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Il Foglio Rassegna Stampa
05.10.2011 Una generazione di 'vendicatori' pronta a difendersi dagli attentati palestinesi
Succede in Giudea e Samaria

Testata: Il Foglio
Data: 05 ottobre 2011
Pagina: 3
Autore: Redazione del Foglio
Titolo: «Bibbia e M-16, i 'vendicatori ebrei' che innervosiscono Israele»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/10/2011, a pag. 3, l'articolo dal titolo "Bibbia e M-16, i 'vendicatori ebrei' che innervosiscono Israele".


La famiglia Fogel, massacrata da due terroristi palestinesi

Roma. Sui muri della moschea di Tuba Zanghariyya, nel nord della Galilea israeliana, è stata tracciata la parola “vendetta”, oltre al cognome “Palmer”. E’ il nome di un colono ebreo ucciso dai palestinesi assieme al figlio neonato lo scorso 23 settembre presso Kiryat Arba, un insediamento in Cisgiordania. Tutta Israele oggi invita questi “vendicatori” a non prendere la legge nelle proprie mani, a calmarsi.
La polizia e l’esercito sono mobilitati e lo shabbach, ovvero i servizi segreti dell’Interno, è molto preoccupato. I “vendicatori” vivono sulle terrazze della Giudea e Samaria, i nomi biblici dei Territori contesi dal 1967, dove la terra è rossa e gli ulivi crescono a stento ma con determinazione. Oppure a Hebron, dove nella grotta di Machpela è seppellito “Nostro Padre Abramo”, dove vivevano molti attentatori islamici e porta a porta Baruch Goldstein ha compiuto la sua strage di arabi nella tomba biblica. I “vendicatori” sono teenager a volte a cavallo, sempre in gruppo, portano capelli al vento, kippà colorate, lunghe frange rituali che spuntano dalle t-shirt. Israeliani per i quali lo stato d’Israele comincia a non apparire più come lo stato che avevano sognato e il premier Benjamin Netanyahu appare come un nemico in potenza, motivato dall’opportunità politica, dai patti stretti nel passato e indispensabili per il futuro. Si fanno chiamare Noar-Gvaot, i giovani delle colline. Gli uomini barbuti hanno la camicia bianca e il libro di preghiere e dei Salmi sempre in mano, intenti ad approntarsi un giaciglio qualunque in quelle roulotte poste su una terra contesa da quarant’anni.
Le donne sembrano femministe degli anni Settanta: gonne lunghe e colorate, zoccoli, foulard frangiati, rosa e turchese, e nomi come Hodaya (in ebraico, Ringraziamento). Si sentono come i ribelli dei tempi di Giuda Maccabeo, l’eroe ebreo che sfidò i greci fino alla morte. Citano libri, preghiere, testi, nomi di re e di profeti come fossero vecchi amici. Sono giovani nervosi che vivono a fianco degli arabi, a cui spesso capita che debbano seppellire i propri cari uccisi in agguati terroristici. Si sposano bambini e fanno dieci figli a testa. Gli islamici sono il loro nemico mistico, oltre che storico. Dove vivono le pietre volano, assieme alle bombe molotov e ai colpi di fucile. Ebrei che non vogliono convincere e non saranno convinti.
I più facinorosi sono quelli delle incursioni negli uliveti palestinesi e quelli che fanno a botte con la polizia israeliana. Per questi giovani il risorgimento ebraico passa, come all’inizio del Novecento, dal confronto gomito a gomito con gli islamici. Molti vengono da Sa Nur e Homesh, due colonie smantellate da Ariel Sharon e al centro di un triangolo mortale formato da Jenin, Nablus e Tulkarem. Vivono nei “maharazim”, le colonie selvagge, che altri chiamano “outpost”, cioè avamposti, perché i prefabbricati e le roulotte che li costituiscono sono in cima a colline strategiche, circondati da villaggi arabi, luoghi pericolosi. Chi li abita è una nuova generazione di coloni, convinta d’interpretare la continuità del sionismo dopo che i loro padri coloni hanno costruito per loro comode villette a schiera.
