Guerra al terrorismo, la strategia di Obama si basa sugli omicidi mirati hanno portato all'eliminazione di Osama bin Laden e Anwar al Awlaki
Testata: Il Foglio Data: 06 ottobre 2011 Pagina: 7 Autore: Mattia Ferraresi Titolo: «Gli omicidi di Obama»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 06/10/2011, a pag. III, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo "Gli omicidi di Obama".
Barack Obama, Osama bin Laden, Anwar al Awlaki
Nel giugno del 2008 l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, sconfitto all’alba delle primarie del Partito repubblicano, notava una differenza sostanziale fra i candidati John McCain e Barack Obama sulla lotta al terrorismo: “Uno ha un atteggiamento offensivo, mentre l’altro se ne starà in difesa”. Non era soltanto una considerazione a titolo personale. L’ex vicepresidente, Dick Cheney, qualche mese dopo l’inaugurazione di Obama alla Casa Bianca aveva detto in un’intervista a Sean Hannity che la politica del neoeletto presidente poteva essere racchiusa in una massima d’ispirazione kantiana: “Non dobbiamo essere tanto duri e aggressivi quanto l’Amministrazione Bush”. Il canovaccio politico sulla sicurezza nazionale prevedeva che Obama dipingesse gli anni di Bush come l’era buia in cui l’America aveva smarrito il suo animo compassionevole in nome della guerra all’asse del male, mentre i suoi avversari lo tacciavano di essere un giovanotto dai pensieri deboli e sognanti che per una fetta di consenso avrebbe svenduto senza remore la supremazia americana al peggior offerente. Loro virulenti stanatori di nemici, lui jetsetter in chief. Nessuno immaginava che sotto quintali di retorica aperturista e sentimenti di empatia verso i sofferenti vivesse un Obama in versione killer. Il raid della Cia che il 30 settembre ha ucciso i cittadini americani Anwar al Awlaki e Samir Kahn oltre a tre membri yemeniti di al Qaida nella penisola araba è l’ultimo capitolo di un racconto in cui Obama fa la parte del cinico sterminatore di terroristi, il presidente armato che ordina operazioni segrete sul suolo di paesi alleati per eliminare luogotenenti e comandanti, infischiandosene, in fondo, delle immediate conseguenze politiche che le operazioni clandestine dell’agenzia di Langley spesso si trascinano dietro. La scelta di andare alla caccia di Osama bin Laden con qualsiasi mezzo era stata tutto sommato politicamente semplice: anche il più pacifista dei presidenti si sarebbe imbarcato nella missione catartica di prendere vivo o morto il principe del terrore e infatti Obama già in campagna elettorale aveva messo la caccia a Bin Laden fra i suoi obiettivi espliciti, senza timore che il proposito intaccasse i ben più moderati discorsi circa la guerra globale al terrore e il ruolo dell’America nel mondo. Lo sceicco saudita era l’eccezione ovvia in una politica di sicurezza nazionale che si annunciava opposta a quella di Bush. Il fatto è che il presidente Obama si è trovato a raccogliere dati d’intelligence e a tracciare i movimenti dei terroristi sulle mappe come nessun altro presidente aveva fatto prima: leader locali, luogotenenti, operativi di medio livello, agitatori ideologici, comandanti militari, qualunque affiliato di al Qaida impigliato nella rete dell’intelligence viene cacciato senza posa fino alla conferma dell’eliminazione avvenuta. Una volta individuato l’obiettivo i droni si alzano in volo e sparano senza troppe dispute di filosofia bellica e morale, anche nel caso del tutto particolare dell’imam Awlaki e del “direttore” della rivista Inspire, il magazine patinato di al Qaida nella penisola araba. Awlaki era nato quarant’anni fa da genitori yemeniti nella città di Las Cruces, in New Mexico, aveva studiato in Colorado e poi alla San Diego State University, aveva predicato