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Il Foglio - L'Opinione - Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
08.11.2011 Iran nucleare: diffuso oggi il dossier dell'Aiea
commenti di Christian Rocca, Stefano Magni, Pio Pompa, Redazione del Foglio

Testata:Il Foglio - L'Opinione - Il Sole 24 Ore
Autore: Redazione del Foglio - Pio Pompa - Stefano Magni - Christian Rocca
Titolo: «Un bunker, un pc e uno scienziato. I segreti del report dell’Aiea - La minaccia mediorientale - L'atomica dell'Iran e le (in)decisioni di Obama - L’abbraccio di Mosca a Teheran»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 08/11/2011, a pag. 3, gli articoli titolati " Un bunker, un pc e uno scienziato. I segreti del report dell’Aiea " e "Si fa presto a dire strike. I problemi di un attacco all’Iran ", l'articolo di Pio Pompa dal titolo " Nel rapporto dell’Aiea manca ancora un’inconfessabile verità ", l'editoriale dal titolo " L’abbraccio di Mosca a Teheran ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 22, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " L'atomica dell'Iran e le (in)decisioni di Obama ". Dall'OPINIONE, a pag. 6, l'articolo di Stefano Magni dal titolo " La minaccia mediorientale ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - "Un bunker, un pc e uno scienziato. I segreti del report dell’Aiea"


Mahmoud Ahmadinejad, Mohamed el Baradei. Da presidente dell'Aiea ha aiutato l'Iran a tenere segreto il suo piano nucleare

Milano. Quando Yukiya Amano prese il posto di Mohammed ElBaradei al vertice dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, sentenziò che i giorni dei rapporti amichevoli tra l’Iran e l’agenzia erano finiti.
Per una volta aveva ragione. Mentre Israele minaccia un attacco alle installazioni atomiche iraniane e Ahmadinejad replica al vetriolo (“Washington vuole salvare l’entità sionista ma non ci riuscirà”, “questa entità può essere paragonata a un rene trapiantato in un corpo che lo rifiuta. Crollerà e la sua fine è vicina”), a Vienna, in uno stillicidio di indiscrezioni, l’Aiea si prepara a diffondere il più duro tra i suoi dossier sulle mire nucleari di Teheran. Stando alle rivelazioni finora trapelate il report farebbe emergere “la possibile dimensione militare del programma atomico iraniano”.
Molti misteri secondo gli investigatori dell’Agenzia atomica si nascondono in una base militare affiliata al ministero della Difesa dove, secondo le indiscrezioni, il regime iraniano avrebbe condotto i test per far detonare la sua bomba. Situata 30 km a sud est di Teheran, Parchin fu intercettata dai radar degli ispettori già nel 2004.
L’ex funzionario americano dell’Aiea David Albright pubblicò un’analisi su Parchin affermando che si trattava di un sito ideale per condurre test atomici di natura militare, ma le prove – sottolineava – erano “ambigue”. Nel 2005 e nel 2006 gli uomini dell’agenzia entrarono a Parchin e prelevarono alcuni campioni, ma le analisi non avvalorarono i sospetti. Secondo l’ex capo ispettore dell’Aiea Olli Heinonen, “a quel tempo la maggior parte delle installazioni per condurre i test esplosivi era ancora in costruzione”.
Nel frattempo la moglie di uno scienziato nucleare iraniano assoldato dall’intelligence tedesca è fuggita in Turchia con il “portatile della morte”, un computer pieno di documenti, diagrammi e filmati con i disegni delle testate nucleari iraniane e altri segreti. Altre decisive rivelazioni – direbbe il rapporto Aiea – sarebbero arrivate grazie all’individuazione di uno studioso russo, Vyacheslav Danilenko, assoldato dal Centro di ricerca fisica iraniano alla metà degli anni Novanta. Danilenko tiene conferenze e condivide i suoi appunti: è l’anello mancante nella catena del know how iraniano. E’ lui a svelare a Teheran (Danilenko asserisce di essere stato all’oscuro degli obiettivi iraniani) come costruire l’R265, “una conchiglia di alluminio emisferica con un intricato meccanismo di detonatori in grado di far scattare un’esplosione con una precisione di mezzo secondo”.
Sette anni fa, l’Iran ammise che alcune esplosioni avevano avuto luogo a Parchin, ma insistette sulla natura convenzionale delle attività della base che, formalmente, produce solo razzi e munizioni per l’esercito. Le immagini dei satelliti e le confessioni degli scienziati iraniani riparati all’estero raccontano una storia diversa e, secondo l’Aiea, Teheran a Parchin nasconderebbe “una camera d’acciaio” per portare avanti le sue prove atomiche. Che ci sia più sostanza del solito nel rapporto dell’Agenzia atomica pare suggerito dal nervosismo con cui Mosca e Pechino hanno protestato con Amano per la fuga di notizie. Nella tensione della vigilia, l’unica domanda che conta ruota attorno all’esistenza della cosiddetta “pistola fumante”.
Per il Washington Post, in base a quanto finora filtrato, Teheran possiede il know how per costruire un ordigno nucleare; il Financial Times titola sulla “prova dell’intenzione iraniana di dotarsi di armi atomiche”. Gli esperti non sono concordi, il New York Times invoca prudenza e il Guardian, dopo aver lanciato la settimana scorsa la notizia di un probabile strike israeliano, ammonisce: “Non ci sono riscontri che documentino la volontà dell’Iran di dotarsi di armi atomiche. Sembra che Teheran abbia deciso di guardare alle opzioni tecniche in caso un giorno debba decidere di andare avanti su quella strada”.

