E' morta Ida Marcheria, sopravvissuta ad Auschwitz. Ne pubblica un ricordo Umbero Gentiloni sulla STAMPA di oggi, 04/10/2011, a pag. 20, con il titolo "La sopravvissuta che voleva ricordare"
Ida Marcheria
Sono rimasta in Kanada, ad Auschiwitz Birkenau, dall’inizio fino al 18 gennaio del ‘45. Il Kommando era composto da trecento ragazze, né una in più né una in meno, avevamo tutte il fazzoletto rosso». La voce di Ida Marcheria si è spenta ieri mattina a Roma. Una delle pochissime donne sopravvissute alla macchina dello sterminio nazista. Ebrea triestina, era nata il 13 agosto 1929. La sua breve infanzia spezzata dalle leggi razziali del 1938: arrestata da fascisti il 3 novembre 1943 trascorre un mese nel carcere Coroneo (Trieste) per poi salire sul trasporto diretto ad Auschwitz (7-12 dicembre 1943). Il nucleo familiare viene selezionato sulla rampa di arrivo, Ida e sua sorella Stellina destinate al Kanada Kommando di Birkenau, un magazzino per raccogliere bagagli e oggetti sottratti ai deportati. Ida diventa la matricola 70412 immessa nell’universo del lavoro coatto: stoccaggio di merci, le più diverse (asciugamani, spazzolini, sapone, vestiti) recupero di materiali che, una volta sistemati, avrebbero raggiunto le città della Germania. