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Il Foglio Rassegna Stampa
19.10.2011 Tunisia: il pericolo dell'islamismo al potere
cronache di Carolina Di Stefano, Andrea De Giorgio

Testata: Il Foglio
Data: 19 ottobre 2011
Pagina: 8
Autore: Carolina Di Stefano - Andrea De Giorgio
Titolo: «Il leader del più grande partito laico di Tunisia ci spiega che cosa ha sbagliato - Chi ha paura di Ennhada ?»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 19/10/2011, a pag. IV, gli articoli di Carolina Di Stefano e Andrea De Giorgio titolati " Il leader del più grande partito laico di Tunisia ci spiega che cosa ha sbagliato " e " Chi ha paura di Ennhada ? ".
Ecco i due articoli:

Carolina Di Stefano - " Il leader del più grande partito laico di Tunisia ci spiega che cosa ha sbagliato "


Ahmed Néjib Chebbi, leader storico del Partito democratico progressista (Pdp)

Tunisi vive in un paradosso: nel paese più convintamente laico del mondo arabo, a dieci mesi da una rivoluzione laica, l’unica certezza delle elezioni del 23 ottobre è che a vincere sarà il partito islamico Ennahda. La paura che la primavera araba, che è iniziata qui, scivoli verso una regressione fondamentalista e teocratica è forte, ma dicono tutti: la Tunisia è diversa. Il motivo per cui Ennahda diventerà la prima forza del paese, oltre che dipendere dalle loro incredibili capacità organizzative e finanziarie, nasce da un errore cruciale delle formazioni democratiche: la frammentazione, decine di liste indipendenti, di partiti, che difendono gli stessi valori laici, ma non riescono ad ammetterlo. Ahmed Néjib Chebbi, leader storico del Partito democratico progressista (Pdp), spiega al Foglio: “Purtroppo tra i centrismi diversi non abbiamo trovato un criterio per avere candidati comuni, e le liste indipendenti non hanno alcun senso. Non hanno alcun passato, alcuna qualità, nessuno che abbia un carisma a rappresentarli”. A questo si aggiunge il fatto che si tratta delle prime elezioni pluraliste della storia tunisina: con più di cento partiti, milleseicento liste e quasi quattordicimila candidati per un’Assemblea costituente che ha 218 seggi, il cinquanta per cento dei tunisini non ha la minima idea di chi votare. “La maggior parte delle persone non conosce i tre o quattro partiti principali, figurarsi decine di nomi di sconosciuti e di non politici – continua Chebbi – ma cosa vuole: non abbiamo pensato a filtrare le candidature, perché prima il potere non lo permetteva. Così siamo arrivati all’eccesso, con il risultato che i media non giocano alcun ruolo nella campagna elettorale, e che noi, primo partito democratico del paese, non conosciamo il peso relativo degli schieramenti”. I programmi elettorali dei laici si differenziano in temi che nelle democrazie consolidate costituiscono l’essenza degli scontri politici, ma che nella Tunisia del dopo Ben Ali sono incomprensibili a molti, e comunque poco importanti rispetto alla nascita di uno stato. Il Pdp è considerato di centrodestra per le tendenze liberiste e l’attaccamento laico alle tradizioni, a favore di “un islam liberale”. Il Polo democratico modernista (Pdm), coalizione che ruota attorno all’ex Partito comunista Ettajdid e che secondo i sondaggi otterrà il 4-7 per cento dei voti, dà la priorità alle riforme sociali e, come afferma Chebbi, “anche se cerca di moderare l’aggressività dei toni, conserva semi di ateismo sovietico antireligioso, che oggi prende le forme di una laicità alla francese”. Anche sulla scelta che i partiti dovranno fare tra forma di governo presidenziale o parlamentare gli intellettuali si rifanno ai dibattiti delle Assemblee costituenti europee, ai principi della Costituzione americana, ai testi di Montesquieu. Il percorso di laicità, di progresso economico e sociale che iniziò con il protettorato francese, che fu accelerato da Bourguiba e confermato (nell’ambito certo di un regime dittatoriale e nepotista) da Ben Ali, in questi mesi non è mai stato messo in discussione dai tunisini della rivoluzione. E per la maggior parte di loro non sarà negoziabile. Bourguiba ha fatto abolire la poligamia nel 1956, primo anno di indipendenza dai francesi. Da allora è stata incoraggiata l’istruzione femminile, in generale la piena emancipazione giuridica delle donne. Il tasso di fecondità è bassissimo, quello di alfabetizzazione il più alto del Maghreb. Il cliché delle donne in minigonna è vero e, nonostante l’opposizione di Ennahda, per queste elezioni è stato sancito con naturalezza il principio della parità in politica tra uomini e donne. Bourguiba, nonostante il sistema monopartitico e presidenzialista che ha imposto per quasi trent’anni, è ricordato come un despota illuminato anche dai ragazzi che si sono opposti a Ben Ali a gennaio. La rivoluzione è iniziata nel dicembre scorso con l’autoimmolazione per protesta di un ragazzo diplomato e disoccupato: Muhamed Bouazizi. Ben Ali è stato cacciato dalla disperazione dei disoccupati, dai professionisti laici impantanati in una burocrazia goffa e corrotta, da ragazzi limitati da un’economia nepotista specializzata in due o tre settori. Anche se è preoccupato, Néjib Chebbi è convinto che tutti i punti a favore di Ennahda sono controbilanciati dai 150 anni di tradizione laica della Tunisia, e che le donne siano il “rempart”, il bastione più importante. “Per riuscire a garantire l’apertura sul mondo voluta e consolidata dal popolo tunisino, e quindi per contrastare Ennahda, serve una coalizione democratica subito dopo le elezioni”. E avverte: “Se mai uno dei partiti democratici dovesse scendere a compromessi con gli islamisti per ruoli ad interim e piccole ambizioni personali, sarebbe qualcosa di ‘petit’, di mediocre, deplorevole”.