Il FOGLIO - Pio Pompa : " Nel rapporto dell’Aiea manca ancora un’inconfessabile verità "


Pio Pompa

E’maledettamente troppo tardi”. Esordisce così un alto funzionario di intelligence, considerato tra i massimi esperti mondiali nella controproliferazione nucleare, commentando la versione confidential del rapporto sull’Iran che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha provveduto a inviare, nei giorni scorsi, alle principali potenze occidentali. Una versione che, pur essendo molto più dettagliata di quella ufficiale, viene da lui liquidata con una smorfia di sarcasmo misto ad amarezza e risentimento: “Questo documento non rappresenta altro che il rapporto posdatato di quanto era stato ormai asseverato, da almeno quattro anni, all’interno di una ristretta cerchia di servizi segreti con in testa Cia, MI6 e Mossad. Cioè l’utilizzo, da parte di Teheran, di uranio arricchito per scopi militari con l’obiettivo di dotarsi, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, di testate nucleari”. Questa realtà, documentata con grave rischio dagli agenti soprattutto israeliani infiltrati in Iran, trovò da subito una barriera insormontabile proprio nell’Aiea all’epoca diretta dall’egiziano Mohammed ElBaradei.
Lo stesso che nei suoi dodici anni (dicembre 1997-novembre 2009) trascorsi al vertice dell’Agenzia atomica aveva fatto del compromesso politico e dialogante il metodo indiscusso attraverso cui affrontare i dossier più delicati e scottanti. Un metodo che, stranamente, veniva puntualmente dimenticato specie quando in ballo vi erano questioni che coinvolgevano Israele, trovando sponde interessate non soltanto all’interno dell’Onu ma anche nei meandri della comunità di intelligence con il risultato, manipolatorio e omissivo, di dare credito alle affermazioni iraniane di un uso del nucleare a soli scopi civili. Persino il rapporto statunitense del National Intelligence Estimate (Nie), pubblicato nel 2007, ne rimase influenzato certificando, maldestramente, da un lato la rinuncia di Teheran a dotarsi di armi nucleari, dall’altro indicando nel 2010 l’anno di messa a regime della produzione di uranio arricchito (Heu) indispensabile per la costruzione dell’atomica. “Pavido e infranciosato”, definisce ElBaradei la fonte d’intelligence, aggiungendo: “I suoi anni di gestione dell’Aiea sono stati disastrosi.
Oggi non saremmo a interrogarci sulla fattibilità e sulle conseguenze di un attacco ai siti nucleari iraniani se egli avesse accolto, per tempo, le nostre informazioni sottraendosi, contestualmente, all’influenza della Francia legata all’Iran da forti interessi economici incluso il settore dell’energia atomica fornendo attraverso la Areva, una società del gruppo Cogema, partecipata fino a qualche anno fa da Teheran con una quota del 10 per cento, know how, attrezzature e tecnologie riguardanti proprio il nucleare”. Il tutto con l’appoggio di una lobby internazionale che, da ultimo, avrebbe svolto un ruolo cruciale nell’ammissione della Palestina, non a caso col voto favorevole di Parigi, tra i membri dell’Unesco. Il rapporto dell’Aiea, oggi diretta dal giapponese Yukiya Amano, appare come una riparazione tardiva dei compromessi e delle omissioni passate. Per l’alto funzionario di intelligence manca ancora qualcosa nel rapporto: “L’ammissione che nulla ormai potrà impedire all’Iran di divenire una potenza nucleare”. Solo così si può comprendere il dramma di Israele e anche il risentimento nell’avergli impedito, quando era ancora possibile, di disinnescare con un attacco preventivo la minaccia rappresentata dal nucleare iraniano. Adesso l’opzione militare potrebbe risolversi in un fallimento con conseguenze di incalcolabile portata per l’intero medio oriente. L’Iran non è la Libia del defunto Gheddafi. Il bellicoso Nicolas Sarkozy ha già preso le distanze da Washington e da Londra riproponendo l’inutile refrain delle sanzioni.

