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La Stampa Rassegna Stampa
14.10.2011 Usa: nessuna opzione esclusa contro l'Iran
Cronache di Maurizio Molinari, Paolo Mastrolilli. Commento di Vittorio Emanuele Parsi

Testata: La Stampa
Data: 14 ottobre 2011
Pagina: 17
Autore: Maurizio Molinari - Paolo Mastrolilli - Vittorio Emanuele Parsi
Titolo: «Obama: Teheran dietro il complotto - Sono in guerra con noi gli Usa non siano deboli - L'Iran, gli Usa e la trappola della provocazione perfetta»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 14/10/2011,a pag. 17, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Obama: Teheran dietro il complotto ", l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Sono in guerra con noi gli Usa non siano deboli ", a pag. 45, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " L'Iran, gli Usa e la trappola della provocazione perfetta ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

Maurizio Molinari - " Obama: Teheran dietro il complotto "


Maurizio Molinari, Mansour Arbabsiar

«Il governo iraniano è direttamente coinvolto nel complotto per uccidere l’ambasciatore saudita e pagherà un prezzo per questo»: il presidente americano Barack Obama interviene per la prima volta sull’arresto di Mansour Arbabsiar, puntando l’indice verso Teheran in maniera così netta da lasciar intendere l’intenzione di adottare ritorsioni contro la Repubblica Islamica.

La cornice è la conferenza stampa alla Casa Bianca con il presidente sudcoreano Lee Myung-bak. Quando i reporter gli chiedono di pronunciarsi sull’accusa all’iraniano-americano Arbabsiar di aver complottato con Gholam Shakuri, membro della Forza Al Quds delle Guardie della Rivoluzione iraniana, per assassinare l’ambasciatore saudita Abel al-Jubeir, Obama risponde denunciando Teheran: «L’individuo di origine iraniana-americana implicato nel complotto aveva rapporti diretti, era pagato ed era diretto da individui del governo iraniano».

Obama sottolinea poi che «tutte le accuse formulate si basano su prove che stiamo condividendo con gli alleati e la comunità internazionale». «Anche se ai livelli più alti non c’era una conoscenza dettagliata del complotto aggiunge -, dovranno rispondere di chi dentro il governo iraniano svolge tali attività». E’ un episodio che rientra nei precedenti di «un comportamento pericoloso e spericolato» da parte di Teheran e «il nostro primo passo è di perseguire gli individui di cui si parla nell’atto di incriminazione emesso dal ministero della Giustizia», spiega il presidente, lasciando intendere che Arbabsiar sarà processato, mentre il latitante Shakuri è nella lista dei «Most Wanted» per atti di terrorismo.

Poi c’è il binario delle azioni nei confronti di Teheran, perché «il ruolo dell’Iran in questo complotto non è in dubbio», sottolinea Obama, ribattendo ai dinieghi che arrivano dalla Repubblica Islamica che «è stata una straordinaria operazione di intelligence» ad appurarlo. In questo caso il riferimento è al trasferimento, rivelato dal New York Times, di 100 mila dollari da Teheran a Arbabsiar per realizzare l’attentato che, secondo quanto affermano fonti del governo Usa, puntava a far ricadere la responsabilità su Al Qaeda.

Per Obama si tratta di una «pericolosa escalation» da parte di Teheran, «che dovrà pagare un prezzo per tutto questo». Sulle possibili iniziative in arrivo Obama afferma che «non escludiamo alcuna opzione» per mandare ad Ali Khamenei e Mahmud Ahmadinejad un messaggio teso a far capire che l’America è intenzionata a esercitare la massima pressione «fino a quando Teheran non farà scelte migliori sui rapporti con il resto del mondo».

«L’Iran ha una storia di gravi violazioni delle norme internazionali» e in questa occasione se n’è aggiunta un’altra, che Obama descrive come «diretta non solo contro gli Stati Uniti, ma contro la vita dell’ambasciatore dell’Arabia Saudita». Si tratta di una lampante violazione delle norme che regolano le relazioni fra Stati, perché «uno dei principi della convivenza internazionale è che i diplomatici vengono protetti e non diventano obiettivo di minacce e violenze».

