Donald Rumsfeld contro al Jazeera cronaca di Mattia Ferraresi
Testata: Il Foglio Data: 06 ottobre 2011 Pagina: 2 Autore: Mattia Ferraresi Titolo: «Rumsfeld ha amato al Jazeera per un paio d’ore, poi s’è risvegliato»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 06/10/2011, a pag. 2, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo "Rumsfeld ha amato al Jazeera per un paio d’ore, poi s’è risvegliato".
Donald Rumsfeld
New York. C’è stato un periodo in cui Donald Rumsfeld amava al Jazeera. La considerava “un importante mezzo di comunicazione nel mondo” ed era persino “felice” dell’esistenza del network e del suo ottimo stato di salute. Questo periodo è durato circa un paio d’ore, poi l’ex segretario della Difesa ha abbandonato la dottrina dell’appeasement per tornare il tosto Rummy del 2004, quello che considerava i racconti della rete degli sceicchi del Qatar sulla guerra in Iraq “viziati, inaccurati e imperdonabili”. Con l’anchorman David Frost, Rumsfeld ha ingaggiato una gara di gentilezze: uno celebrava ex post la fine delle ostilità con l’Amministrazione Bush, l’altro rincarava la dose esaltando le virtù moderate che al Jazeera aveva perseguito negli anni successivi alla sua dipartita dal governo. Lo stesso giorno era programmata una seconda intervista con il network, questa volta con Abderrahim Foukara, capo dell’ufficio di Washington e orgoglioso autore di interviste molto scomode. E allora nessuno ha acceso il calumet della pace. Foukara ha chiesto a Rumsfeld se non sentisse la responsabilità di centinaia di migliaia di iracheni civili morti e nemmeno troppo implicitamente l’intervistatore suggeriva che il numero delle truppe inviate allora da Rumsfeld non era sufficiente per garantire la sicurezza dei confini. “Molti al Pentagono suggerivano di mandare più truppe”, ha spiegato Foukara a chi il Pentagono lo guidava “by his own rule”, come recita il titolo della più famosa biografia rumsfeldiana. E’ lì che la vista di Rummy ha iniziato a offuscarsi: “Lei continua a fare affermazioni fondamentalmente false”, ha detto, spiegando che tutti i generali e gli uomini della sicurezza nazionale sono stati costantemente interpellati, e quando “hanno richiesto un aumento delle truppe, le abbiamo aumentate”. Apparentemente la questione era chiusa, ma non per Foukara, che bramava una confessione, una resipiscenza o almeno una mezza ammissione di colpa. “Questo processo rende i numeri giusti?”, ha chiesto. Ormai il segno era passato e Rumsfeld dal fastidio è passato all’ira: “Vuole urlare o fare un’intervista?”. L’intervistatore non s’è mosso dalla sua posizione nemmeno quando l’ex segretario lo ha definito “true to form”, cioè esattamente fedele a ciò che ci si aspetta, e così ha rivangato quelle vecchie idiosincrasie che sembravano superate per sempre nella conversazione fra gentiluomini con Frost. Rumsfeld non s’è trattenuto e forse ha fatto un’incursione dalle parti del torto quando l’intervista s’è trasformata in una specie di opera caricaturale tipo “io non l’ho interrotta adesso lei non m’interrompa”, fino a sfociare nel fatto che “la natura” stessa di Foukara tende al tono accusatorio, all’inquisizione precostituita, alla domanda retorica, alla tesi subliminale. “Perché dovrei fare quello che vuole e lei non dovrebbe fare quello che voglio io?”. “Perché io sono l’intervistatore”. E poi il finale amaro di Rummy: “Non ne vale la pena”. Non è chiaro chi sia uscito vincitore dalla disputa – il Washington Post la butta sul pareggio – ma di certo c’è che Rumsfeld è tornato a dare un assaggio del vecchio leone che era ed è, un tipaccio che non s’è fatto piegare dagli anni della pensione, un navigatore di lungo corso che non ha nessuna voglia di fare ammenda per compiacere i commentatori incravattati che quando erano dall’altra parte della barricata si sono esercitati per anni a dipingerlo con coda e zoccoli caprini.
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