Il FOGLIO - " Si fa presto a dire strike. I problemi di un attacco all’Iran "


Bibi Netanyahu

Roma. Difficilmente Israele potrà attaccare le installazioni nucleari iraniane con un’offensiva aerea, come quella che nell’81 distrusse il reattore di Osirak, una trentina di chilometri a sud di Baghdad. Allora, per l’“Operazione Opera”, erano bastati otto caccia F-16, ma si trattava di fermare una reattore in grado di produrre 40 megawatt. Oggi, a trent’anni di distanza, si tratta di fermare un programma nucleare disperso in un reticolo di impianti, spesso di dimensioni considerevoli (il reattore di Bushehr, inaugurato il 12 settembre, punta a produrre mille megawatt, a pieno regime). La proliferazione degli obiettivi complica l’attacco aereo, che come lasciano intuire le recenti esercitazioni alla base sarda di Decimomannu, Israele starebbe ultimando nei suoi dettagli. La gloriosa aviazione israeliana, per quanto dotata di bombe “bunker buster” – missili che superano la tonnellata, in grado di colpire obiettivi nascosti sotto metri di roccia – da sola, non ne avrebbe le forze.
“Dobbiamo presumere che l’Iran stia facendo tutto il possibile per proteggere il suo arsenale, nascondendo e disperdendo il più possibile gli obiettivi – dice Pieter Wezeman, dell’International Peace Research Institute di Stoccolma – per questo sarà molto difficile per Israele mettere a segno un attacco a tutti gli impianti essenziali”. Anche gli alleati americani, se sollecitati, non potrebbero fermarsi alle 55 bombe “bunker buster” spedite in Israele nel 2009, di cui ha raccontato Newsweek a fine settembre, con uno scoop di Eli Lake. Servirebbe almeno l’aiuto dei bombardieri B2, in grado di bombardare l’Iran con ordigni di questo calibro partendo dalla base di Whiteman, nel Missouri (da cui sono partiti svariate volte anche nell’appena conclusa campagna di Libia). Visti i rischi, se ci si vuole servire solo dell’aviazione, è meglio ripiegare su un attacco selettivo, meno massiccio ma comunque incisivo.
Come dice al Foglio l’esperto di strategia militare Martin van Creveld, “è molto più probabile che l’offensiva israeliana punti a rallentare il programma atomico iraniano, colpendone gli snodi più importanti, piuttosto che ad annientarlo”. I punti più avanzati del programma nucleare di Teheran, però, sono stati costruiti sotto terra o incastonati nelle montagne, al riparo, sperano gli iraniani, da attacchi aerei e da virus informatici come Stuxnet. Contro questo tipo di strutture potrebbero non bastare nemmeno bombe come la Massive Ordnance Penetrator (Mop), fiore all’occhiello dell’aviazione statunitense (i dieci ordigni in produzione sono in grado di scendere fino a quaranta metri sotto la roccia, o otto metri nel cemento rinforzato).
Bisognerebbe allora ricorrere ai missili balistici, che, sparati da terra, escono dall’atmosfera per poi rientrarci, puntando al terreno con una spinta nettamente superiore. Guarda caso, nel giorno in cui il mondo si allertava per un’indiscrezione secondo la quale il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva convinto il suo esecutivo ad attaccare l’Iran, sopra i cieli di Tel Aviv sfrecciava il missile balistico Jericho III, ufficialmente per un test di routine. Ma anche i Jericho potrebbero non bastare: secondo i calcoli di Abdullah Toukan, del Center for Strategic and International Studies di Washington, servirebbero 42 Jericho III per essere sicuri di aver “danneggiato pesantemente, o forse demolito” almeno i siti di Natanz, Esfahan e Arak. Il rischio di un attacco scoordinato è talmente alto che, scrive Yediot Ahronot, gli stessi alleati americani stanno lavorando su più piani diplomatici per ottenere una condanna netta da parte del Consiglio di sicurezza Onu, con sanzioni letali quanto basta per contenere l’impazienza di Gerusalemme.