nella moschea più grande degli Stati Uniti, Dar al Hijrah, nell’area metropolitana di Washington, dove almeno tre degli attentatori dell’11 settembre orbitavano negli anni prima della grande operazione al cuore dell’America. Qualche mese fa una serie di documenti dell’Fbi trapelati da fonti anonime spiegava che il ruolo di al Awlaki nella preparazione del piano era molto più profondo di quanto si fosse sempre creduto. Forse anche per questo gli uomini della sicurezza nazionale di Obama hanno improvvisamente accelerato una caccia all’uomo che si era aperta ufficialmente ad aprile dell’anno scorso, quando la Cia aveva diramato l’inedita licenza di uccidere un cittadino americano. Prima del 2009 il nome di Awlaki evocava qualcosa soltanto in una ristretta cerchia di esperti, ma le informazioni erano troppo vaghe e lo Yemen troppo remoto rispetto ai teatri di guerra per imbarcarsi nell’ennesima spedizione. Quando il maggiore Nidal Hasan si è messo a sparare nella base di Fort Hood, in Texas, gridando “Allahu Akbar” e ha ucciso 13 suoi colleghi, fra cui una donna incinta, il nome di Awlaki è tornato a risuonare nelle stanze in cui gli uomini di Obama premono i bottoni fatali. L’imam era ispirazione e guida della strage. I suoi sermoni avevano riportato alla vita il fanatismo intorpidito e la lezione in Power Point in cui ricordava la massima del nichilismo terrorista “noi amiamo la morte più di quanto voi amate la vita” si era tradotta nell’azione distruttiva. Che il gesto non sia stato incoronato dal martirio è forse l’unico cruccio di Hasan. Di attentatori ispirati dal predicatore americano ne sono arrivati altri, che per impreparazione o abilità altrui non hanno fatto vittime, ma dai giorni del lutto texano Awlaki ha ulteriormente ridotto i suoi contatti, è scomparso dai social network, dai forum e da tutti i radar digitali. Si è messo a scrivere su Inspire, spesso in forma anonima – la sua penna veniva sempre riconosciuta dai filologi occidentali della jihad – e ha organizzato la spedizione di esplosivo su corriere aereo che dallo Yemen doveva colpire New York e Chicago. Ma ormai il livello dello scontro era troppo alto per tornare indietro, e mentre gli uomini della Cia lavoravano per localizzarlo, i consiglieri del presidente valutavano la migliore via legale per autorizzare l’uccisione di un cittadino americano. Il paradosso è che Awlaki era già sfuggito dalle indagini di due diverse Amministrazioni americane, quella di Clinton e Bush. Nel 2000 è uscito senza macchia da un’inchiesta scattata per i suoi contatti con personaggi già sotto l’occhio dell’Fbi e fra il 15 e il 19 settembre del 2001 è stato interrogato quattro volte dopo che gli agenti hanno trovato il suo numero di telefono nella casa di un operativo della cellula di Amburgo. Awlaki, che nel frattempo teneva sermoni scaltramente moderati per abbassare la pressione, è riuscito a convincere gli investigatori che lui in quella storia non c’entrava nulla. E c’è riuscito talmente bene che nei mesi successivi è stato invitato almeno due volte a pranzo al Pentagono per discutere e tenere lezioni sull’islam moderato. Quando si è dileguato per l’ultima, definitiva volta nello Yemen, le truppe americane erano già entrate a Baghdad e lui ha potuto insediarsi comodamente in un nuovo centro per la predicazione e da lì muovere i fili della filiale araba di al Qaida. Finché non è arrivato Obama, anima pacifista in un corpo da cecchino, a dare ordine a Langley di uccidere senza esitazioni. Appena passato il comando i droni sono partiti, ma il primo raid non è andato a segno. Karen Greenberg, giurista della New York University che si occupa di sicurezza e detenzioni, allora escludeva senza dubbio l’idea che il governo potesse uccidere legalmente un cittadino