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Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.11.2011 Sergio Romano, disgustoso
Definisce prigionieri di guerra i terroristi palestinesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 01 novembre 2011
Pagina: 43
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Riflessioni sul caso Shalit, le ragioni dello scambio»

Sergio Romano le spara talmente grosse che uno dubita se si renda conto oppure no di ciò che scrive. Il fatto che continui a farlo sul CORRIERE della SERA ci conferma piuttosto della inamovibilità dei faraoni della casta dei giornalisti.  Romano può scrivere che i 1027 detenuti nelle carceri israeliane, condannati da un regolare tribunale per crimini mostruosi, erano in realtà dei " prigionieri di guerra ", offendendo così l'onore di quanti hanno combattuto e combattono in guerre di difesa del proprio paese, sia Israele o qualunque altra democrazia. E li paragona a Gilad Shalit, rapito in territorio israeliano, rinchiuso per cinque anni chissà dove, senza che nessuno potesse verificarne le condizioni. Disgustoso, è l'unico aggettivo che ci viene in mente.
Ecco la lettera del lettore e la risposta di Romano

Ancora mi è poco chiaro
per quale motivo in cambio del soldato israeliano Gilad Shalit siano stati rilasciati un migliaio di detenuti palestinesi.
Cesare Scotti
cesare.scotti@libero.it


Caro Scotti,
C onviene anzitutto ricordare che altri scambi della stessa importanza hanno già avuto luogo in passato. Negli ultimi tre decenni, secondo Walter Reich, direttore del Museo dell'Olocausto di Washington dal 1995 al 1998 (International Herald Tribune del 20 ottobre), Israele avrebbe scambiato 7.000 prigionieri per la liberazione di 16 israeliani e la restituzione dei resti mortali di altri 10. Secondo un altro calcolo, i prigionieri palestinesi liberati, dal 1985, sarebbero addirittura 10.000. La prima domanda a cui rispondere, quindi, dovrebbe essere: perché il caso Shalit e la sua soluzione sono stati percepiti dalla pubblica opinione, in Israele e nei Paesi occidentali, come un fatto nuovo?
Le ragioni sono probabilmente due. In primo luogo la tenacia dei genitori e la loro tenda, montata per molti mesi accanto all'ufficio del Primo ministro israeliano, hanno commosso la società e creato una straordinaria ondata di emozione nazionale. In secondo luogo l'opinione pubblica israeliana è assai meno disposta di quanto fosse in passato a tollerare la logica del conflitto e il sacrificio dei suoi figli. Se il Paese non fosse cambiato, Benjamin Netanyahu, probabilmente, avrebbe rifiutato uno scambio che espone Israele ad altri rapimenti e patteggiamenti. Nel 1995, in un libro intitolato «Fighting Terrorism», aveva scritto: «La liberazione dei prigionieri imbaldanzisce i terroristi dando ad essi il sentimento che la loro punizione, anche se fossero catturati, sarebbe breve. Non è tutto: induce i terroristi a pensare che tali richieste verranno soddisfatte e incoraggia proprio il ricatto terroristico che vorrebbe neutralizzare». Il Primo ministro ha cambiato opinione quando si è accorto che la liberazione di Shalit, anche se pagata a un prezzo sproporzionatamente elevato, era ciò che il Paese gli stava chiedendo. Il calcolo non era sbagliato. I sondaggi hanno dimostrato che l'80% degli israeliani, pur essendo consapevoli del rischio, hanno approvato l'operazione. Ma l'analisi di Netanyahu nel libro del 1995 era indubbiamente esatta. Chi cede al ricatto finisce per incoraggiarlo. Questa tesi sembra confermata dall'episodio recente di un principe saudita che offre 900.000 dollari a chiunque catturi un soldati israeliano per scambiarlo con prigionieri palestinesi.
Approfitto di questa risposta per ritornare su una lettera dedicata allo stesso tema e apparsa in questa pagina, qualche giorno fa, con un mio breve commento. Poiché il lettore parlava di «prigionieri politici», altri lettori hanno sostenuto che la definizione era sbagliata, che i detenuti erano criminali e che avrei dovuto ricordarlo nella mia risposta. Credo che un terrorista (basco, irlandese, italiano o palestinese, poco importa) debba essere combattuto con grande energia, ma non possa essere considerato un «criminale». Nel caso dei palestinesi come in quello dei detenuti di Guantanamo, penso che la definizione migliore sia «prigionieri di guerra». È una qualifica che il governo israeliano, scambiandoli con Shalit, ha implicitamente avallato.

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lettere@corriere.it

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