Si assiepano in cima a colline brulle che hanno sfidato l’Intifada a rischio e spesso al prezzo della pelle dei loro cowboy. Le regole del processo di pace non li scalfiscono. Dicono che un avamposto è un “monumento vivente”, la sola lingua che gli arabi capiscono. E che la “vendetta” praticata contro moschee, auto e piantagioni è il meno che possano fare dopo che i terroristi hanno ucciso uno dei loro. Promettono di non mollare neppure un centimetro di terra. Costruiscono esistenze minimaliste nel cibo e nelle vesti, in stile kolchoz, vite pulite, fedelissime, popolate di bambini e verdure crude. I loro genitori hanno fatto la guerra qui nel 1967 ed era allora terra giordana. E piano piano da eroi sono diventati ostacoli. Hanno visto morire molti compagni. I soldati israeliani, quelli con cui i coloni condividono brigate e divisa, devono trascinarli spesso via a forza quando da Gerusalemme arriva l’ordine di evacuazione. Chi resta vive palmo a palmo con la morte.
In caso di conflitto non conta la legge dello stato, ma quella del Signore. La Torah ricevuta sul Sinai da Mosè. Vivono di un’incandescente, pertinace fede nella missione ebraica e sono come un gigantesco archetipo: barba, mitra e miriadi di piccoli. E’ anche nato un gruppo di autodifesa, Mishmeret Yesha, i guardini della Giudea e della Samaria. Sono i vigilantes addetti alla difesa delle comunità più isolate. Raccolgono fondi negli Stati Uniti per acquistare elmetti, giubbetti e kit di pronto intervento. I fucili M-16 provengono dall’esercito, che li assiste. Israeliani che non conoscono compromesso e spesso provengono dalla scuola religiosa della Tomba di Giuseppe, terzo luogo santo nel giudaismo, con l’esperienza di scontri diretti con i palestinesi, con cataste di morti e feriti e la rabbia covata per la distruzione della tomba nel 2000. Molti vivono a Yitzhar, una colonia di oltranzisti che si affaccia sul villaggio palestinese di Hawara, i cui abitanti sono responsabili negli anni della morte di diversi israeliani.
Da lì veniva anche il killer della famiglia Fogel, i cinque israeliani della colonia di Itamar (padre, madre e tre figli piccoli) sgozzati a marzo. L’avamposto controlla l’ingresso a una vallata segnata da decine di agguati mortali a civili e soldati israeliani, compreso quello in cui furono uccisi, in una sorta di tiro al piccione, nove fra viaggiatori casuali e soldati di guardia. Poco lontano c’è Ofra, la madre degli insediamenti, poi Eli, e più in là Beth El, e Tapuah. I loro guru spirituali sono maestri cabalisti come i rabbini Yitzhak Ginzburg e Eliezer Melamed, che ha scritto un libro, intitolato “Popolo Terra Esercito” e capo della yeshiva Har haBerakha (il Monte delle Beatitudini). E il rabbino Yitzhak Shapira, a capo della scuola talmudica “Od Yosef Hai” (“Giuseppe è ancora vivo”, dal versetto biblico di Gen 45,26) dell’insediamento di Yitzhar, che ha pubblicato, nel novembre scorso, un libro nel quale si giustifica l’uccisione in guerra dei non ebrei. E’ un paesaggio di una bellezza mozzafiato, ma modesto: casette a un piano, tetto rosso, vecchie automobili per strada.
E sinagoghe ovunque. Qui abitava uno dei figli del rabbino americano Meir Kahane. Entrambi, padre e figlio, uccisi da islamisti. E’ il cuore degli insediamenti più antichi e della vita di quella che è ormai una comunità di più di 500 mila persone, di cui molti alla terza generazione. Rifiutano la protezione dei fili elettrici. Dicono di non voler vivere “come ostriche”. Imparano a sparare e a difendersi nel caso in cui l’esercito israeliano si ritiri da queste gole sante. Qui o si vince o si scompare.

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