Andrea De Giorgio - " Chi ha paura di Ennhada ? "


Rachid Ghannouchi, leader di Ennahda

Per le strade di Tunisi le moto della polizia sono ovunque. Gli agenti in abiti civili, jeans e giubbotti di pelle, portano sempre gli occhiali da sole, per celare i loro sguardi sui passanti. Assomigliano terribilmente agli sgherri dell’ex presidente Ben Ali, quella polizia speciale che faceva della Tunisia un regime, ma non fanno più paura. Perché in mezzo c’è stata la rivoluzione. Anzi, “la madre delle rivoluzioni”, come la chiamano qui, Umm’ al Thawrat. Così, a pochi giorni dalle prime elezioni pluraliste del paese – e delle prime elezioni di un paese scosso dalla primavera araba, un test per tutti – con cui si eleggerà un’Assemblea costituente, le ragazze vestite all’occidentale sfilano spensierate per le vie del centro, fra una vetrina di moda italiana e un chiosco di chawarma, fianco a fianco a coetanee che portano l’hijab. Ma non tutta la capitale è così gioiosa.
Davanti al ministero dell’Interno e in alcune altre piazze del centro le matasse di filo spinato e i mezzi corazzati, armati di tutto punto, ricordano ai tunisini che il tempo della rivoluzione, degli scontri di piazza, della transizione verso la democrazia non è finito. Ci vorrà altro tempo, mormorano nei caffè. Forse più di quanto la gente, soprattutto le classi popolari, non abbia pazienza di aspettare. Non basta indire libere elezioni per risolvere i conflitti interni alla società tunisina. Il vuoto istituzionale e politico lasciato in eredità da ventitré anni di regime clientelare di Ben Ali pesa sul destino di questo piccolo paese maghrebino. Nelle ultime settimane, sui muri di Tunisi sono apparse file di riquadri tracciati con lo spray nero. Sono gli spazi destinati ai manifesti elettorali, diligentemente organizzati in modo che ognuno tra le decine di nuovi partiti e partitelli abbia lo stesso spazio. Prove generali di democrazia? I tanti partiti che coprono tutte le sfumature politiche, colorando i muri della capitale di simboli dalle tinte variopinte, dopo decenni di partito unico, sembrerebbero andare proprio in questa direzione. Socialisti, centristi, repubblicani, modernisti, islamisti, comunisti.
Minimo comun denominatore il richiamo, nel nome o negli slogan, alla democrazia e a un ancora imprecisato sentimento di appartenenza nazionale. Basta farsi un giro nei mercati, dai suq della Medina ai banchi dei venditori abusivi dei quartieri periferici, per rendersi conto che la presenza di un numero sconsiderato di fazioni – solo a Tunisi si presentano più di cento formazioni politiche – non fa altro che alimentare la confusione. La gente colleziona volantini di ogni partito, consegnati con fare ordinario da attivisti e volontari delle varie formazioni, che non degnano il potenziale elettore nemmeno di uno sguardo. Gruppi di uomini di mezza età discutono animosamente seduti ai tavolini dei caffè. Fino a qualche mese fa le discussioni erano monopolizzate da un unico tema: il calcio. Oggi, nella Tunisia liberata, non è più vietato parlare di politica, ma il tenore dei dibattiti da bar sembra rimasto invariato. Nella moltitudine di partiti che si presentano alle elezioni per l’Assemblea costituente, a spiccare per importanza e seguito, sono i movimenti politici che erano già (clandestinamente) attivi durante gli anni del regime. Su tutti brilla la stella di Ennahda (“rinascita”, “risveglio”), il partito di ispirazione islamica che fa paura all’occidente e anche a quegli strati della società tunisina che rivendicano quella neutralità confessionale che ha da sempre fatto della Tunisia un paese sui generis in Maghreb, soprattutto per quanto riguarda il livello di libertà e tolleranza religiosa.
