Testata: Il Foglio Data: 14 ottobre 2011 Pagina: 4 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Perché Lieberman è il 'signor no' della politica di Israele»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 14/10/2011, a pag. 4, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Perché Lieberman è il 'signor no' della politica di Israele".
Giulio Meotti
Roma. Assieme al vice primo ministro Moshe Ya’alon (Likud), il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman è stato l’unico del gabinetto israeliano a votare contro il rilascio di Gilad Shalit. A chi gli parlava della necessità di liberare mille terroristi, Lieberman rispondeva che andrebbero portati nel Mar Morto con degli autobus e lì affogati. E’ il meno diplomatico dei ministri degli Esteri che lo stato ebraico abbia mai avuto (specie se paragonato ad Abba Eban). Ma oggi Lieberman è anche l’arbitro del destino politico israeliano. E’ parte in causa dello scontro fra Turchia e Israele, ha definito il leader palestinese Abu Mazen “un cadavere” e quando lo scorso aprile alla radio parlava di Hamas ha lasciato udire agli ascoltatori esterrefatti lo scroscio sonoro d’uno sciacquone. Il suo Israel Beitenu, letteralmente Israele casa nostra, oggi è il terzo partito. Il suo portavoce, Mark Kofliasky, ha detto che Lieberman dà voce “all’Israele che non si piega, quando uno è cresciuto nello stalinismo sa come avere a che fare col mondo”. Da ministro degli Esteri Lieberman ha detto che se Wikileaks dovesse rivelare le sue telefonate non ci sarebbe nulla di più di quanto non abbia già detto in pubblico. Hamas? “Dobbiamo fare quel che ha fatto Putin in Cecenia”. L’Iran? “Come la Germania nazista”. Il processo di pace? “Parole senza senso”. L’Egitto? “Stia buono o bombardiamo la diga di Assuan e lo inondiamo”. Figlio di un veterano dell’Armata rossa catturato dai tedeschi e come molti altri ex prigionieri finito per qualche anno nei gulag staliniani, Lieberman ha subito cominciato a litigare col regime comunista, finché è arrivato in Israele nel 1978. La leggenda narra che in gioventù abbia fatto il gorilla in una discoteca di Kishinev, nella natia Moldavia sovietica. Non è vero, visto che all’epoca in quella disastrata provincia dell’impero di Brezhnev di discoteche non c’era neppure l’ombra. Ma un po’ gorilla Lieberman sembra: il suo ebraico tinto di russo lo rende abbastanza rude, ha freddi occhi azzurri, spalle larghe e un sorriso che assomiglia a un ghigno. Il programma satirico Erez Neederet lo ritrae come un soldato russo in colbacco, stivali e pistola in mano. Ma analisti israeliani dicono che Ivette, al contrario del suo aspetto, sia una persona gentile ed educata (cambiò nome in Avigdor all’arrivo in Israele). Non si conosce dichiarazione razzista di Lieberman. Ma il suo piano di scambi territoriali in cui le parti abitate da arabi vadano ai palestinesi e quelle abitate dagli ebrei a Israele gli ha attirato l’accusa di “pulizia etnica”. Lui ripete che la pace si dà in cambio di altra pace e non in cambio di terra perché è immorale. Dalla sua ha ex dissidenti sovietici come Yosef Mendelevitch, che Ronald Reagan portò nello studio ovale alla Casa Bianca. Ha partorito lo slogan di cinque parole da tutti considerato come il più difficile ma anche efficace: “Senza fedeltà non c’è cittadinanza”. Per dire che i cittadini arabi devono essere fedeli allo stato degli ebrei. Per lui Israele dovrebbe esser parte dell’Unione europea e della Nato. Ha un programma sociale ampio nel campo della salute, che deve essere garantita a tutti. Abita nella colonia di Nokdim, con la moglie e i tre figli che lo aspettano nel cuore della Giudea ogni notte. Ma ha detto che la lascerebbe subito ai palestinesi se aiutasse la pace. La sua carriera è la più fulminante nella recente storia israeliana, da immigrato ventenne senza un soldo in tasca a grand commis nei governi di Netanyahu, Sharon e Olmert. Raccoglie la maggioranza dei voti nei licei. Per la sua posizione laica si è beccato gli strali del potente rabbino Ovadia Yosef: “Chi vota per lui rafforza Satana”. Domani il satanasso russo potrebbe sbancare di nuovo alle elezioni, specie dopo il voto su Shalit. Lui ama definirsi, semplicemente, “un pragmatico”.
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