E’ su tale base che gli Stati Uniti stanno consultando alleati e partner per creare le premesse di un’azione collettiva tesa a varare «sanzioni più dure per isolarlo». Gran Bretagna e Sud Corea sono state fra le prime nazioni a dirsi solidali. Anche l’Italia è stata consultata e un comunicato di Palazzo Chigi indica convergenza con Washington sulla direzione di marcia.

A far trapelare un possibile scenario è il governo saudita, quando fa sapere che potrebbe ritirare l’ambasciatore da Teheran in segno di protesta, dando inizio a decisioni analoghe da parte di numerose altre nazioni, per sancire l’isolamento diplomatico degli ayatollah. Fonti Onu ipotizzano infatti la condanna dell’Iran per violazione delle convenzioni sulla protezione dei diplomatici. A conferma che la scelta di mettere alle strette Teheran è strategica, Obama affianca la condanna del complotto antisaudita all’approccio alla «Primavera araba»: «Reprimono le manifestazioni interne e sostengono il regime siriano che uccide i suoi cittadini».

Paolo Mastrolilli - " Sono in guerra con noi gli Usa non siano deboli "


Barack Obama

La comunità degli esperti di affari internazionali sembra avere più domande che risposte, sul complotto iraniano per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington. Almeno due punti di consenso però emergono, tra gli analisti di area repubblicana e democratica: se l’amministrazione ha deciso di giocare questa carta in maniera così netta, deve avere in mano gli elementi per farlo; e di fronte ad un simile complotto, anche se fosse stato solo il progetto di schegge impazzite, non si può dare un’impressione di debolezza.

Thomas Donnelly dell’American Enterprise Institute boccia subito le teorie cospirative del governo iraniano, secondo cui gli americani avrebbero costruito il complotto a tavolino per distrarre l’attenzione dai loro problemi economici: «I problemi ci sono, e restano anche adesso. Ma l’amministrazione sta prendendo posizione ai massimi livelli e, dopo le polemiche sulle armi di distruzione di massa mai trovate in Iraq, non credo che lo avrebbe fatto senza prove forti. Inoltre il tempo che ha avuto a disposizione prima di fare l’annuncio, cioè da maggio ad oggi, conferma che è stata molto prudente». Secondo Elliot Abrams, vice Consigliere per la sicurezza nazionale di Bush ora al Council on Foreign Relations, «il complotto dimostra che gli iraniani non ci temono. Quindi diventa fondamentale la fermezza della nostra risposta». Un vecchio neocon come Michael Ledeen, da sempre impegnato in una battaglia contro la Repubblica islamica, dice che «non c’è nulla di cui sorprendersi: queste sono le cose che fa l’Iran. Teheran è in guerra con noi dal 1979, ma finora nessuno ha avuto il coraggio di rispondere nella maniera appropriata, che sarebbe favorire un rivoluzione democratica nel Paese».

Una fonte che conosce molto bene l’Iran, ma chiede di restare anonima, resta stupita dal dilettantismo del presunto complotto, e quindi si chiede: lo hanno organizzato così male proprio perché volevano che fosse scoperto? Su questa linea ragiona anche Daniel Serwer della Johns Hopkins University: «Nella storia americana c’è una lunga sequenza di incidenti creati apposta per trascinarci in guerra. La risposta dell’amministrazione, però, non mi sembra andare in questa direzione. Un raid contro le basi di Quds, la forza d’élite coinvolta nel complotto, è sempre possibile, ma da quello che sento il Pentagono dice che questa non è una crisi militare. Dunque l’amministrazione sta sfruttando l’occasione per rafforzare le sanzioni, o almeno la loro applicazione: non è possibile che centomila dollari possano viaggiare dall’Iran agli Stati Uniti per finanziare una simile operazione, passando attraverso le banche di Paesi terzi».

