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Il Foglio Rassegna Stampa
26.10.2011 Inverno islamista, l'Occidente non resti a guardare
commento di Paola Peduzzi

Testata: Il Foglio
Data: 26 ottobre 2011
Pagina: 3
Autore: Paola Peduzzi
Titolo: «Sveglia, ci stanno comprando la primavera araba sotto il naso»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi,26/10/2011, a pag. 3, l'articolo di Paola Peduzzi dal titolo " Sveglia, ci stanno comprando la primavera araba sotto il naso ".


Paola Peduzzi, Mustafa Jalil

Arrivano gli islamisti, la primavera araba è perduta, inizia l’inverno opprimente della sharia. La tentazione di unire i puntini e trovare una conclusione – ci siamo liberati dei dittatori per consegnare paesi e popoli al fondamentalismo – è così forte che persino i più ottimisti danno segni di scoramento. Che ne è degli occhiolini con cui i soldati tunisini salutavano i manifestanti, nel gennaio della rivoluzione, segnale potente e indefesso di una vittoria imminente? Che ne è dell’urlo liberatorio con cui, al Cairo, piazza Tahrir celebrò l’annuncio della giunta: Mubarak se n’è andato? Che ne è della determinazione (ambigua, ambiguissima, qualcosa si è spezzato già lì, nella granitica convinzione che il tasso di idealismo della primavera araba fosse destinato a crescere) con cui i ribelli di Bengasi hanno chiesto e ottenuto un intervento umanitario internazionale mentre il colonnello Gheddafi minacciava di andare vicolo per vicolo a stanare e trucidare i traditori? Che ne è della pressione internazionale che per un breve attimo, ormai decine di venerdì di rabbia fa, ha fatto pensare che persino Assad il siriano potesse finire nella lista dei dittatori cacciati dalla piazza? Quell’euforia è svanita: è iniziata la transizione e nella gara degli interessi da far valere si sono imposti gli estremismi, le brutture, le soluzioni temporanee diventate permanenti, i test di verginità, le stragi religiose, gli assalti anti Israele, anti libertà, anti rivoluzione. Gheddafi viene ucciso (da un ragazzo diciottenne, non dovrebbe essere emblematico del nuovo che sovrasta il vecchio, della liberazione ingenua e fortuita ma vera e inarrestabile?) e subito dopo, invece che celebrare la fine del regime, si trovano le fosse comuni create dai ribelli libici, ormai accusati da tutte le organizzazioni umanitarie del mondo – donche paradosso – di crimini di guerra. Hai voglia a essere idealisti, in autunno poi.

La transizione ha bisogno di liquidità

Perché mai il nuovo capo della Libia, nel giorno in cui il rais è buttato dentro a una cella frigorifera di solito adibita ai polli buono solo per le macabre foto ricordo, parla di sharia e poligamia? Il nuovo inizio dovrebbe essere rassicurante: venite qui, dateci i vostri soldi, rifaremo la Libia, pomperemo petrolio come mai prima d’ora, la torta è grande, sedetevi che un posto lo troviamo. Il nuovo inizio dovrebbe essere promettente: abbiamo tanti problemi, la logica tribale è dura a morire, gli islamisti vogliono il potere, ma non temete, troveremo un modo per accordarci – non sarà facile, ma ce la faremo. Invece, nel primo giorno ufficiale della nuova Libia il leader Mustafa Abdel Jalil ha detto che la nuova Costituzione sarà ispirata alla sharia e che “ogni norma che contraddica i principi dell’islam non avrà più valore”. Perché Jalil non pensa ai soldi e insiste sulla sharia? Una spiegazione c’è, ed è che l’occidente si è fatto rubare la primavera araba da azionisti ben più rilevanti, e non soltanto perché sono vicini di casa, ma perché hanno idee chiare, per quanto poco democratiche. La transizione ha bisogno di soldi, di liquidità, subito. Al Cairo scioperano i poliziotti (sì, come ad Atene) e il governo continua ad aumentare i sussidi alla popolazione, pure se le entrate sono in netto calo: è il primo passo per il default. Non ci vogliono grandi esperti di politica estera per capire che chi investe oggi, chi salva la transizione oggi, godrà di un diritto domani. Non è cinismo realista, è che la ricostruzione di un paese dopo decenni di dittatura è un impegno serio, che richiede costanza e attenzione: non devi mai distrarti, non devi mai essere altrove. L’Arabia Saudita e il Qatar l’hanno capito molto meglio di noi. L’ambasciatore saudita al Cairo ha detto che il suo paese ha in programma di investire 500 milioni nel mercato egiziano e altri 500 sono pronti per colmare il deficit pubblico dell’Egitto. Pochi giorni prima il Qatar aveva promesso altri 500 milioni di dollari. Il ministro delle Finanze degli Emirati arabi uniti sta elaborando “un meccanismo” per elargire un pacchetto di 3 miliardi di dollari all’Egitto. In Libia il Qatar (che dopo tante liti con i sauditi è ora allineato con la casa reale di Riad) non ha semplicemente investito: ha fatto un’opa. Prima che Gheddafi cadesse, emissari qatarioti sono andati dai funzionari della Nato a rassicurarli: non vi preoccupate se la guerra dura tanto, li copriamo noi i costi (sottotesto: fate fuori il rais, al resto ci pensiamo noi). Davanti all’ospedale da campo di Bengasi capeggiavano immagini gigantesche dello sceicco del Qatar Hamid bin Khalifa al Thani. In una riunione strategica del Comitato di transizione nazionale libico, nella Tripoli appena liberata, quando si discuteva del futuro delle milizie del regime, irruppe il leader del Consiglio militare di Tripoli, il ribelle Abdul Hakim Belhaji (ex jihadista). Accanto a lui c’era il capo di stato maggiore del Qatar. “Non potete decidere nulla senza di me”, disse Belaji. E’ evidente che questo bailout ha un costo, e poiché i paesi in transizione non hanno promesse economiche credibili da offrire, l’unica merce di scambio restano i valori costituzionali. E’ così che si spiega la fretta di Jalil di parlare di poligamia invece che cercare soldi per la ricostruzione.

Dopo le prime elezioni, le seconde

Poi c’è la Tunisia. La libertà di voto a favore degli islamici. E’ una scena già vista? Sì, a Gaza, in quelle effervescenti elezioni palestinesi in cui vinse Hamas a man bassa, trascinando i Territori in una faida interna – ed esterna, naturalmente – ancora in corso. Allora Israele disse: ve l’avevamo detto, che è un po’ quello che ripete anche oggi: ogni cambiamento, in questa parte del mondo, è per il peggio (è il motivo per cui Gerusalemme, unica democrazia della regione, guarda con rimpianto all’Egitto che fu, quello della dittatura). Il partito tunisino Ennahda, bandito dal regime di Ben Ali, ha giocato bene le sue carte: non vuole rimanere isolato, e ha mostrato il suo volto moderato e propositivo. Lo sanno tutti che al sud i salafiti si sono infiltrati nel partito, e che laggiù (là dove è partita la rivoluzione) l’intolleranza ha già raggiunto una soglia pericolosa. La questione è semplice: non si può volere la democrazia e poi non accettare il risultato della democrazia. Si può però fare in modo che alla democrazia partecipino forze che riconoscano le regole base della comunità internazionale, e che alle prime elezioni ne seguano altre, in cui le forze laiche finora rattrappite possano farsi sentire. L’unica arma dell’occidente indebitato è quella della pressione e del controllo: non possiamo comprare la rivoluzione. Possiamo però non distrarci.

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