L’amore, d’improvviso Aharon Appelfeld
Traduzione di Elena Loewenthal
Guanda Euro 16,50
Per Aharon Appelfeld, lo scrittore israeliano di famiglia ebraica nato in Bucovina nel 1932 che a soli otto anni dopo la perdita della madre uccisa dai nazisti e la fuga dal campo di concentramento visse nei boschi fino all’arrivo dell’Armata Rossa, il narrare è la missione, il senso della sua vita.
Come Irit Amiel, autrice della straordinaria raccolta di racconti “Fratture” (Keller editore) anche Appelfeld è stato lambito ma non bruciato dalla Shoah, benché in quella tragedia abbia visto scomparire i propri cari perdendo ogni radice. Alla morte della sua famiglia anche il legame con la lingua dei genitori, il tedesco, è stato reciso, ma il successivo apprendimento dell’ebraico non è stato facile. “Volevo – ha dichiarato Appelfeld – che diventasse per me non solo una lingua madre, ma anche un sistema di comunicazione che mi facesse tornare in contatto con i nonni e gli avi, e attraverso il quale assimilare il carattere, il destino ebraico”.
La scrittura diventa “la sua casa” e nel momento in cui inizia a scrivere smette di essere un orfano perché ora ha una casa. “Non potevo immaginare – spiega lo scrittore – che sarebbe stato l’ebraico, e non la lingua di mia madre, a restituirmi ciò che di immenso avevo perduto”.
L’ottantenne autore israeliano ci ha regalato romanzi indimenticabili come “Badenheim 1939”, “Paesaggio con bambina”, “Un’intera vita” nei quali la cifra autobiografica si dispiega attraverso una prosa asciutta e quasi scarna, ora nel personaggio di Tsili, un’adolescente che si trova a vagare nei boschi prima di approdare in Palestina, ora nella figura di Helga, una bambina di dodici anni che si mette alla ricerca della madre ebrea deportata, un viaggio che la porterà a prendere coscienza della sua identità ebraica.
Anche il suo ultimo libro “L’amore, d’improvviso”, racchiude i temi che si declinano in tutta la sua poetica come la difficoltà di trasmettere la memoria, il dolore per una lingua esiliata, la ricerca di un’identità che passa attraverso l’ebraico della Torah.
Ma qui ci propone qualcosa di inedito e essenziale: la storia di un uomo di settant’anni, Ernest Blumenfeld, un profugo ebreo giunto in Israele da Czernowitz e una giovane donna di trent’anni nata dopo la guerra in un campo di smistamento a Francoforte che ha il compito di accudirlo.
Due mondi, due solitudini lacerate dalla Shoah si incontrano: Ernest è ormai un uomo anziano che sta scrivendo un libro con l’intento di riportare in vita il passato e la giovinezza ma anche riavvicinarsi al mondo dei genitori che ha abbandonato in gioventù per aderire all’ideologia comunista, diventando un commissario politico incaricato della questione ebraica. In quegli anni Ernest brucia i negozi dei commercianti ebrei e a terrorizza i rabbini affinché non diffondano la cultura e la sapienza ebraica considerati “veleni”. (“In quegli anni odiavo gli ebrei….l’umanità veniva prima dell’individuo, la rivoluzione prima di tutto”).
Nel racconto Ernest torna con la memoria nei Carpazi, i luoghi della sua infanzia che ha dovuto lasciare e struggenti sono le descrizioni dei genitori, chiusi in un silenzio ermetico (“quel silenzio rivelava una certa nobiltà…non si lamentavano, né accusavano”) e dei nonni pervasi da una religiosità che definisce fin nel profondo la loro identità ebraica (“ La mattina presto nonno apriva la finestra che dava a oriente, si avvolgeva nello scialle e si rivolgeva direttamente a Dio. Pregava sottovoce o gridando. Durante la preghiera, nonna interrompeva i lavori di casa e si sedeva al tavolo, a occhi chiusi. Il Dio grande era ospite fisso a casa loro…”).
Irena è una giovane donna parca di parole ( “quel poco che le usciva di bocca veniva dalla sua interiorità e le sue parole avevano un fascino discreto”) che coltiva con la cura meticolosa della casa un ricordo intenso e amorevole dei genitori che ha accudito con devozione fino alla morte. Irena non ha mai perso di vista il padre e la madre e accendendo le candele per lo shabbat ritorna con il pensiero a quei momenti della sua infanzia pervasi da una quieta serenità ma anche dal silenzio sugli orrori che i genitori sopravvissuti ad Auschwitz le avevano taciuto.
Dalla costante e amorevole dedizione di Irena per Ernest (reduce da una difficile operazione e sofferente per una male incurabile) irrompe un sentimento intenso che si sostanzia in gesti affettuosi, il dolce al formaggio decorato con fragole per il suo settantesimo compleanno o il pendaglio di pietre che Ernest dona a Irena: è un legame che arricchisce entrambi e che consente al primo di trovare l’ispirazione per venire a capo del suo passato restituendogli i ricordi e il senso della vita e alla seconda di ritrovare la gioia e la felicità che la Storia le ha negato.
La riconciliazione con il passato che si svela pagina dopo pagina nella luce e nell’armonia che pervadono le giornate di Ernest e Irena scandite da ritmi quotidiani, consentirà loro di condividere una meritata serenità dopo tanta sofferenza.
Con una prosa concisa, senza orpelli, capace di arrivare al nodo interiore dell’anima e una scrittura di rara espressività, Appelfeld ci regala un romanzo che incanta sul valore della memoria , “quello strabiliante strumento dell’anima che mettendoci in comunicazione con ciò che è vicino e ciò che è lontano ci ripete che quel che è stato non è perduto, sta dentro di noi, possiamo vederlo e comunicare con esso”.
Giorgia Greco