Edward Luttwak collega tanto il complotto, quanto la reazione americana, alla situazione interna iraniana: «Ormai c’è quasi una guerra civile in corso tra Ahmadinejad, che nonostante il modo in cui si presenta all’Occidente sta diventando più dialogante, e la guida spirituale Khamenei, a cui fa capo Quds, che è come il braccio operativo della Cia. Ogni volta che in Iran qualcuno ha immaginato il dialogo con gli Stati Uniti, qualche altro è sempre intervenuto per boicottarlo. Lo scopo di questo complotto era proprio creare l’incidente capace di bloccare qualsiasi intesa. L’amministrazione Obama lo sa e quindi si comporta di conseguenza: da una parte prende una posizione dura, direi bushiana, per non essere accusata di debolezza; dall’altra fa molta attenzione ad accusare “elementi” del governo iraniano, non l’intero esecutivo, per essere precisa e non farsi strumentalizzare nei giochi interni alla Repubblica islamica». Anche Lawrence Korb, ex vice segretario alla Difesa che oggi lavora per la think tank democratica Center for American Progress, legge il complotto come «la prova che l’Iran è nel caos», proprio perché così balordo. «Nessuno - continua - controlla il Paese in maniera assoluta, e quindi le rivalità producono azioni del genere. L’amministrazione si trova davanti ad una strada obbligata: rispondere con forza, senza farsi attirare nella trappola di chi vuole usarla nelle faide interne».

Vittorio Emanuele Parsi - " L'Iran, gli Usa e la trappola della provocazione perfetta "


Vittorio Emanuele Parsi

Vittorio Emanuele Parsi arriva alla Stampa da Avvenire dove per anni si è occupato di politica estera.
Nel suo pezzo si legge "
alzare i toni della polemica con Tel Aviv...". Dato che ora anche Avvenire scrive 'governo di Gerusalemme', Parsi perda questa cattiva abitudine, tanto più che non c'è nessun governo a Tel Aviv, così come lui scrive per La Stampa, che è il quotidiano di Torino, non di Rivoli.
Ecco l'articolo:

Eliminare l’ambasciatore saudita a Washington senza essere presi con le mani nel sacco era un’ipotesi talmente irrealistica che nessuno a Teheran può averla presa seriamente in considerazione. Egualmente impossibile era ritenere che i mandanti non sarebbero stati identificati. Il solo dubbio che poteva sussistere era semmai se la scoperta del complotto e dei suoi mandanti sarebbe avvenuta prima o dopo la realizzazione dell’attentato. Allora per quale motivo Teheran avrebbe scelto una simile strategia apparentemente «suicida»? Credo che la risposta vada proprio cercata a partire da quest’ultimo aggettivo: suicida, perché solo facendo ricorso alla razionalità che guida gli attentatori suicidi è possibile comprendere la logica tutt’altro che irrazionale che ha guidato le mosse di Teheran. L’obiettivo non era quello di colpire senza essere scoperti o identificati; l’obiettivo era quello di riconquistare il centro della scena mediorientale, stanare le eventuali contraddizioni degli Stati Uniti, mutare un quadro strategico che da oltre un anno è sostanzialmente sfavorevole agli interessi iraniani, nonostante il successo (ormai lontano e non produttivo di conseguenze) ottenuto con l’avvento di un governo controllato da Hezbollah a Beirut.

Tutti gli eventi dell’ultimo anno che per comodità abbiamo raccolto sotto la definizione di «primavera araba» rappresentano per l’Iran un pessimo affare, a prescindere da quelli che potranno essere gli esiti di quell’autunno che sembra profilarsi all’orizzonte nel Maghreb. Se, come ancora è possibile ma sempre più improbabile, la domanda di libertà, uguaglianza, dignità e futuro posta in essere dalle folle arabe (in particolare dai giovani) non verrà tradita o dirottata dai nuovi governanti, nel Maghreb potrebbero affermarsi dei regimi «repubblicani», ovvero un pericoloso modello capace di rigalvanizzare i giovani, le donne, gli intellettuali che nelle scorse elezioni avrebbero già cacciato dal potere Ahmadinejad e i suoi, se non fossero stati derubati grazie ai brogli elettorali e zittiti a suon di omicidi ed esecuzioni. Se, viceversa, a Tunisi, Tripoli o Il Cairo dovessero prendere il potere dei partiti islamisti sunniti, l’unicità della proposta politica iraniana - una repubblica islamica di stampo autoritario e populista a forte mobilitazione e con elezioni addomesticate ma ricorrenti - verrebbe meno e il regime perderebbe molto del suo fascino agli occhi di quelle masse arabe che guardavano alla rivoluzione iraniana come il solo precedente di una rivolta di successo contro un despota autoctono spalleggiato dall’Occidente.

