Il commento di Giorgio Israel
Giorgio Israel
È stata una settimana calda, una settimana piena di eventi cruciali per Israele. In primo luogo, si è registrata la sostanziale sconfitta del tentativo della dirigenza palestinese di far ammettere all’ONU la Palestina come stato a pieno titolo. La proposta non ha raggiunto la maggioranza minima nel Consiglio di Sicurezza, rendendo superfluo il veto statunitense, e ora l’unica prospettiva è quella di un’ammissione a livello inferiore. Non c’è dubbio che queste sostanziali disfatte creeranno un problema molto serio per Abu Mazen e per la dirigenza dell’ANP, a tutto vantaggio di Hamas che si era dissociata dalle iniziative. È difficile fin d’ora valutarne le conseguenze, ma di certo ora nulla è più come prima. A ciò si aggiunga che l’ammissione della Palestina come membro a pieno titolo dell’Unesco è sembrata una vittoria, ma si è trasformata in una vittoria di Pirro, perché l’ineffabile ente internazionale è stato messo in ginocchio dal ritiro del finanziamento americano. Quantomeno, la sciagurata politica di revisione storica dei beni culturali, tesa a cancellare la presenza ebraica, avrà bisogno per andare avanti - se riuscirà ad andare avanti - di altri sostegni, magari di quello esplicito dei diretti interessati e dei loro complici, col risultato di delegittimare l’ente mettendone in luce il carattere di fazione.
Pertanto, su questi fronti, una situazione che appariva catastrofica per Israele sembra essersi volta in modo più favorevole: “sembra”, perché in fin dei conti potrebbe portare al rafforzamento delle correnti più estremistiche. Purtroppo, la settimana è stata segnata da un altro evento di ben maggiore portata e che farà ricordare questi giorni come cruciali. Si tratta della pubblicazione del rapporto dell’Agenzia Atomica che conferma quanto si sapeva da tempo, ma non si voleva ammettere: e cioè che l’Iran non soltanto persegue un programma di fabbricazione della bomba atomica, ma è a un passo dalla sua realizzazione, e a questo programma ne accompagna uno di natura missilistica che getta una luce a dir poco inquietante sulle intenzioni della teocrazia iraniana. Ripeto: in fondo non c’è sorpresa, queste cose le sapeva chiunque non volesse chiudere gli occhi. Ma quel che è sconvolgente e rende questa settimana un passaggio da non dimenticare è la reazione dei governi occidentali di fronte a notizie che forse non si voleva sentire. Si è assistito a un vociare confuso, tra chi minimizza, chi comunque ha messo in guardia da “improvvidi” interventi militari, e chi ha continuato a chiacchierare di sanzioni da inasprire mentre persino questa debole risposta si è subito infranta di fronte al muro eretto dalla Russia, dalla Cina e dalle potenze emergenti (India, Brasile, Sudafrica).
La tragica impotenza manifestata in questi giorni, la debolezza di un Occidente confuso, diviso e incapace di imporre alcunché, hanno descritto una realtà che molti si ostinano a non voler vedere e cioè l’emergere di nuovi equilibri mondiali. Il dato di fatto è che in quegli equilibri l’Occidente conta molto ma molto di meno, sempre di meno. Non ci riferiamo soltanto all’irrilevanza dell’Europa - che si contorce in una crisi economica, in gran parte provocata da sé stessa e dalle ricette tecnocratiche con cui tenta vanamente di uscirne - ma alla crescente debolezza degli Stati Uniti, ormai un paese come molti altri e spesso irriso e “snobbato” da quelli emergenti. Si tratta evidentemente di un processo che ha radici lontane ma che la presidenza Obama ha accelerato, portandolo alla luce in modo drammatico. La celebre definizione di Mao Tse Tung dell’“imperialismo americano” come una tigre di carta era uno slogan propagandistico, mentre ora è divenuta una fotografia della realtà. Quale futuro vi può mai essere per un Occidente in cui vi sono paesi che, mentre farfugliano sull’atomica iraniana, non trovano di meglio che vietare i fumetti di Tintin perché non sono politicamente corretti?