americano: “Non possono farlo, è un cittadino americano, nato in New Mexico, e loro non hanno il potere di annullare la sua cittadinanza”. Nemmeno John Yoo, l’avvocato che ha scritto l’impianto legale degli interrogatori duri nell’era Bush e per questo è stato messo in croce, ammetteva che ci fosse una scappatoia per uccidere un cittadino americano. “L’autorità del presidente di detenere un nemico di guerra – scriveva Yoo – non è superata dalla dichiarazione e nemmeno dalla dimostrazione che il sospetto abbia un passaporto americano”: ma quando si parlava di eliminazione, di uccisione con le squadre speciali, di bombardamento mirato con i droni, ecco, su quel terreno nemmeno l’impavido avvocato s’azzardava a camminare. Tecnicamente poi tutte le disposizioni del team di Yoo che negli anni sono state recepite da Bush sotto forma di ordini esecutivi sono state spazzate via da Obama meno di 48 ore dopo la sua salita alla Casa Bianca. Con un colpo di spugna ha cancellato ogni traccia del passaggio legale di Bush circa detenzione, interrogatori e rendition e a fortiori ha promesso di mantenere ciò che nemmeno gli uomini del predecessore avevano osato azzardare. Quando però è arrivato il momento di colpire uno dei più importanti leader di al Qaida i consiglieri legali di Obama hanno vergato un documento segreto ad hoc per aggirare l’ostacolo. Il contenuto – che verosimilmente basa la legittimità dell’operazione sulla preponderanza delle ragioni della guerra rispetto a quelle del passaporto – non verrà svelato, nonostante le richieste del Senatore Ron Paul e dell’ala libertaria del Congresso, costituzionalmente offesa dalla decisione della Casa Bianca di negare a un concittadino il diritto al giusto processo. Certo, la strategia obamiana non è disegnata per vincere la guerra globale al terrore né tanto meno per affermarsi nello scontro di civiltà, categorie che l’Amministrazione ha esorcizzato dal suo orizzonte fino a eliminarne le tracce linguistiche dalle carte della sicurezza nazionale, ma ha optato per l’eliminazione meticolosa, quasi scientifica, dei nemici giurati dell’America. I suoi uomini hanno stilato liste più precise di nomi, si sono spinti molto oltre i confini dei teatri bellici, hanno piazzato droni in Uganda, Burundi, Etiopia, nelle Seychelles, hanno aperto un varco aereo sulla penisola araba per bombardare lo Yemen da qualsiasi lato, hanno impiantato basi operative nel cuore di Mogadiscio e hanno fatto la fortuna della General Atomics, l’azienda che produce gli ormai stranoti Predator e Reaper a qualche miglia da dove una volta viveva e studiava Awlaki. Obama ha celebrato il passaggio dal terrorismo ai terroristi, dall’esportazione della democrazia alla guerra chirurgica condotta con droni e reparti speciali sotto l’ombrello sicuro della Cia. Ha affidato la guida di Langley non già a un generale qualsiasi ma all’incarnazione plastica della guerra di respiro globale e morale condotta da Bush, David Petraeus. Alla cerimonia per le dimissioni del segretario alla Difesa, Bob Gates, il presidente ha sorpreso tutti conferendogli la “Medal of Freedom”, massima onorificenza presidenziale. Gates, che a Washington sapeva sempre tutto, è stato a sua volta preso in contropiede e dall’ambone davanti al Pentagono ha azzardato una battuta di taglio bellico: “Stai diventando piuttosto bravo con le operazioni segrete”. Il profondo fossato ideologico che separa il chirurgo Obama dal condottiero Bush è stato riassunto, prima del raid di Abbottabad, dal columnist conservatore Charles Krauthammer in una sintesi perfetta delle ragioni dei falchi di Washington: “Sì, dobbiamo prendere Osama bin Laden. Sì, dobbiamo smantellare il network dei terroristi. Ma lo scopo fondamentale della guerra al terrorismo è quello del regime