L'OPINIONE - Stefano Magni : " La minaccia mediorientale "


Stefano Magni. M. Ahmadinejad : "Certo che il nostro piano nucleare è a scopo pacifico? Perchè me lo chiedete?".

Chi è minacciato di distruzione in Medio Oriente? A giudicare dalle reazioni diplomatiche di Russia e Stati Uniti, sembrerebbe proprio che l’Iran sia minacciato da Israele. Perché a Gerusalemme, da tutta la settimana scorsa, si parla con una certa insistenza di un attacco preventivo agli impianti nucleari della Repubblica Islamica. Domenica è intervenuto anche il presidente dello Stato ebraico, affermando che: “La possibilità di un attacco militare all’Iran è ora più probabile dell’applicazione di opzioni diplomatiche”. E’ per questo che da Washington giungono segnali di nervosismo nei confronti dell’alleato e da Mosca, invece, partono minacce più o meno esplicite. “La nostra posizione è chiara – ha ribadito ieri il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – (un attacco preventivo, ndr) sarebbe un grave errore dalle conseguenze imprevedibili”. La Russia ha fornito il grosso dell’assistenza tecnica al programma nucleare iraniano. Le conseguenze “imprevedibili”, dunque, non escludono una reazione russa a un eventuale raid israeliano. Tuttavia un'offensiva dello Stato ebraico alla Repubblica Islamica è ben poco probabile. Per il fatto stesso che se ne stia già parlando. Senza il fattore sorpresa, infatti, gli israeliani avrebbero ben poche possibilità di successo. Ma, ripetendo la domanda iniziale, chi è minacciato di distruzione in Medio Oriente? Quando si parla di questa crisi nucleare, spesso si tende ad enfatizzare le conseguenze (sanzioni e un possibile attacco preventivo), ma a dimenticare o sottovalutare la sua origine: il programma atomico di Teheran. Solo sulla carta si tratta di un progetto civile. Ma un nuovo rapporto dell’Aiea, che sarà pubblicato questa settimana (ma alcune anticipazioni sono già trapelate alla stampa), semina nuovi dubbi sulla sincerità del regime islamico, apertamente ostile a Israele. Secondo l’organismo Onu per il monitoraggio del nucleare, sarebbe ricominciata la produzione di uranio arricchito al 20%. Poco male: serve come combustibile. Però, se arricchito al 90% è utile per la fabbricazione di armi atomiche. E una parte del processo di arricchimento è in fase di trasferimento a Qom, in bunker sotterranei a prova di atomica e lontano da occhi “indiscreti”. Vi sarebbero indizi sulla progettazione di testate nucleari, ben poco attinenti a un programma civile. Vi sono foto satellitari che mostrano l’allestimento di un sito che potrebbe essere usato per un test atomico militare. Se tre indizi fanno una prova...

