Crisi Usa/Iran, sono usciti diversi articoli sui quotidiani italiani di questa mattina. Segnaliamo l'analisi sulla prima pagina del FOGLIO e riportiamo dalla STAMPA di oggi, 13/10/2011, a pag. 35, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " L'accelerazione di Washington con Teheran ", a pag. 18, la sua intervista a Robert Kaplan dal titolo " È un capitolo del conflitto Riad-Teheran ".
Ecco i pezzi:
" L'accelerazione di Washington con Teheran "
Maurizio Molinari, Barack Obama
Con la scelta di chiamare in causa Teheran per il presunto complotto contro l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti, il ministro della Giustizia Eric Holder ha dato inizio ad una nuova fase della politica iraniana di Barack Obama. Arrivato alla Casa Bianca offrendo negoziati segreti sul nucleare ad Alì Khamenei e sostenitore della realpolitik con gli ayatollah fino al punto da esitare nel sostegno ai moti dell’Onda Verde del giugno 2009, il presidente americano ora affida al proprio vice, Joe Biden, il compito di far sapere a Teheran che «tutte le opzioni sono sul tavolo» per rispondere alla sfida alla sovranità nazionale pianificata da un cittadino iranianoamericano, Manssor Arbarbsiar, d’intesa con un agente della Forza Al Quds, l’unità scelta dei pasdaran. Alla genesi di tale capovolgimento di approccio alla Repubblica Islamica vi sono tre motivi convergenti: le rivolte arabe in Medio Oriente, la debolezza politica di Obama in patria e la guerra segreta dell’intelligence contro gli iraniani.
Barack Obama è convinto che le rivolte arabe sono il tema di politica estera più importante del quadriennio perché ridisegnano il quadro strategico in Medio Oriente e Nord Africa obbligando l’America e trovare nuove ricette per tutelare i propri interessi. Schierandosi a sostegno delle rivolte, Obama ha identificato nel campo opposto chi sostiene gli autocrati e poiché la «primavera» più incandescente è quella siriana gli avversari dell’America sono coloro che consentono al regime di Bashar Assad di continuare la repressione che ha già fatto, secondo l’Onu, oltre 2800 vittime. Assad ha molti alleati politici, da Mosca a Pechino, ma un unico partner militare: l’Iran di Mahmud Ahmadinejad. Per Obama è una minaccia strategica che rivaleggia con il programma nucleare perché se i servizi di sicurezza siriani, coadiuvati da quelli iraniani, dovessero riuscire a mettere a tacere le proteste ripetendo il successo di Teheran contro l’Onda Verde ad uscire sconfitta sarebbe la scelta, annunciata sin dal discorso al Cairo nel giugno 2009, di affidare la proiezione della leadership americana in Medio Oriente al sostegno per chi si batte in favore del rispetto dei diritti universali dell’individuo. Se a ciò si aggiunge che Leon Panetta, un fedelissimo di Obama, prima nelle vesti di capo della Cia e poi di ministro della Difesa, ha esposto nello Studio Ovale le prove raccolte sul sostegno di Teheran alle milizie sciite in Iraq non è difficile dedurre che la Casa Bianca consideri l’Iran come il maggior pericolo alla sicurezza nazionale. Tutto ciò era vero già nel mese di giugno, quando Obama fu per la prima volta informato del presunto piano contro l’ambasciatore saudita, e se l’escalation nei confronti di Teheran avviene adesso è perché oltre alla tempistica dell’indagine pesa l’indebolimento di un presidente in difficoltà sull’economia al punto tale da cercare su altri terreni la possibilità di riconquistare la fiducia dei cittadini. La sicurezza nazionale è l’unico argomento sul quale Obama conserva una forte popolarità - oltre il 60 per cento - perché l’eliminazione di Osama bin Laden, i successi dei droni contro i jihadisti, il braccio di ferro con Islamabad, il ritiro quasi ultimato dall’Iraq e la transizione in Afghanistan hanno raccolto il