Sul CORRIERE della SERA di oggi, 17/10/2011, a pag.40/41, Guido Olimpio e Pierluigi Battista, commentano i rapporti Usa-Iran e le stragi dei ribelli libici.
Ecco gli articoli:
Guido Olimpio: " Obama preme per colpire Teheran, ma lo spettro dell'Iraq fa paura "

Gli Stati Uniti, dopo aver cercato per tre anni un approccio diverso con l'Iran, sono tornati alla casella iniziale. E dunque l'obiettivo torna a essere quello di sempre: isolare Teheran. La missione non è facile. Fino a oggi le misure adottate hanno prodotto ben poco. Barack Obama, allora, ha deciso di rilanciare usando due carte. La prima è quella del terrorismo. La scoperta di un presunto piano iraniano per uccidere l'ambasciatore saudita negli Usa ha fornito alla Casa Bianca nuovi elementi. Il complotto dei pasdaran — secondo l'amministrazione — merita una risposta corale. La diplomazia ha preso nota, riconosce la pericolosità di certe azioni ma chiede maggiori prove. La seconda carta è quella del nucleare. Washington sta esercitando pressione sull'Aiea, l'agenzia atomica internazionale, perché diffonda elementi fin qui segreti sui progetti atomici di Teheran.
Con i mano questi due assi gli Stati Uniti sono convinti di chiudere gli ayatollah nell'angolo. Si pensa di colpire la banca centrale iraniana, le transazioni, figure importanti del regime. Non sono pochi, però, gli scettici. Potenze come la Russia e la Cina, che riforniscono di armi Teheran e hanno un buon rapporto con l'Iran, possono sempre usare il diritto di veto al Consiglio di sicurezza. Sono cauti anche quei Paesi amici di Washington — in Europa e in Asia — che in questi anni hanno sviluppato legami economici estesi con i mullah. Li sacrificheranno in questi tempi di vacche magre? Difficile, a meno che non ritengano che esistano fatti incriminanti per l'Iran. Dati verificati e diffusi non da una sola fonte. Ecco perché Washington ha bisogno del certificato dell'Aiea. L'Agenzia riconosce che alcuni aspetti delle ricerche atomiche iraniane sono preoccupanti, tuttavia chiede più tempo per indagare nella riservatezza. Né vuole apparire come uno strumento nelle mani di Obama. Il disastro dell'Iraq e delle armi proibite che non c'erano bruciano ancora sulla pelle della diplomazia.
Pierluigi Battista: " Le vendette inaccettabili della nuova Libia "

Con la scusa della vendetta sui «mercenari» di Gheddafi, ha raccontato Lorenzo Cremonesi sul Corriere in una sua corrispondenza da Tawargha, in Libia si sta consumando un'orrenda caccia al «negro». Una vendetta atroce, cruenta. Meglio: un pogrom razzista, una ripugnante pulizia etnica. Una vergogna. Che dovrebbe denunciare per primo proprio chi ha condiviso l'intervento internazionale in Libia per cacciare un tiranno come Gheddafi. Il silenzio omertoso è l'alleato dei dittatori, non di chi si batte, anche con le armi, per la tutela dei diritti umani e per la democrazia.
Troppe notizie raccapriccianti stanno per esempio smorzando gli entusiasmi sulla «primavera araba». Il massacro dei copti in Egitto, il furore islamista, la repressione dei blogger indipendenti di Piazza Tahrir, i test di verginità per le donne, gli assalti all'ambasciata di Israele conditi con gli slogan contro gli «ebrei». E anche dalla Libia in mano ai «ribelli»: le esecuzioni sommarie dei «lealisti», le stragi di detenuti, la sinagoga appena riaperta e subito sprangata, gli ululati contro il «sionista» Gheddafi: «sionista» uno dei più feroci nemici degli ebrei, in passato uno dei pilastri, con il suo Stato-canaglia, del terrorismo antisraeliano. Ora nelle democrazie che hanno sostenuto i raid su Tripoli prevale la prudenza, il silenzio, lo stupore. Ma fino a quando?
La denuncia della «caccia al negro» nella nuova Libia deve nascere da chi ha a cuore la sorte dei diritti e della democrazia, anche a costo di regalare un argomento a chi, in Italia e in Occidente, ha difeso fino all'ultimo le ragioni di un pagliaccio sanguinario come Gheddafi, un imbarazzante socio d'affari per puntellare il quale, i suoi clienti e i suoi famigli, si sono nel frattempo dimenticati tutti i proclami magniloquenti sull'«esportazione della democrazia» tramite bombardamenti e trattamenti all'Abu Ghraib in Iraq. E gli alleati della nuova Libia non possono tollerare senza una parola le stragi dei nuovi vincitori, le rappresaglie tribali indiscriminate, il «sangue dei vinti» versato senza pietà, tra le folle acclamanti. Non devono ripetere gli errori del passato. Non possono più cavarsela con la nota massima americana che giustificava i peggiori gorilla sudamericani: «sono figli di puttana, ma sono i nostri figli di puttana». Non devono minimizzare, giustificare, nascondere. Anche a costo di ammettere l'ennesima sconfitta. Anche a costo di confermare la collaudata lezione della storia che racconta come gli esiti della rivoluzione siano spesso peggiori del regime che quella rivoluzione aveva abbattuto. Non per compiacere i nostalgici di Gheddafi, giacché erano loro a nascondere e minimizzare le gesta feroci di quel despota grottesco. Ma per il rispetto di una promessa, per coerenza con le parole pronunciate mentre si alzavano in volo gli aerei Nato a difesa dei ribelli libici. Tutto, ma la caccia al «negro» è davvero insopportabile.
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