L’imbarazzo iraniano a fronte di quel vento di rivolta che sta scuotendo il Medio Oriente è implacabilmente messo in luce dai guai che stanno aggravando il regime siriano di Bashar Assad, il solo alleato dell’Iran nella regione, e dalla perdurante instabilità nel confinante Iraq, dove oltretutto le locali autorità sciite non sono mai apparse troppo disposte a partecipare passivamente al «gran disegno» iraniano. Nel nuovo assetto strategico che si va profilando, nonostante le gravi difficoltà interne, anche l’Egitto sta riacquistando parte di quel ruolo che tradizionalmente occupava nel Medio Oriente e che aveva perso firmando gli accordi di Camp David: alzare i toni della polemica con Tel Aviv, riaprire i valichi con Gaza e aver collaborato alla liberazione del caporale Shalit è un «filotto» che segna il ritorno dell’Egitto sulla scena diplomatica regionale. Ma è l’Arabia Saudita - l’arcinemico e per di più «empio» dell’Iran- che risulta destinato a cogliere i maggiori vantaggi dal mutamento del quadro strategico. Con un Iran ai margini della scena politica, persino la scomparsa di Saddam Hussein finisce per essere un vantaggio soprattutto per Riad, a cui la crisi del regime siriano (suo tradizionale competitor in Libano), la possibile vittoria di partiti islamisti in Tunisia, Libia ed Egitto e le gravi difficoltà in cui versa al Qaeda dopo la morte di Osama Bin Laden potrebbero regalare più di quanto i Saud avessero mai osato sperare.

Si spiega molto bene, quindi, la scelta di un obiettivo saudita. Ma perché proprio quello a Washington? Non basta il significato simbolico implicito a chiarire una simile decisione. Il punto è sostanziale. Gli iraniani sanno benissimo (e lo sanno anche i sauditi) che la crescita del ruolo di Riyad è possibile solo a condizione che gli Stati Uniti continuino a esercitare la propria influenza in Medio Oriente in modo credibile agli occhi delle capitali arabe, ben più che a quelli delle folle. Certo, la possibile svolta autoritaria delle rivoluzioni arabe potrebbe complicare la politica americana nell’area. Ma se a Washington riuscissero a mantenere i nervi saldi nel caso di una simile eventualità, proprio la carta saudita potrebbe rivelarsi preziosa. Quest’ultima però perderebbe molto della sua forza se l’America, di fronte a una clamorosa provocazione, non rispondesse in maniera appropriata. E che cosa meglio di un complotto volto a uccidere l’ambasciatore saudita a Washington potrebbe rappresentare la «provocazione perfetta»? Se gli Usa dovessero reagire in una maniera giudicata troppo timida, attesterebbero ulteriormente la loro perdita di prestigio nella regione, compromettendo la stessa investitura dell’Arabia Saudita come nuovo leader del Levante e del Golfo. Se dovessero scegliere l’opzione militare dell’attacco selettivo (non esclusa dal presidente) Obama fornirebbe spazio alle accuse iraniane di agire alla stessa maniera del suo predecessore: in maniera muscolare, imperiale, «occidentale» (nell’accezione critica che il termine ha in Medio Oriente e non solo) quando si tratta di colpire un Paese islamico, alimentando così la polemica anti-imperialista e antisionismo degli ayatollah, a cui le folle arabe continuano a restare sensibili.

Dal punto di vista iraniano il complotto apre quindi a due possibilità diverse, ma che consentono entrambe di smuovere un quadro altrimenti destinato a soffocare lentamente il regime iraniano, alle prese con una crisi economica grave, acuita dalle sanzioni internazionali per un programma nucleare dall’esito e dai tempi per nulla scontati. Oltretutto nella consapevolezza che l’unica cosa che Obama non vuole e non può fare e quella di scatenare una vera e propria guerra risolutiva contro l’Iran...

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