Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 25/10/2011, a pag. 58, l'intervista di Susanna Nirenstein a Nir Baram dal titolo "I silenziosi complici del male".
Nir Baram, Brave persone (Ponte alle Grazie, traduzione di Elisa Carandina, in libreria da venerdì prossimo )
Nel cuore di tenebra dell´Europa e del Novecento. È lì che l´israeliano Nir Baram vuol penetrare col suo imponente Brave persone (Ponte alle Grazie, traduzione di Elisa Carandina, in libreria da venerdì prossimo e già acquistato dagli editori di mezzo mondo), è lì, e non per raccontare il disastro dalla parte delle vittime, come è sempre stato nella tradizione della letteratura ebraica degli ultimi 65 anni: in questo romanzo, che si muove dalla Notte dei Cristalli nel ´38 all´invasione tedesca dell´Urss e che ha fatto molto discutere l´intellighentsia d´Israele (con infiniti plausi di Yehoshua e Oz), i due eroi principali fanno scandalosamente parte degli apparati nazista da un lato, e sovietico dall´altro, sono due intellettuali necessari, volenterosi, per quando dubbiosi, che finiscono per affiancare, oliare, potenziare i meccanismi vessatori e criminali dei due regimi.
Si potrebbe dire che c´è il precedente de Le benevole di Jonathan Littell, il discusso autore ebreo americano che di un gerarca hitleriano di stanza nella Parigi occupata ha fatto l´io narrante, ma i casi sono diversi e il messaggio è diverso, per quanto sia interessante notare che i due autori ebrei fanno parte della stessa generazione e sono stati colti da una necessità parallela: mettere da parte le lacrime e indagare l´impensabile.
Il 35enne Nir Baram si fa strada arditamente nella "zona grigia", tra persone affatto conquistate dall´ideologia totalitaria che finiscono per avvicinarsi al male, gli cedono lentamente e inconsapevolmente fino ad esserne sommersi. Ci sono due plot paralleli in Brave persone, due set che finiscono, un po´ troppo fantasiosamente forse, per incontrarsi nel 1941, a un passo dall´invasione della Wermacht: da un lato Thomas Heiselberg, capace e ambizioso pubblicitario berlinese, dirigente di una multinazionale americana presto costretta a lasciare il paese. Rimasto senza lavoro, campione nelle ricerche di mercato, nonostante abbia un certo disgusto per la violenza e l´antisemitismo nazista, a Thomas il salto più logico e promettente sembra offrire le sue competenze al ministero degli Esteri.
Dall´altra parte, a Leningrado, c´è Alexandra (Sasha) Weissberg, aspirante poetessa e figlia di una famiglia di intellettuali russi caduti nel gorgo degli arresti staliniani dei dissidenti: è Sasha stessa, quasi senza capirlo, uno dei motori che porta alla cattura dei genitori e poi di molti altri letterati, ed è lei stessa, in una scelta che sta tra il bisogno di sopravvivere, il desiderio di salvare i fratelli e la voglia di provare le sue capacità, a mettere a disposizione della famigerata Nkdv, la polizia segreta, le sue arti psicologiche e letterarie. Il suo compito? Portare a termine e mettere narrativamente a posto, insieme ai prigionieri, le loro impossibili confessioni, intrecciandosi con minacce e torture e morti, in un viaggio all´inferno senza ritorno.
Perché ha scelto di entrare nella mente di chi ha preso parte alle atrocità del nazismo e del comunismo?
«Penso che la II Guerra Mondiale abbia posto domande filosofiche ancora nell´aria. E in Israele, poi, parte del modo in cui interpretiamo i fatti è radicata in quegli anni. Da adolescente ho iniziato a sentire che la discussione era troppo semplicistica, che l´eterna posizione della vittima mi stava stretta. Volevo capire cosa si era raccontata la "gente normale" di quei regimi, il loro grado di consapevolezza, le aspirazioni, il ruolo. Così, una notte ho inventato Thomas Heiselberg, me lo sono visto camminare per Berlino, mentre progetta il modo di diventare un uomo importante: per farlo doveva collaborare, anche se, come molti borghesi, aveva un certo disprezzo culturale per l´élite nazista. E l´ho scritto. È questa la bellezza della letteratura, la sua abbagliante libertà».