Il SOLE 24 ORE - Christian Rocca : " L'atomica dell'Iran e le (in)decisioni di Obama "


Christian Rocca, Barack Obama

Qualche anno fa erano i cattivi dell'amministrazione Bush, i falchi della destra israeliana e i famigerati intellettuali neoconservatori a sostenere che l'Iran si stesse dotando dell'arma nucleare e che sarebbero stati guai per tutti. Ora, con qualche anno di ritardo, a ripetere le stesse cose sono i buoni, i ragionevoli, i presentabili in società. Addirittura tre Nobel per la Pace. Gli ayatollah islamici sono a un passo dal costruirsi le testate nucleari, sostiene improvvisamente l'Aiea, l'Agenzia atomica delle Nazioni Unite già insignita del premio Nobel per la Pace nel 2005 anche per aver contenuto, si diceva allora in polemica con Bush, il progetto nucleare iraniano.

Un altro Nobel per la Pace, il presidente laburista israeliano Shimon Peres, insignito dell'onorificenza nel 1994, spiega che la possibilità di un attacco militare contro l'Iran è molto vicina, a causa dell'irreversibile corsa islamista verso la bomba e della retorica sulla cancellazione dell'entità sionista dalla cartina geografica.

Poi c'è Barack Obama, Nobel per la Pace 2009: «La politica iraniana di Obama – ha scritto Fareed Zakaria sul Washington Post – è molto simile a quella di George W. Bush». Il presidente è impegnato in una difficile campagna di rielezione che potrebbe ulteriormente complicarsi se a novembre 2012 si dovesse presentare agli elettori avendo consentito all'Iran di diventare una potenza militare nucleare. «Un Iran armato con il nucleare è inaccettabile», aveva promesso Obama. Il punto centrale della sua politica estera, esplicitato nel famoso e male interpretato discorso del Cairo del 2009, era l'abbandono della politica del regime change e il rilancio del dialogo con il regime di Teheran, al fine di ristabilire un rapporto di fiducia e di trovare un accordo pacifico sul nucleare civile.

Ora Obama si trova nell'imbarazzante situazione immaginata tre anni fa dal suo ex avversario John McCain: «Peggio di un'azione militare contro l'Iran c'è solo un Iran dotato di armi nucleari».

Qual è, dunque, la strategia di Obama, dopo l'illusione della politica della mano tesa e la dura realtà nucleare svelata dal rapporto Onu? La Casa Bianca sta cercando di applicare l'ormai famosa «dottrina Obama»: guidare il mondo da dietro le quinte, tenere a distanza i riflettori e colpire senza pietà.

