lunedi` 21 aprile 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



Clicca qui






Corriere della Sera Rassegna Stampa
16.10.2011 Daniel Libeskind, a Dresda il suo nuovo Museo
L'articolo di Paolo Lepri

Testata: Corriere della Sera
Data: 16 ottobre 2011
Pagina: 36
Autore: Paolo Lepri
Titolo: «Nel museo della guerra dove si insegna la pace»

Daniel Libeskind è l'architetto che ha progettato il Museo Ebraico di Berlino, è suo il progetto del centro che sorgerà a New York a Ground Zero al posto del World Trade Center. E' bene che la Germania impari la cultura della pace, i musei hanno anche questa funzione. Ma Libeskind, a differenza di molti, infonde negli edifici che progetta un senso di educazione alla libertà che lo rende - purtroppo - quasi unico nel mondo degli architetti, attenti unicamente alla grandiosità del manufatto. Non così Libeskind, di questo gliene va dato merito.
Ecco l'articolo:

 il museo a Dresda,  Daniel Libeskind

«Ho trascorso l'infanzia e la giovinezza in una zona che si estende lungo il margine settentrionale delle Alpi, zona largamente risparmiata dalle immediate conseguenze delle cosiddette operazioni militari. Alla fine della guerra avevo appena un anno ed è quindi difficile che, di quell'epoca segnata dalla distruzione, io possa avere serbato impressioni fondate su eventi reali. Eppure ancor oggi, quando guardo fotografie o documentari del periodo bellico, ho come la sensazione di esserne il figlio, come se di là, da quegli orrori che non ho vissuto, cadesse su di me un'ombra alla quale non potrò mai sfuggire del tutto». A scrivere queste parole è stato uno dei grandi della letteratura tedesca, W.G. Sebald, strappato dieci anni fa ad altri capolavori da un incidente stradale nei dintorni di Norwich, in Inghilterra, dove insegnava letteratura. Ancora Sebald racconta, in Storia naturale della distruzione, «il senso di inquietudine» da cui era sopraffatto giocando da bambino tra gli edifici danneggiati. «Avevo sempre paura – aggiunge – di inciampare nella carogna di un animale o nel cadavere di un uomo».

L'ombra da cui non si può sfuggire, la colpa. Sentimenti personali, ma anche segnali di uno stato d'animo collettivo. Punti di partenza da cui non poteva non prendere spunto la riflessione che ha portato alla nascita del Museo di Storia Militare di Dresda, da ieri aperto al pubblico: un cuneo di vetro, cemento e acciaio, realizzato da uno dei «grandi» dell'architettura moderna, Daniel Libeskind, che si inserisce come un coltello geometrico a più dimensioni, o come un colpo di karate, negli edifici neoclassici ai margini della città che furono prima l'arsenale dell'armata sassone, e passarono poi nelle mani della Wehrmacht e dell'«Esercito del popolo» della Ddr. Non solo un museo militare contro la guerra, cosa straordinaria ma in fondo quasi ovvia alla luce delle tragedie tedesche. Soprattutto un «luogo di opinione», come dice il curatore Gorch Pieken, un itinerario espositivo che vuole fare riflettere (accanto a un percorso cronologico senza censure e senza indulgenze dedicato alla storia militare tedesca) sul valore della pace e sulle nuove sfide del mondo che cambia: la lotta contro la povertà e la fame, l'impegno per la difesa dell'ambiente, la proiezione internazionale di Paesi che, come la Germania, hanno scelto la strada delle missioni militari internazionali per contribuire alla soluzione dei conflitti o per sconfiggere la minaccia del terrorismo. Non è un caso che tra gli oggetti esposti in una delle ultime sezioni del museo ci sia la giacca imbrattata di vernice rossa dell'allora ministro degli esteri Joschka Fischer, leader dei Verdi contestato duramente nel 1999 da estremisti di sinistra contrari all'intervento militare in Kosovo.

