Copti in Egitto a rischio estinzione. Chi può emigra, gli altri? Cronaca di Daniele Raineri
Testata: Il Foglio Data: 07 ottobre 2011 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri Titolo: «conti sulla fuga d’Egitto dei cristiani non tornano (ma i salafiti incombono)»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 07/10/2011, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " I conti sulla fuga d’Egitto dei cristiani non tornano (ma i salafiti incombono)".
Daniele Raineri
Il Cairo, dal nostro inviato. I copti del Cairo sono gentili, offrono birra Stella, una buona lager in bottiglia, e la ordinano al tavolo all’interno di questi ristoranti scelti che frequentano, dove si può consumare in pubblico senza problemi. In centro città c’è più ipocrisia, la birra la puoi comprare ma non la puoi bere e ti tocca portarla via in un pudico sacchetto di plastica nera. La schiuma dorata è puro antico Egitto: portata agli uomini da Osiride, il dio del fallo aureo e della fertilità che diede al mondo il dono dell’agricoltura, era una bevanda così apprezzata che chi volesse chiedere la mano di una principessa del regno doveva portarne un barile fresco al Faraone, come dono perfetto (nell’Egitto di oggi è ancora un monopolio in mano al governo). Dopo la birra, ci sono i copti: il loro linguaggio liturgico è quello che ha più assonanze con il demotico che a sua volta è parente stretto della lingua parlata durante il tempo delle dinastie egizie. Entrambi, copti e birra, sono due superstiti in salute dell’epoca pre islam, ma entrambi sentono sopra di sé l’ombra del rischio scomparsa. Ovviamente the talk of the town, l’argomento che tiene banco in città, almeno per quanto riguarda i copti, è un articolo uscito due settimane fa su al Masri al Youm, “Egitto oggi”, in cui il grande difensore dei copti, l’avvocato Naguib Gabriel, lancia l’allarme sull’esodo dei cristiani dall’Egitto del dopo rivoluzione: da metà marzo a oggi, secondo i suoi dati, se ne sarebbero andati in 93 mila, emigrati per timore che il paese cada in mano agli estremisti salafiti verso diocesi più sicure, in America, in Canada, in Francia, in Australia. “Entro la fine dell’anno – dice – altri 250 mila potrebbero andarsene”. Lunedì la notizia è stata ripresa anche dai giornali italiani – ma il numero è stato arrotondato a centomila – e poi, per l’effetto camera eco dell’informazione, è finito anche sul seguitissimo sito Dagospia. Titolo: “Copti a puntino nel forno del Cairo”. Tanto che il Vaticano si è allarmato. “La comunità internazionale non può assistere in silenzio a un dramma di queste proporzioni”, è stato l’appello della Segreteria di stato vaticana. Di fronte a “intolleranze fondate su pregiudizi” e a “strumentalizzazioni della fede per giustificare la violenza” la Curia ha ribadito che “la libertà religiosa è un diritto fondamentale da rispettare”. I conti però non tornano alla perfezione. I copti ascoltati dal Foglio non vogliono il loro nome pubblicato su un giornale, per non dare l’idea di una comunità lacerata, ma sospettano che i numeri siano stati almeno un po’ gonfiati. Abbiamo sentito i nostri amici copti a Washington, dicono, che è la più grossa comunità d’America, e ci hanno detto che non si sono accorti di questo esodo. E poi come è possibile, chiedono, che se ne siano andati in 93 mila tra marzo e settembre, sette mesi, e “250 mila se ne stiano per andare” in soli tre mesi, entro la fine del 2012? Lo scrittore Kamal Zhaker, leader politico dei secolaristi copti, condivide lo stesso sentimento: scetticismo sulla cifra ma non sulla preoccupazione. “I numeri sono esagerati”. “Ma l’ansia – dice ad al Masri al Youm – è giustificabile. In ogni caso, le procedure per immigrare prendono un anno di tempo, quindi è illogico dire che la rivoluzione di gennaio è la causa per cui lasciano il paese”. E’ un concetto su cui batte anche lo scrittore Adel Girgis, intervistato sulla Stampa dal vaticanista Giacomo Galeazzi. Commentando i dati allarmanti, dice: “Ho monitorato personalmente la situazione dei cristiani, essendo io stesso un copto interessato alle questioni della comunità. La loro emigrazione non è in aumento perché la strada è praticamente chiusa. Solo uno su cento riesce a ottenere un visto dalle ambasciate straniere”. Girgis, che come Galeazzi ricorda è l’autore di numerosi romanzi e saggi dedicati alla comunità copta in Egitto, conferma che i cristiani “hanno paura che la corrente islamista si rafforzi”, ma “il motivo principale dell’emigrazione degli egiziani musulmani e cristiani è il fattore economico”. Sono gli stessi punti attorno a cui ruotano i commenti sobri – la birra Stella è tranquilla, non più di 5 gradi – degli interlocutori del Foglio appartenenti alla comunità. “Fosse così facile emigrare. Ma per andare così velocemente in America l’unica strada è dimostrare di essere un perseguitato politico o religioso, per ora non ci sono i requisiti. Il motivo è soprattutto economico (mercoledì sera il ministro delle Finanze egiziano, dopo aver annunciato che adesso il governo del Cairo accetterà volentieri un prestito salvifico dal Fondo monetario internazionale che era stato orgogliosamente rifiutato pochi mesi fa, ha detto che il paese “è in bancarotta”, ndr). I copti che conosco io, come tutti gli egiziani, sognano sì di migrare, ma per mettere da parte i soldi e poi tornare in Egitto, che è l’unico posto dove stanno bene per la rete delle relazioni di famiglia. Credete davvero che chi apre un pizzeria in Italia voglia stare là per sempre?”