Non sono in pochi ad agitare, in questi giorni, lo spauracchio dello stato islamico, del califfato, della minaccia salafita e del fondamentalismo. Il partito islamista di Ennahda, rappresentato da personalità di spicco dell’opposizione al regime di Ben Ali, spesso cresciute politicamente nelle galere o in esilio all’estero, sa che può essere strumentalizzato, forse in alcuni casi se ne approfitta. Nata nei primi anni Ottanta, con il nome di Mouvement de la tendance islamique, la formazione nel 1989 ha deciso di eliminare ogni riferimento diretto all’islam, a partire dalla ragione sociale: diventa Harakat Ennahda, conservando nel nome la natura movimentista (Harakat sta per “movimento”), ma riprendendo un termine caro alla storia del pensiero politico arabo-islamico (la “Nahdha” è il cosiddetto “Rinascimento arabo”, a cavallo fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento). Ziyad Taoulouki, principale candidato nella circoscrizione di Tunisi 2 (fuori dal centro, composta sia da quartieri popolari sia da zone lussuose come La Marsa e La Goulette) e probabile futuro ministro degli Esteri in caso di vittoria di Ennahda, è un buon esempio della classe dirigente del partito.
Ha cominciato a masticare di politica durante gli studi in farmacia, all’università. La militanza nel movimento islamista gli è costata quattordici anni di regime carcerario duro, la maggior parte dei quali trascorsi in isolamento, in una cella di un metro per tre. Taoulouki conserva ancora i segni delle torture. Fissa il nostro appuntamento in una modesta casa di un solo piano, con tanto di cortile interno e galline che scorrazzano dappertutto, in un quartiere popolare della periferia di Tunisi. A causa di una legge promulgata dalle autorità di transizione qualche settimana fa, a tutti i candidati alle elezioni è espressamente vietato rilasciare interviste ai giornalisti stranieri (si vocifera a più livelli che sia una legge inizialmente pensata contro al Jazeera, che è per forza di cose poi ricaduta su tutti i media internazionali). Ma nei paesi arabi, si sa, una chiacchiera non si nega a nessuno, soprattutto dopo decenni di silenzio forzato. Ziyad Taoulouki si presenta, come la maggior parte dei leader di Ennahda, come un politicante pragmatico dai toni pacati. “L’ultima cosa che sogno per il mio paese è vedere tornare le forche e la repressione che c’erano durante gli anni del regime di Ben Ali.
Allora, nelle carceri c’erano tra i trenta e i quarantamila prigionieri politici. L’islam che noi rappresentiamo è quello in cui crede la maggior parte della popolazione tunisina. E’ la religione della tolleranza e del dialogo. Nulla a che vedere con estremismo, fondamentalismo e terrorismo”. Il registro dei candidati, dei quadri del partito, dei militanti e del programma (sia nella versione in lingua araba sia in quella in francese) è sempre lo stesso. Un segnale che dimostra come Ennahda sia il partito maggiormente (se non l’unico) strutturato e organizzato politicamente nella Tunisia odierna. Sembra che tutti i suoi membri leggano da un copione. Ci sono pochi dubbi riguardo alla loro vittoria: secondo le ultime previsioni il consenso si aggira attorno al 30 per cento dei voti, molto più di tutti gli altri partiti, ma comunque non sufficiente per governare in solitudine.
