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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Amos Oz, Il monte del Cattivo Consiglio 14/11/2011

Il monte del Cattivo Consiglio          Amos Oz
Traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli                                               Euro 17

La mano è aperta, come atteggiata in un saluto. Una fiammella sottile si leva dal palmo e arde senza consumarsi. La foto sulla copertina, scattata da Estelle Hanania, mette il lettore sull’avviso. Nel “Monte del Cattivo Consiglio” di Amos Oz, c’è un intero mondo che brucia. In maniera discreta, senza levare fumo, quasi senza calore. E’ la fiamma vitrea del ricordo, tagliente e impietosa come i più crudeli meriggi di Gerusalemme. Tre testi dei primi anni Settanta, nella traduzione elegiaca di Elena Loewenthal: pochi per racchiudere l’intero orizzonte creativo di Oz, abbastanza per abbandonarsi a una scrittura intessuta di lucente cordoglio. I protagonisti si rammaricano perchè Israele non c’è ancora (siamo tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fondazione dello stato nel 1948)  ma portano innanzitutto il lutto per se stessi. Per il prevedibile fallimento delle loro illusioni, se sono adulti, o per la fragilità delle proprie speranze, nel caso degli adolescenti.
Il primo racconto, che dà il titolo alla raccolta, è forse una delle cose migliori dell’autore israeliano. Inizio e fine sono memorabili, con movimentate scene di svenimenti e tradimenti, una nobildonna inglese laida e malevola e un nobiluomo, britannico anch’egli, azzimato e sporcaccione. Nel mezzo, gli affanni di una famiglia d’immigrati ebrei, malati di nostalgia per l’Europa e alle prese con l’arsura e le ristrettezze della Palestina mandataria. E’ il tradizionale microcosmo semi-autobiografico di Oz, segnato dalla decorosa estraneità tra i genitori e la sognante, morbosa sensibilità del figlio.
Rispetto alle prove maggiori, per esempio “Una storia d’amore e di tenebra”, le dimensioni ridotte del racconto rendono il ritmo della narrazione sincopato, con i sentimenti che s’incuneano tra aurore già gravide d’afa, tramonti paurosi di latrati lontani e l’attesa di un evento risolutivo, che – ahimè – non mancherà di compiersi.
Oz riesce quasi sempre a infilare frasi danzate più che scritte, omaggio alle due bellezze che lo hanno irretito: quella “autunnale, introversa” della madre e l’altra, “inondata di vento, sferzata di foglie”, lambita dal deserto e dalle uadi, di Gerusalemme. Entrambe, la donna e la città, amate perdutamente e incomprensibili, appena afferrate col cuore e subito perse. “Signora, la vostra bellezza e quella di Gerusalemme sono state create con la stessa suprema ispirazione”. E’ un complimento galante rivolto alla mamma, che suona anche come un essenziale manifesto poetico. Come la città si orna di mura abbacinanti di sole e di monti densi di tenebra, alterna gioia e smarrimento a seconda dei ritmi del giorno e delle stagioni, così la madre si ammanta di rimpianti e di sensualità, dà amore e prepara la sventura. Non è una questione morale ma di stile: Oz non indugia sui perché, non si perde in divagazioni sull’intreccio inesplicabile di male e bene. Resta fedele alle pietre, alla carne, alle ombre, ai voli d’uccelli che strillano unisoni, “vuoi di allegria vuoi di disperazione”. Fino a quando, per tanto immergersi in se stessa, scrutarsi e stupirsi, l’anima avvampa e svanisce in un’estrema, irrimediabile autocombustione.

Giulio Busi
Il Sole 24 Ore


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