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La Stampa Rassegna Stampa
10.10.2011 Usa in ritirata e Ue si imponga di più su Israele
l'opinione di A. B. Yehoshua, con un nostro commento

Testata: La Stampa
Data: 10 ottobre 2011
Pagina: 1
Autore: A. B. Yehoshua
Titolo: «Barack Obama ci ha deluso, forza Europa»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 10/10/2011, a pag. 1-29, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " Barack Obama ci ha deluso, forza Europa ".


A. B. Yehoshua

L'articolo è una lunga critica a Barack Obama e alla sua politica che, secondo Yehoshua, si è rivelata troppo morbida con Israele e il governo Netanyahu, e un invito all'Europa ad essere più forte e assumere un ruolo più di primo piano per quanto riguarda il conflitto mediorientale.
La soluzione, secondo Yehoshua, starebbe tutta nel far tornare Israele ai confini del '67 e ad accettare la spartizione di Gerusalemme.
Non nutriamo dubbi sulla buona fede di Yehoshua, nè sul suo amore per Israele, ma la sua proposta è inaccettabile. I confini del '67 sono indifendibili e tornarci con la forza significherebbe, per lo Stato ebraico, regalare ai suoi nemici la possibilità di distruggerlo.
La cancellazione di Israele non è una 'soluzione' per il conflitto mediorientale. Usa e Ue, invece di imporre condizioni a Israele, dovrebbero richiedere maggiori garanzie alla controparte palestinese, a partire dal riconoscimento di Israele come Stato ebraico e la rinuncia alla violenza.
******************************
Non sempre il contributo alla politica degli intellettuali si è rivelato portatore di buone soluzioni, vorremmo dire quasi mai. Troppo lontani da quella che si definisce realtà dei fatti, sempre totalmente differente dai generosi 'wishful thinking'.
Non resteremmo forse stupiti se diventasse una regola fissa l'intervento dei leader politici nel campo della critica letteraria?  Netanyahu che giudica il valore letterario dei romanzi di Yehoshua, Berlusconi o Bersani che analizzano i libri di Umberto Eco e così via.

Ecco l'articolo:

Barack Obama è stato nominato presidente degli Stati Uniti nel gennaio 2009, poco tempo dopo le ultime elezioni israeliane che hanno decretato la sonora sconfitta della sinistra israeliana e la presa del potere da parte del Likud guidato da Netanyahu.

Ricordo l’arrivo del presidente a Chicago con la moglie e le figlie nel novembre del 2008, dopo aver appreso il risultato delle elezioni. All’emozione e all’euforia della folla che lo acclamava, si aggiungeva quella dei sostenitori della pace israeliani.

Naturalmente eravamo felici che alla Casa Bianca stesse per insediarsi un politico di tipo diverso, un autentico progressista, che avrebbe attuato riforme in campo sanitario ed economico. Avevamo anche la sensazione che il fatto che un uomo di colore fosse stato eletto alla carica più prestigiosa al mondo rappresentasse un grande successo per la dottrina liberale. Ricordavamo che Barack Obama era stato l’unico senatore ad avere votato contro l’invasione americana dell’Iraq e speravamo che quest’uomo di solidi principi potesse aiutare la riconciliazione tra gli Stati Uniti e il mondo arabo e imprimere slancio al processo di pace tra Israele e i palestinesi. In un certo senso l’elezione di Obama era una sorta di consolazione per la sconfitta della sinistra nelle elezioni israeliane.

L’inizio, in effetti, fu promettente, sia su un piano interno (con la riforma sanitaria) che internazionale (il discorso al mondo arabo tenuto all’Università del Cairo, la pressione su Israele per la moratoria su nuove costruzioni negli insediamenti, e il chiaro proclama che i confini del futuro stato palestinese sarebbero stati quelli del ‘67).

Lentamente, però, cominciammo ad avvertire una certa delusione dovuta alle persistenti difficoltà economiche degli Stati Uniti e allo stallo del processo di pace in Medio Oriente. Di fronte al risveglio delle forze religiose ed estremiste di destra in vista della prossima campagna per le presidenziali sembra, infatti, che Obama abbia rinunciato a tentare di convincere Israele e i palestinesi a raggiungere un accordo. Il suo fallimento nell’ottenere da Netanyahu un nuovo blocco delle costruzioni negli insediamenti e nell’impedire ai palestinesi di presentare una richiesta di riconoscimento del loro stato alle Nazioni Unite (evitando così il veto americano nel Consiglio di Sicurezza) fa pensare che le speranze riposte in questo presidente fossero eccessive. Oggi Obama ricorda più un pacato assistente sociale animato da buone intenzioni e convinto che discorsi assennati possano convincere i suoi turbolenti pazienti ad accettare soluzioni valide che un leader dotato di forte autorità in grado di imporre sanzioni.

