Riportiamo da SHALOM di novembre, a pag. 17, l'articolo di Angelo Pezzana dal titolo "La guerra contro i falsari della comunicazione".
Mohammed al Dura
C’è una guerra che Israele deve affrontare nella quale, purtroppo, Tzahal non c’entra nulla. L’hanno definita ‘guerra delle immagini’, ma il nome giusto dovrebbe essere ‘ guerra contro i falsari’, perché non si tratta di combattere contro eserciti o movimenti terroristi, ma contro una produzione di immagini che diffondono realtà inesistenti, costruite però in maniera tale da poter passare per credibili. I mezzi possono essere anche grossolani, rudimentali, non è la qualità estetica della fotografia che conta, ma lo scoop che quasi sempre si ottiene.
Alcune immagini possono essere preparate a tavolino prima di essere realizzate. Altre vengono improvvisate nei luoghi ‘caldi’. Le prime vengono decise da ottimi propagandisti che analizzano le situazioni più interessanti per danneggiare e quindi diffamare Israele. Si scelgono i personaggi adatti alla bisogna – gente qualunque ma con il ‘physique du role adatto’, che con il tempo sono diventati dei veri professionisti, riconoscibili però da chi naviga in internet con l’occhio attento. Immagino che qualcuno prepari una breve sceneggiatura, ecco un padre che corre disperato con il figlioletto grondante sangue (quanto pomodoro!) alla ricerca di una autoambulanza che non arriva. Un padre dal volto che è solo più una maschera di dolore. Attorno a lui, per nulla preoccupati che l’autoambulanza non arrivi, un gruppetto di fotografi, che gli danno buoni consigli, tieni più in alto il bambino, metti più in evidenza il viso ricoperto di sangue, non muoverti così, sembra che cammini, invece devi correre, urla aiuto se questo rende l’espressione del viso del padre più disperata. Finita la sceneggiata, la foto più riuscita verrà inviata alle agenzie, Reuters, AP, le più importanti, con una breve didascalia che indica il luogo – in genere vicino a una zona il cui bombardamento sia attribuibile a Israele. Se padre e figlio sembrano insufficienti, li si riprende in un territorio con edifici crollati, con un contorno di povera gente con le braccia rivolte al cielo, forse grate per il denaro, anche se poco, che riceveranno per la prestazione. Il paese dove questa attività funziona al meglio è il Libano, gli scenari si prestano, non occorrono ricostruzioni di nessun genere, un paio d’ore sono sufficienti. Dopodichè le foto dalla Reuters & Co. arrivano ai giornali di tutto il mondo, che pubblicano immediatamente, per documentare la ‘ferocia dell’aggressore israeliano’.
Il sito di Marco Reis www.malainformazione.it ne cita molti altri, ambientati a Beirut ma anche in Israele, dove i fotografi, che ben sanno quale è il valore ggiunto per vendere a scatola chiusa un servizio fotografico, preparano un set all’aperto, in qualche strada al confine con un villaggio arabo – meglio se confina con una via frequentata da automobili – e lì istruiscono ragazzini ad assalire i malcapitati con pietre, mentre tutt’intorno, miracolosamente, si era radunato spontaneamente un gruppo di fotografi. Inevitabile l’incidente. Un ragazzino viene urtato da un’auto colpita, cade sul cofano, l’autista, per evitare altre pietre accelera, insomma una scena ideale per dimostrare la rivolta degli > occupati< contro l’>occupante<. Una scena di questo genere è successa nel villaggio arabo di Silwan, nella parte orientale di Gerusalemme, lo scorso 10 ottobre, sull’auto c’era un politico israeliano, che vista la mala parata ha ritenuto più prudente accelerare invece di fermarsi.
Chi vede il breve filmato, su youtube o altrove, non sa che la curva dove è avvenuto l’incidente porta a una zona militare e che i turni di guardia cambiano ogni giorno alle 13,15. Per cui organizzare un incidente è, appunto, un gioco da ragazzi. E da fotografi, come ha documentato bene la ricostruzione di Ruben Salvadori.
Questi inganni non vengono quasi mai scoperti, i giornali continuano a pubblicare senza verificare, quelle sono ‘zone calde’, può succedere di tutto, no ? e poi quelle foto sono ghiotte per una informazione che si pone quale primo obiettivo la tiratura piuttosto che la verifica delle fonti. Non succede solo in Italia, però qualche testata quando sbaglia poi si scusa. E’ rimasta famosa la gaffe del New York Times (30 settembre 2000) quando pubblicò in prima pagina una foto firmata Associated Press, con il titolo “ Un poliziotto israeliano ed un palesatine sul Monte del Tempio”, nella quale si vedeva in primo piano un giovane dal volto ricoperto di sangue e dietro di lui un poliziotto israeliano con in mano un manganello. Quell’immagine fece il giro del mondo, peccato che la verità fosse un’altra, l’opposto di ciò che l’ quotidiano aveva scritto. Il giovane era un ebreo americano, era appena stato assalito da un gruppo di arabi e avrebbe fatto una brutta fine se non fosse intervenuto il poliziotto a salvarlo. Era stato il babbo, negli Stati Uniti, a riconoscere il proprio figlio e a telefonare a New York Times. Che pubblicò poi la smentita.
Morale: cosa potrà mai fare un poliziotto israeliano con in mano un manganello se davanti a lui c’è un giovane insanguinato ? Averlo appena picchiato, è naturale.
E si trattava del New York Times e dell’Associated Press.
E dovremmo stupirci per la rivelazione – si veda il sondaggio presentato alla Camera dei Deputati da Fiamma Nirenstein – se il 44% degli italiani è ostile agli ebrei ? Giornali, libri scolastici, convegni accademici, incontri nelle parrocchie, il nostro paese, con felici eccezioni, è tutto un fiorire di iniziative contro Israele. Nulla contro gli ebrei, ci mancherebbe ! Poi arriva quel 44%, e allora si spengono i sorrisi, chi prima elogiava l’Italia per essere il paese europeo con meno pregiudizi si ricrede e incomincia a chiedersi dove abbiamo sbagliato. Già, dove.