Per fare questo la Bundeswehr ha speso 62,5 milioni di euro e i lavori sul progetto di Libeskind, figlio di ebrei polacchi scampati all'Olocausto e già autore di uno dei simboli della nuova Germania, il museo ebraico di Berlino, sono durati oltre sette anni. Il gigantesco cuneo pensato dall'architetto americano (che è diviso in cinque piani e si inserisce in maniera imprevedibile nell'edificio preesistente, quasi disorientando il visitatore e costringendolo a lasciarsi catturare dalla forza esplicita delle cose) ospita i precorsi tematici che dialogano con quello cronologico. Alcuni spazi sono assediati da missili, elicotteri, automezzi militari sospesi in verticale quasi come una minaccia. Al viaggio nell'immaginario bellico si affiancano i simboli dell'influenza invincibile della guerra sulla vita di tutti i giorni: il linguaggio, il gioco, la moda. Ed è in questo contesto che si inseriscono gli oggetti di una memoria che non deve imparare a dimenticare: il puzzle di legno che compone il nome di Hitler, il teschio del soldato che si è ucciso con un colpo in gola durante il secondo conflitto mondiale, la lettera della madre di un soldato rispedita al mittente con il timbro «caduto della Grande Germania», la poesia di una bambina morta nelle camere a gas di Auschwitz. I testi esplicativi non sono mai neutri, lo sforzo di chiarezza è efficace. Questo accade anche nella sezione del museo dedicata all'«altro esercito» e all'«altra Germania», con il suo terrificante apparato repressivo, la cancellazione totale delle libertà individuali, la aggressiva retorica politica anticapitalista e internazionalista.

Nell'ultimo piano della struttura di Libeskind il vento entra liberamente nelle fessure della gabbia di acciaio e si domina con la vista, quasi all'aperto, la città simbolo della distruzione tedesca, colpita nel 1945 dal terribile bombardamento che fece almeno 25 mila vittime. Anche se lo stesso architetto ha voluto che il vertice del suo cuneo guardasse in direzione della zona di cielo da dove arrivavano i caccia alleati in quei giorni di febbraio, niente nell'allestimento di questa sala indica un tentativo di revisione storica sulle responsabilità tedesche. Dresda come Wielun, Dresda come Rotterdam. In questa ultima parte del museo viene dedicato infatti uno spazio analogo a quanto accadde nel 1939 nel primo villaggio polacco bombardato dalla Luftwaffe (non c'erano obiettivi militari, 1.300 civili uccisi, tre quarti dell'abitato raso al suolo) e alla decisione di Hitler di fare sganciare sul porto olandese, nel maggio 1940, 97 tonnellate di bombe che causarono la morte di centinaia di persone in pochi minuti.

La memoria non va cancellata, ma quegli anni sembrano ormai lontani. La Dresda che oggi si ammira dall'alto del cuneo di Libeskind è uno dei punti di forza di questa Germania che dimostra la capacità di riflettere in maniera costruttiva su un passato tragico e il coraggio di riuscirlo a spiegare. Alla rinascita definitiva della città può contribuire anche questo museo, un museo militare che insegna la pace. Ma chi ama la pace (e pace vuol dire anche l'affermazione delle libertà), può allontanarsi qualche chilometro, sulla riva nord dell'Elba, prendere la funicolare e perdersi nelle strade del quartiere di ville eclettiche e novecentesche che fa da sfondo a La Torre, il romanzo di Uwe Tellkamp ambientato nel lento crepuscolo della Ddr. Quelle pagine, tra le tante altre cose, raccontano più delle follie del militarismo di qualsiasi museo. Solo la letteratura ha questa capacità evocativa. «Cari genitori — scrive Christian Hoffmann, uno dei protagonisti di questo splendido libro, costretto a fare il servizio militare "volontario" per poter trovare un posto all'università — sono 1.000 giorni ma i primi sono già passati. Ci siamo seduti sulle nostre valigie e sulle borse in modo che non si bagnassero sotto la pioggerella fine. Il sottufficiale che ci accompagnava ci ha proibito di metterci al riparo. Io sono partito con l'ultimo gruppo, era già buio e tacevamo (non si dovrebbe mai perdere l'occasione di tacere, ha detto il sottufficiale con un sorriso consapevole)». Molti di quei giovani, qualche tempo dopo, a Dresda non hanno taciuto.

Per inviare al Corriere della Sera la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante.


lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT