, in particolar modo europea, sul conflitto, è il preoccupante segnale della solitudine di Israele nel contesto mediterraneo. Il pacifismo si dimostra sostanzialmente filo-palestinese e di dichiarata matrice antisionista. Le nuove forme di antisemitismo progressista, seppur indirettamente, forniscono una giustificazione a quelle ferocemente violente di tradizione islamico-integralista. L’inquietante politica di proliferazione nucleare dell’Iran, analizzata nella sua peculiarità, rispetto alla minaccia irachena (risolta con il bombardamento mirato della centrale di Osirak nel 1981), si manifesta come minaccia concreta. È dunque possibile tracciare un collegamento diretto tra la politica di supremazia dell’Iran in Medio Oriente e il terrorismo palestinese di matrice jihadista? Non solo flusso di armi, ma un comune obiettivo: attraverso la negazione del diritto ad esistere per lo Stato d’Israele, cancellare la nazione ebraica dal Mediterraneo con ogni mezzo. Si profila la debolezza, non priva di ambigui silenzi, dell’ANP e dell’OLP rispetto alla capacità di gruppi come Hamas e Fatah di fare breccia negli strati popolari palestinesi, al fine di reclutare adepti volontari attraverso: la garanzia di un welfare minimo, la retorica nazionalista e oltranzista, il richiamo a ideologie panarabe. La strategia del terrorismo jihadista prevede l’utilizzo di scudi umani e la strumentalizzazione politica delle vittime civili e dei profughi. A fronte di una condizione di assedio permanente e dallo stato d’insicurezza in cui vive la popolazione è evidente la necessità strategica di Israele di disporre di una struttura difensiva, che implica anche il deterrente nucleare e la nota barriera di protezione, non priva di problemi etici considerevoli ma di fatto efficace nella riduzione drastica del numero di attentanti terroristici e di minacce concrete da parte di Stati totalitari. Il sionismo, demonizzato dai media occidentali come ideologia dell’occupazione, ridotto nell’immaginario occidentale ad una forma di colonialismo, benché particolare, è in realtà la legittima rivendicazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico. Gli autori mettono bene in luce come un’oculata campagna mediatica ha allontanato progressivamente l’opinione pubblica, ma anche la comunità internazionale, dalle simpatie verso Israele. A sostegno del diritto storico all’autodeterminazione del popolo ebraico in Eretz Israel sono citati: la dichiarazione di Balfur del 1917 e il trattato bilaterale anglo-americano del 3 dicembre 1924, entrambi precedenti alla ricostituzione dello Stato d’Israele. La proposta a conclusione del preambolo di Scialom Bahbout, rabbino delle comunità ebraiche di Napoli e del Mezzogiorno d’Italia: una Gerusalemme città della pace sede ideale dell’ONU, apre la riflessione, da parte degli autori, sulla condizione del tutto particolare della capitale di Israele. La risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottata nel 1947, nei fatti è rimasta sulla carta per il rifiuto opposto dagli stati arabi che hanno dato il via all’escalation militare, conclusasi nel 1949 con la vittoria israeliana. Gerusalemme è concepita dai palestinesi come prestigiosa capitale del loro possibile futuro Stato più per il suo valore simbolico che escatologico, al contempo è la capitale dello stato ebraico. Israele d’altro canto ha fatto risorgere la Città, consegnandole un volto moderno senza stravolgere quello antico e garantendo, anche nel mezzo dei conflitti, la sicurezza di tutti i luoghi sacri, compresi quelli islamici. La questione di Gerusalemme porta ad un problema di non facile risoluzione: le colonie. È possibile imporre ad un ebreo di non risiedere nella terra dei suoi antenati, compresi interi quartieri della stessa Gerusalemme? Indipendentemente dalla sovranità sulla Cisgiordania, questione affrontata, ma non risolta, nel 1967 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con risoluzione 242, un ebreo può rinunciare vivere in Giudea o in Samaria? Un’attenta lettura storica permette di comprendere come le forze esterne, che hanno storicamente negato il diritto all’autodeterminazione palestinese in Cisgiordania sino al 1988, sono le stesse che ora negano il diritto degli ebrei a vivere nei loro insediamenti. Curci e Petroni prospettano una soluzione al problema diplomatico dei territori occupati attraverso il reciproco riconoscimento culturale, in questo, come di fatto nota il senatore Luigi Compagna, consiste l’originalità della loro analisi. Un conflitto difficilmente risolvibile con la sottoscrizione di un trattato diplomatico, se laicamente si prescinde dalla comprensione della cultura dell’altro. La sfida consiste nel costruire un rapporto di reciproco riconoscimento tra identità, che non rinunciano necessariamente alle rispettive peculiarità, trasformandole in medios di arricchimento collettivo. Una visione spesso distorta porta a considerare colonie israeliane quelli che in realtà sono villaggi e le soluzioni spesso prospettate dalla comunità internazionale risultano di difficile attuazione. Il rifiuto opposto dagli arabo-palestinesi alle offerte di pace, messe in campo a più riprese sia dalla comunità internazionale che dai laburisti israeliani, è il segno più evidente di un vizio ideologico di fondo che non ammette compromessi. I missili sono stati la risposta al piano di disimpegno unilaterale israeliano da Gaza adottato nel 2004; gli attentati kamikaze hanno fatto seguito agli accordi di Oslo del 1993; la seconda intifada è stata il tragico epilogo degli accordi di Camp David del settembre 1978. Il professor Antonio Donno, nella sua prefazione al testo, annota l’importanza delle pagine dedicate dagli autori all’analisi del fallimento della politica di Arafat: restrizione delle libertà di base, repressione del dissenso, violazione dei diritti umani, generale abbassamento delle condizioni di vita del popolo palestinese. Il testo, prevalentemente incentrato sul diritto internazionale, sfiora fugacemente il tema delle comuni origini abramitiche di ebrei e palestinesi. Dopo una dettagliata ricostruzione della storia dei rapporti e dei conflitti tra Israele e i paesi confinati, l’analisi degli autori si concentra prevalentemente sul diritto ad Israele di esistere e svilupparsi in confini sicuri e difendibili. Emerge il profilo di uno Stato ebraico impegnato su due fronti: da un lato la lotta militare al terrorismo, dall’altro il braccio di ferro con la comunità internazionale. L’Occidente osserva ma appare sempre meno intenzionato a comprendere le legittime aspirazioni della piccola Israele in uno scacchiere mediorientale caratterizzato dalla preponderanza degli stati arabo-islamici, spesso a guida fondamentalista o autocratica. Attraverso la bibliografia, ricca e variegata, si innesca un dialogo tra voci contrapposte: da The Case for Israel di Dershowitz a Righteosus Victims di Morris, da Il libro nero dei regimi islamici di Panella a La pulizia etnica della Palestina di Papé. Letture che si combinano con una dettagliata analisi delle fonti di giurisprudenza, dei trattati internazionali e delle risoluzioni sia del Consiglio di Sicurezza che dell’Assemblea Generale dell’ONU dal 1947 al 2007. Il risultato è uno studio sul diritto all’autodeterminazione dello Stato ebraico non scevro di critiche nei confronti delle classi politiche alla guida di Israele e delle comunità palestinesi e di appelli alla lungimiranza delle future classi dirigenti a partire dalla cooperazione gestione delle risorse.

Grazie per la segnalazione, sicuramente un libro da leggere.
IC redazione
 


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