. Le chiese copte di Washington e del New Jersey interpellate dal Foglio rispondono: “L’aumento c’è senza dubbio, ma non abbiamo numeri precisi”. Non resta che andare alla fonte. Naguib Gabriel è il più famoso difensore dei copti egiziani, è avvocato, ha un ufficio lungo con le pareti vecchie al primo piano di un palazzo nel quartiere a maggioranza copta di Shubra. La porta è in ferro battuto e vetro, in modo che lui e un paio di assistenti possano vedere chi si presenta da fuori. “Dio mi protegge – dice al Foglio – c’è un intero canale televisivo dei salafiti che se la prende con me e mostra la mia immagine, ma io non ho paura”. Gabriel ha una voce tonante e un corpaccione, è un habitué sulla scena egiziana. La rivoluzione nei paesi arabi di quest’anno è stata una rivoluzione scatenata dal prezzo alto della farina e contro i sistemi politici bloccati, ma gli estremisti islamici, dopo un iniziale momento di smarrimento, si stanno infilando nel vuoto aperto dai regimi crollati. E ora non si parla più del pane. Si parla del numero dei copti in fuga. Gabriel sposa questa tesi, dice che dopo la rivoluzione le cose sono peggiorate, “come se noi copti non ne avessimo fatto parte”. Dice che governo, Consiglio militare e ministero dell’Interno non fanno nulla contro le minacce dei salafiti. Il Consiglio militare non è equidistante tra salafiti e copti, “e so per certo che al suo interno ci sono membri della Fratellanza musulmana”. Mostra il video del rogo della chiesa di Sol: lo sceicco locale aveva detto di voler cantare la preghiera islamica dalla sommità di quella chiesa. “Nel video si riconoscono benissimo le facce degli assalitori, anche se il governo dice che sono ‘ignoti’”. Gabriel mostra pure il video dell’incendio della chiesa di Imbaba, i salafiti hanno bloccato l’arrivo dei vigili del fuoco, era successo anche al rogo della chiesa di Aswan. “L’obiettivo dei salafiti è lo sterminio dei copti. Come si può sostenere dopo tutto questo che non c’è discriminazione sistematica? I salafiti stanno imponendo il velo alle ragazze copte nell’alto Egitto. I copti si sentono bersagli, non più cittadini, e per questo fuggono dal paese loro malgrado. La situazione non è di ‘tensione religiosa’, come si dice, ma di pulizia etnica”. Gli attacchi sono attribuiti a “pazzi isolati”: “Ebbene, questi pazzi isolati hanno sei partiti”. Qui Gabriel, che conferma i 93 mila, spara un altro numero sospetto: dice che i copti sono sedici milioni, anche se un censimento obsoleto dice che sono tra i dieci e i dodici milioni. “Ma in Parlamento non avranno che 3-4 seggi al massimo”. Non offre ulteriori delucidazioni. “Il mio messaggio ai musulmani moderati è: ora tocca a noi, dopo tocca a voi” (l’avvocato echeggia la sintesi più ficcante pronunciata da Papa Shenouda, leader religioso dei copti: “Avranno noi per pranzo e voi per cena”). L’attivismo di Gabriel, che corre anche lui alle elezioni come leader di un proprio partito – “ma se il governo non protegge i copti, le boicotteremo” – non cade nel vuoto. Martedì sera l’esercito è dovuto intervenire nelle strade di Shubra per tenere sotto controllo un corteo che si stava trasformando in una sommossa. Poi è tutto finito, come ogni volta che una chiesa brucia, sul lungo Nilo, davanti al brutto edificio della televisione di Maspero, con un sit in davanti al filo spinato e ai soldati che proteggono il cuore dell’informazione di stato egiziana. All’interno della comunità copta c’è chi preferirebbe metodi più felpati, “non dobbiamo autoghettizzarci, dobbiamo allargarci e scivolare all’interno delle istituzioni e dappertutto”. Perché “la paura condivisa non è per ora fisica, è quella che ci facciano patire un’umiliazione, come quando con il pretesto della febbre suina uccisero tutti i maiali del paese. Fu un eccidio umiliante e non necessario, una prevaricazione islamista mascherata da politica sanitaria, da fare male al cuore”. Il governo, anche solo magari per figura, tenta di correre ai ripari. Due giorni fa il primo ministro Essam Sharif ha detto che, dopo 80 anni, entro un mese varerà un codice unificato per la costruzione di nuove moschee e chiese che parificherà i due luoghi di culto, ovvero spazzerà via il punto principale della discriminazione contro i copti. Se lo facesse davvero, sarebbe un gesto rivoluzionario. L’esercito intanto è arrivato con mezzi e genieri a ricostruire la chiesa di Aswan. La sensazione è che si tratti ancora di gestione in affanno del potere: se bruci una chiesa esci di prigione con una cauzione di 500 sterline egiziane – quanto serve per un mese di palestra al Cairo – ma se offendi i militari su un blog te ne servono almeno 20 mila.
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