change. E comincia con i talebani. Perlustrare tutte le grotte dell’Afghanistan alla ricerca di Bin Laden è esattamente la trappola in cui lui vuole farci cadere. I terroristi non possono operare senza la complicità e il sostegno dei governi. Il pianeta è diviso in stati. A meno che i terroristi non vogliano stabilirsi nell’Antartide, dovranno risiedere in stati sovrani. L’obiettivo di questa guerra dovrebbe essere quello di rendere impossibile o intollerabile per qualunque stato ospitare, proteggere e aiutare i terroristi. Il punto non è schiacciare tutte le zanzare, ma prosciugare la palude”. Pur avendo rifiutato la filosofia olistica della palude, il cecchino Obama si è concentrato con forza spaventosa sull’eliminazione delle zanzare. E la performance è decisamente efficace. Due settimane prima di eliminare Awlaki, i droni della Cia hanno ucciso in Pakistan il saudita Abu Hafs al Shahri, comandante di al Qaida che si era unito al movimento molto prima del 2001, e hanno arrestato l’operativo di alto livello Yunis al Mauritani. In agosto hanno stanato il comandante Atiyah Abd al Rahman nel suo rifugio pachistano. Con un po’ di fortuna l’amministrazione è riuscita a uccidere a Mogadiscio Harun Fazul, leader di al Sahabab coinvolto a vario titolo in tutti gli attacchi più importanti contro obiettivi americani in Africa; in Pakistan la Cia ha ucciso il comandante con gli occhiali a goccia Ilyas Kashmiri e ha catturato Abdul Ghani Berader, il numero due della catena di comando militare dei talebani. Già nel 2009 aveva eliminato il leader del clan Meshud, Baitullah, e Muhammad Haqqani, comandante militare della famiglia talebana legata a doppio filo con i servizi segreti pachistani. Nello Yemen gli americani hanno spezzato in un colpo solo tre vertebre fondamentali della struttura qaidista nella penisola araba: Ammar al Waili, Abu Ali al Harithi e Ali Saleh Farhan. In Indonesia l’imprendibile Noordin Top, mente del devastante attentato di Bali e della bomba al Ritz di Giacarta, è stato ucciso nell’ennesima incursione segreta. In Iraq ono morti sotto i colpi dei Predator i comandanti Abu Ayyub al Masri e Abu Omar al Baghdadi. Non c’è gruppo, clan o affiliazione generica alla galassia di al Qaida dal Mali all’Indonesia che non abbia perso operativi di altissimo livello e sia stata seriamente danneggiata ai piani bassi della manovalanza terroristica. Nella stanza dei trofei Obama ha due dozzine fra capi e signori della guerra e centinaia di semisconosciuti affiliati che sono finiti sotto le bombe che il presidente ha affidato alla segretezza della Cia. Ci sono analisti della sicurezza nazionale come Philip Jenkins e Peter Bergen che trovano l’approccio “zanzara per zanzara” molto efficace per l’immagine del presidente, ma non altrettanto nell’ottica della vittoria della guerra al terrorismo: “L’eliminazione di Awlaki non cambia sostanzialmente la capacità operativa di al Qaida nella penisola araba”, ha detto Jenkins al Daily Beast. Bush non si era mai effettivamente messo sulla strada dell’eliminazione chirurgica e sistematica e anche l’uccisione di Zarqawi da parte della leggendaria squadra 6-26 di Stanley McChrystal è inquadrata nel contesto di una guerra di stampo tradizionale informata da principi universalistici. Nella convinzione che una radicale bonifica fosse l’unica via per spezzare l’habitat in cui al Qaida proliferava, la precedente Amministrazione si è occupata più degli scenari che dei nomi, più delle condizioni sul campo che delle liste estratte dai dati dell’intelligence. Obama è tornato al sinuoso metodo bellico che tanto caro fu ai liberal da Kennedy a Clinton, ma nessuno come lui aveva mostrato le sue doti di cecchino con tanta audacia e precisione.
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