Il suo ultimo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non solo lascia trapelare un eccessivo sostegno a Israele ma soprattutto un senso di scoramento per l’incapacità di giungere a una soluzione del conflitto israelo-palestinese. E questa è la mia sensazione da anni. La sinistra israeliana non solo è delusa da Obama ma anche dall’incapacità degli Stati Uniti di imporre a Israele un’equa soluzione di pace.

Quando parlo però con giornalisti, intellettuali e talvolta anche leader europei - italiani, francesi, tedeschi e britannici -, e chiedo loro come mai l’Europa esiti a prendere in mano le redini del processo di pace, spesso avverto un tono disfattista accompagnato da considerazioni del tipo: l’Europa è debole, divisa, non può accollarsi un simile compito. E poi cominciano le solite lamentele sull’instabilità economica del vecchio continente, sulle tensioni interne che impediscono un’azione comune, sulle divergenze vecchie e nuove, ecc. ecc.

Conoscendo però la storia dell’Europa del XX secolo consentitemi di dissociarmi un poco da questi piagnistei, soprattutto per quanto riguarda i quattro paesi leader: Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia. L’Europa non è mai stata ricca, pacifica e politicamente e ideologicamente unita come lo è oggi. Non è soggetta a minacce esterne, militari o politiche. La sua popolazione è numericamente superiore a quella degli Stati Uniti e il tenore di vita dei suoi abitanti, soprattutto nelle nazioni occidentali, è mediamente migliore di quello dei cittadini statunitensi. L’Europa sarebbe perfettamente in grado, e dovrebbe persino, accollarsi il compito di condurre il processo di pace in Medio Oriente, una regione a essa geograficamente vicina e con la quale ha stretti legami storici.

È vero che l’alleanza fra Gran Bretagna e Stati Uniti scoraggia la prima a soppiantare la seconda. Ma trent’anni di dominio sulla Palestina nella prima metà del Novecento fanno sì che l’Inghilterra mantenga un certo grado di responsabilità verso una regione che è stata sotto il suo controllo. La Germania, che naturalmente prova ancora un profondo senso di colpa nei confronti degli ebrei, teme forse mosse politiche che potrebbero essere considerate ostili ad Israele, seppur compiute nel tentativo di raggiungere la pace. L’attuale governo italiano ha stipulato un’alleanza ideologica con il governo israeliano di destra e la Francia teme forse di tornare a un’epoca in cui le sue relazioni diplomatiche con Israele erano precipitate a infimi livelli in seguito allo strappo deciso da De Gaulle e dai suoi successori dopo la guerra dei Sei giorni.

Ma tutte queste argomentazioni si annullano dinanzi al ruolo di responsabilità che l’Europa dovrebbe avere nel processo di pace e nella creazione di due Stati per i due popoli, un principio accettato pubblicamente anche da palestinesi e da israeliani. E questo soprattutto alla luce del fallimento degli Stati Uniti in veste di valido intermediario. Si dovrebbe quindi trovare un modo per insediare una forza di pace europea che assicuri la smilitarizzazione dello Stato palestinese e scoraggi un eventuale esercito proveniente da oriente dal mettere a repentaglio la sicurezza di Israele. E che presidi sofisticate apparecchiature elettroniche in posizioni strategiche così da evitare il lancio di missili su centri abitati israeliani. Una forza europea potrebbe anche garantire la sicurezza dei coloni ebrei che decidano di prendere la cittadinanza palestinese piuttosto che essere sradicati dalle loro case.

Queste missioni di pace non coinvolgerebbero i contingenti europei in scontri sanguinosi ma garantirebbero un’adeguata supervisione e la fiducia di entrambe le parti.

Una mediazione di pace europea non sarebbe una provocazione nei confronti degli Stati Uniti ma aiuterebbe a sbloccare il processo di pace nella sua fase finale; una fase che si protrae da più di venti anni. E non è da escludere che una partecipazione europea, compatta, determinata e generosa, al processo di pace in Medio Oriente possa anche aiutare le nazioni del vecchio continente a liberarsi dell’atteggiamento di indulgente autocompatimento che non corrisponde, a mio vedere, alla loro situazione reale.

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