Primo Levi diceva che per capire la Shoah, si deve conoscere, ma non immedesimarsi negli assassini, per evitare ogni condivisione.
«Ammiro Primo Levi, e io non ho scritto un romanzo sullo sterminio, piuttosto un libro su chi collaborò con i nazisti e con chi durante le purghe staliniane continuò a servire il Cremlino mentre i loro fratelli e amici e vicini venivano deportati e uccisi. Gente mediocre. Che non aveva mai visto un lager, ma che permise ai regimi di funzionare. Un´area fondamentale da indagare perché sappiamo che quel meccanismo di collaborazione e negazione funziona ancora in presenza dei genocidi: una minoranza sguazza nel sangue ma la maggioranza vive con le mani apparentemente immacolate, e ingrassa invece la macchina della carneficina. La sfida, per uno scrittore, è non cadere in personaggi perversi, pazzi, caricaturali, ma confrontarsi con la complessità».
Come giudica il libro di Jonathan Littell?
«Interessante. Ho apprezzato la sua vasta ricerca, il respiro. Ma il romanzo riporta al vecchio discorso sul legame tra nazismo, kitsch, violenza e perversione sessuale, senza farci fare passi avanti. Io non ero interessato agli assassini, ma a chi non era ideologicamente coinvolto, a chi voleva e poteva raccontarsi ogni tipo di storia, eppure finiva per affiancare il regime usando il meglio di sé, e ad avanzare grazie a quello. Persone che alla fine erano responsabili di migliaia di morti».
Pensava alla "banalità del male" di Hannah Arendt, alla macchina burocratica dello sterminio, o ai "volenterosi carnefici" di Daniel Goldhagen?
«A nessuna delle due interpretazioni, e del resto per scrivere un romanzo non bisogna abbracciare una teoria. I burocrati incapaci di critica della Arendt non sono i protagonisti di Brave persone. I miei personaggi sono dotati di talento, in grado di fare scelte. È questa la parte conturbante del romanzo».
Perché le chiama "brave persone"?
«È ironico. Sono loro a vedersi così: attraverso una serie continua di giustificazioni, scuse, distoglimenti di sguardi, non vogliono vedere il vero significato delle loro azioni. Al contrario io voglio sottolineare il tema della responsabilità, di qualsiasi società in crisi si parli».
Si è ispirato a personaggi come Albert Speer, l´architetto di Hitler che divenne ministro degli Armamenti dal ´42? Al ruolo degli intellettuali nell´Urss di Stalin?
«Thomas come Speer è un borghese, e non è un razzista. Ma le somiglianze finiscono qui. Thomas è più influenzato dalla cultura americana, è un individualista, cerca di realizzarsi. Da un punto di vista letterario piuttosto mi hanno influenzato L´uomo senza qualità di Musil e Il grande Gatsby di Fitzgerald. Per Aleksandra invece, sì, ho pensato a come le ideologie da sempre reclutino ai loro fini il mondo letterario».
Quanto tempo e fatica le sono stati necessari?
«Ho lavorato 5 anni. Ho letto circa 150 libri sulle due dittature e sulla guerra. Sono stato a lungo a San Pietroburgo, a Berlino, Varsavia, Lublino, Brest-Litovsk, Bielorussia. Ho studiato cartine e mappe e foto. Ma la sfida non è stata la ricerca, quanto la scrittura, la dimensione epica del romanzo europeo novecentesco che ho voluto far mia. Un anno e mezzo dopo averlo finito, ne sono ancora prigioniero. Però sto scrivendo un nuovo romanzo, tutto collocato nel presente».
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