favore degli americani. Da qui la possibilità che i consiglieri di politica estera e sicurezza, a cominciare da Biden e Holder, abbiano visto nel piano iraniano contro l’ambasciatore saudita l’opportunità per rilanciare l’immagine del presidente come garante della sicurezza collettiva. Anche perché nulla potrebbe nuocere di più a Obama del primo devastante attentato terroristico in patria dopo l’11 settembre. E’ in tale cornice che si comprende l’importanza della guerra segreta dell’intelligence contro l’Iran perché, nei briefing quotidiani fatti al presidente, fornisce minuziosi preziose. Finora ad averne la leadership era stata la Cia con operazioni dentro l’Iran mirate a indebolire il regime, sabotare il nucleare, e rafforzare l’opposizione ma adesso con l’arresto di Arbabsiar la protagonista è l’Fbi. Gli agenti federali hanno la loro arma preferita nelle infiltrazioni: negli Anni Settanta le usarono per disintegrare le Pantere Nere e dopo l’11 settembre le hanno adoperate per spiare le comunità musulmane americane, senza farsi troppi scrupoli. Anche in questo caso, come avvenne spesso contro le Pantere Nere, il blitz decisivo nasce nella zona grigia dove l’informatore può essere anche complice del nemico: è stato infatti un collaboratore, spacciandosi per inviato dei Narcos, a far dire ad Arbabsiar di essere disposto a «far saltare in aria centinaia di americani pur di uccidere l’ambasciatore saudita». Ottenendo così il tassello decisivo per l’arresto dell’iranianomericano e l’escalation con Teheran.
" È un capitolo del conflitto Riad-Teheran "
Robert Kaplan
«Il piano sventato a Washington conferma la guerra per procura in atto fra Iran e Arabia Saudita». Ad affermarlo è Robert Kaplan, stratega del Center for New American Security di Washington.
Di che guerra si tratta?
«Riad e Teheran si stanno confrontando indirettamente in Siria. Entrambe legano la sorte di Damasco ai futuri assetti strategici in Medio Oriente. Teheran sostiene le forze fedeli al regime di Bashar Assad, Riad quelle ostili. È uno scontro duro e il fallito attentato di Washington lo ribadisce».
Dove può portare il braccio di ferro in atto in Siria?
«A trasformare la Siria in qualcosa di simile al Libano degli Anni Settanta, teatro di scontri etnici fra sciiti e sunniti, rispettivamente finanziati e armati questa volta da Teheran e Riad».
Lo scenario di una cooperazione fra Iran e narcos sul presunto piano di Washington non ha precedenti. È realistico?
«Il terrorismo si allea con chi può. Ogni geometria è possibile. In Venezuela già da qualche tempo i trafficanti di droga operano assieme a gruppi di miliziani provenienti dall’Iran».
Perché il vicepresidente americano Joe Biden ha accennato all’ipotesi di una ritorsione militare?
«Perché ha notoriamente la bocca molto larga. Gli Stati Uniti non pososno certo considerare un fallito attentato alla stregua di un casus belli per colpire le centrali nucleari. Il massimo che si può fare è proporre un inasprimento delle sanzioni internazionali e aumentare la cooperazione di Intelligence con Israele contro l’Iran».
Mike Mullen, capo degli Stati Maggiori Congiunti, ha ammonito sui rischi di un conflitto con l’Iran innescato da una provocazione. Ciò significa che il Pentagono teme le azioni di gruppi iraniani che sfuggono al controllo di Teheran. Il fallito attentato di Washington potrebbe essere una di queste?
«Con tale monito Mullen ha ammesso che il Pentagono sa troppo poco di cosa sta avvenendo dentro il governo iraniano. Il pericolo che azioni isolate possano scatenare un conflitto esiste. Per questo ha proposto una linea rossa fra i vertici militari dei due Paesi. È stata una mossa indovinata. Ma i vertici militari iraniani purtroppo l’hanno respinta».
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