Anche loro hanno alcune preoccupazioni: bisogna fare attenzione al pericolo dell’isolamento internazionale, per esempio: “I governi occidentali, l’America e l’Europa riconosceranno la nostra vittoria?”, chiede Taoulouki prima di cominciare la preghiera (deve essere aiutato a fare le genuflessioni rituali, per problemi fisici causati dalle torture). Per la maggior parte del tempo però i leader di Ennahda ostentano sicurezza di vincere. L’unico interrogativo in seno ai rappresentanti del partito, così come alla gente comune, è se stravinceranno oppure no. “Anche se dovessimo superare la soglia del 30 per cento, inshallah, è nostra intenzione formare una grande coalizione, un governo di unità nazionale lasciando aperta la porta a chiunque voglia farne parte”. I messaggi di apertura si sprecano. Anche perché Hizb al Tahrir, il principale partito salafita (gli altri movimenti fondamentalisti ritengono che costituire un partito sia haraam, “peccato”), non ha ottenuto il permesso di partecipare alle elezioni da parte del governo di transizione, restando a tutti gli effetti un partito illegale. Ma è proprio per questo che da più parti, all’interno del paese come all’estero, molti temono che la base di Ennahda si sia aperta alle frange più fondamentaliste, lasciando che i salafiti infiltrassero l’unico partito islamico che può vincere le elezioni.
Già, la base. Un problema vecchio come la politica. Lo sanno bene alla sede centrale del partito, un palazzone tutto vetrate che si trova nel cuore di Montplasir, il quartiere finanziario di Tunisi. Ennahda è il principale partito islamista e il sentimento di appartenenza identitaria alla religione coranica è un fenomeno in forte espansione nella Tunisia post rivoluzionaria. Soprattutto all’interno del paese e al sud, così come nei quartieri popolari della capitale (zone in cui la situazione economica è assai peggiorata dai tempi del regime di Ben Ali e in cui fa più presa la vocazione sociale del movimento), sono in molti a vedere Ennahda come l’unico partito che possa rappresentare l’istanza di una Tunisia islamica e non più laica. Dall’altra parte della barricata ci sono le classi medio-alte della borghesia di Tunisi, che sono scese in piazza il 16 ottobre per protestare pacificamente contro un’imponente manifestazione di Hizb al Tahrir del venerdì precedente (finita davanti alla sede del ministero della Cultura con scontri fra frange violente e forze di polizia). La borghesia rivendica la laicità e la storica neutralità religiosa dello stato tunisino, chiedendo riforme democratiche e rispetto dei diritti civili.
Ziyad Taoulouki e Souad Abd al Rahim (capolista di Tunisi 2 e unica donna non velata che si candida con Ennahda) negli ultimi giorni hanno partecipato assieme ad altri candidati del partito a comizi elettorali organizzati in tutti i quartieri della capitale. Il barometro più affidabile rispetto alle spinte della base è stato l’incontro nella sala delle feste della moschea di Omran, quartiere popolare periferico, al quale hanno partecipato circa cinquecento persone (attirate dalla proposta politica, ma anche dalla distribuzione gratuita di casse d’acqua da parte dei militanti del partito). C’erano tante famiglie venute dai casermoni circostanti. Tante donne velate, molte senza il velo. Ad aizzare maggiormente la folla, più che le promesse in materia economica e sociale, è il richiamo diretto alla religione. Ci sono stati anche alcuni episodi di intolleranza da parte degli islamici, come non se ne vedevano da molto tempo. Dopo decenni di repressione del sentimento religioso, nella base tunisina sta tornando a soffiare forte il vento dell’islam.

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