I re filosofi e il loro fallimento morale 11/10/2011
I re filosofi e il loro fallimento morale
Amos Oz A. B. Yehoshua Yehuda Magnes
Oltre ai suoi soliti articoli sul Foglio, sempre apprezzabili per documentazione e ricerca, Giulio Meotti sta collaborando da qualche mese a vari media israeliani, e sono prese di posizioni anche più forti ed esplicite. L'ultimo pezzo che ho letto (questo: http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4133017,00.html) analizza la "tragedia letteraria israeliana", cioè il fatto che gli scrittori israeliani più importanti siano praticamente tutti non solo all'opposizione di questo governo, ma profondamente in urto con la politica di sicurezza condivisa praticamente da tutti i governi israeliani e del tutto avventuristi nella loro fiducia utopistica nella volontà di pace dei palestinesi. A conferma del pezzo di Meotti, ieri è uscito sui media internazionali (in Italia sulla Stampa: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=110&id=41756) un intervento di Yehoshua, in cui si dice deluso per "l'eccessivo sostegno a Israele" di Obama e per la sua incapacità di imporre al governo israeliano politiche che la maggioranza dei suoi concittadini, in regolari elezioni, ha sempre respinto, anche quando ha votato per una sinistra ormai frantumata e ininfluente. Colpisce molto questo disprezzo per i suoi concittadini e per le regole della democrazia, questo ostinato ideologismo nell'immaginare soluzioni che non possono stare in piedi (leggete la descrizione fantascientifica del ruolo di future forze europee per assicurare la sicurezza di Israele e perfino degli ebrei che volessero prendere la cittadinanza palestinese"). Perché tradisce non solo uno spirito di sinistra sì, ma di sinistra non democratica, disposta a tutto, anche a richiedere l'intervento straniero, pur di non rispettare le scelte invise della maggioranza. E perché, come tutti gli ideologi, Yehoshua non lascia che i bruti fatti turbino le sue certezze ideologiche. Che i palestinesi abbiano dichiarato in tutte le salse di non voler accettare neanche un singolo ebreo sui territori da loro "liberati", non turba lo scrittore: basta immaginarsi qualcos'altro e pedalare con le parole.
Ma come dice Meotti, non si tratta affatto di un'isolata follia politica, dell'accecamento narcisistico dovuto a un grande successo. Praticamente tutte le altre "celebrities" della cultura israeliana dicono le stesse cose e forse per questo sono diventate così celebri. Prendete le dichiarazioni riportate in questa utile opinione del Jerusalem Post (http://www.jpost.com/Magazine/Opinion/Article.aspx?id=229403). Lo scultore Yigal Tumarkin dichiarava, ormai parecchio tempo fa (Tel Aviv Magazine, November 4, 1988): "Quando vedo gli ebrei ortodossi, capisco i nazisti"; ma poi nel 2004 scrisse "se un figlio o due dei coloni vengono ammazzati, quelli dicono OK ne facciamo degli altri". L'opinionista Zev Sternell nel (Haaretz, 11 maggio 2001 in piena ondata terrorista): "per la maggioranza degli ebrei non vi è dubbio sulla legittimità della reistenza armata nei territori occupati. Se i palestinesi fossero più saggi concentrerebbero la loro lotta contro le colonie, invece di portarla a ovest della linea verde". Amos Oz (8 giugno 1989, a una manifestazione di peace Now): "Gush Emonim è una setta messianica crudele e ottusa, una banda di gangster armati, perpetratori di crimini contro l'umanità, sadici, progromisti e assassini". Ancora Yehoshua (Ma’ariv, 20 giugno 2002): "I palestinesi non sono i primi che tiriamo matti, guardate che cosa è successo ai tedeschi. Che cosa ha portato i tedeschi e porta i palestinesi a un tale odio contro di noi?". Sono espressioni quasi incredibili, che non potrei credere se il Jerusalem Post non fosse un giornale attento a controllare i fatti.
Ma questo non è tutto. C'è "il fallimento morale" degli intellettuali ebrei americani (di sinistra) di cui hanno parlato Howe e Samuel Bellow (http://www.jpost.com/Opinion/Op-EdContributors/Article.aspx?id=237978), c'è quella tradizione di timore e piccineria mascherata da idealismo che portò Martin Buber a battersi anche negli anni '40, durante la Shoà per diminuire e magari arrestare l'immigrazione ebraica, evitando di salvare molte vite di ebrei intrappolati dai nazisti, onde non dispiacere agli arabi e agli inglesi, e indusse Yehuda Magnes, il fondatore della Hebrew University a impegnarsi personalmente a fare lobbying contro Israele, scongiurando Truman di non riconoscere il nuovo stato. E' una storia lunga e particolarmente dolorosa. Ma non bisogna dire come fa Meotti (è il solo punto su cui divergo da lui) che Israele ha un problema letterario, o più in generale intellettuale. Sono gli intellettuali ebrei di sinistra, in parte veri, in parte autonominati, ad avere un problema israeliano. Nel senso che si sentono più a proprio agio come battitori liberi, come eredi presuntivi della Shoà, come giusti e saggi ed equi praticanti dell'"etica ebraica", che non si sporcano le mani con la triviale necessità di difendere il popolo di Israele dal terrorismo, loro che vivono nei posti sicuri e possono tranquillamente emigrare se occorre. C'è una malattia profonda, gravissima, nell'animo di questi scrittori, artisti, professori. Chiamatela se volete odio di sé, pulsione suicida. O come si usa spiegare, assunzione dei valori delle platee cui vogliono piacere. O come direbbe qualcuno, vigliaccheria. Per fortuna Israele è una democrazia e non uno stato governato da re filosofi (autonominati).