Il New York Times, domenica, ha raccontato in un lungo e drammatico articolo «la guerra segreta con l'Iran», una riedizione della Guerra Fredda con tanto di basi segrete per i droni, di batterie antimissile installate nei Paesi arabi alleati e di navi da guerra nel Golfo Persico. A settembre si è scoperto che Obama ha fornito a Israele le potenti bombe anti bunker, capaci di colpire in profondità e di raggiungere obiettivi nascosti sottoterra come le centrali nucleari iraniane (Bush ne aveva negato la fornitura per timore che Israele le usasse). Il Pentagono ha fatto sapere di aver richiesto l'autorizzazione per condurre operazioni militari segrete in Iran. A luglio, nel giro di poche ore, quattro big dell'amministrazione hanno accusato ufficialmente e in modo circostanziato l'Iran di uccidere i soldati americani in Iraq e in Afghanistan. Negli stessi giorni gli obamiani hanno formalmente imputato l'Iran di aver costituito un'alleanza strategica con al Qaeda. Il Times ora intravede una mano americana dietro il virus Stuxnet che ha mandato in tilt i computer delle centrali iraniane e scrive di un nuovo Stuxnet 2.0, una versione aggiornata e più efficace della sofisticata arma informatica.

Qualsiasi cosa decida, Obama rischia di sbagliare. La tentazione è di «leave it to Bibi», di lasciare che se ne occupi il premier israeliano Bibi Netanyahu, secondo il consiglio pilatesco dello stratega liberal Kenneth Pollack e sul modello Sarkozy-Gheddafi. Ma l'Iran non è la Libia, leading from behind è impossibile. Obama sarà costretto ad esercitare la leadership in prima persona, secondo il dettato della frase che Harry Truman teneva in bella vista sulla scrivania dello Studio Ovale: «The buck stops here», le decisioni si prendono qui e se ne accetta la responsabilità.

Il FOGLIO - " L’abbraccio di Mosca a Teheran "


Sergej Lavrov, capo della diplomazia russa

L’ultimo a parlare è stato il capo della diplomazia russa, Sergei Lavrov. Ieri ha detto che l’attacco all’Iran nucleare sarebbe un errore grossolano per l’occidente: l’opzione armata avrebbe conseguenze imprevedibili in tutto il medio oriente e provocherebbe un numero di vittime elevato. Non è la prima volta che Mosca blocca l’ipotesi di un intervento militare contro le centrali degli ayatollah e non è un caso che Lavrov si faccia vivo adesso. Il nuovo rapporto dell’Aiea porta notizie poco confortanti alla comunità internazionale, l’Iran s’avvicina alla bomba atomica, possiede l’uranio che serve ad armare quattro testate e un buon numero di missili a medio e lungo raggio. Ce n’è quanto basta per guastare il sonno al vicino Israele come all’Arabia Saudita, alla Turchia e a molti paesi europei (Russia compresa). Il Cremlino non mette in discussione i dubbi e i sospetti sul programma atomico iraniano, ma ha poca simpatia per la soluzione prospettata in Israele. L’amicizia fra Mosca e Teheran non ha un giorno ed è stata stabile anche nei momenti più complicati: la Russia ha venduto armi all’Iran, ha chiuso contratti sull’assistenza militare e ha fornito combustibile alle sue centrali atomiche; al tempo stesso, ha dato il via libera alle sanzioni dell’Onu ogni volta che il regime iraniano ha mostrato di essere un pericolo troppo grosso per restare a guardare. Oggi la Russia è l’unica, grande potenza che può dire di avere rapporti ufficiali con l’Iran senza suscitare disapprovazione. L’approccio di Lavrov, un diplomatico esperto vicino a Putin, affonda nel realismo, è condiviso da molti analisti in Europa e negli Stati Uniti, come pure in Israele, ma in questa fase può avere effetti catastrofici sugli equilibri del medio oriente. Se la Russia non vuole l’atomica iraniana, deve usare il proprio rapporto speciale con Teheran per impedire che ciò avvenga. In caso contrario gli ayatollah avvertiranno sempre la sensazione di avere un antico alleato oltre le montagne del Caucaso, un amico influente in grado di fermare sanzioni e attacchi ogni volta che la pressione sale: al momento decisivo, anche il Cremlino dovrà scegliere fra la bomba degli ayatollah e i suoi legittimi affari in medio oriente.

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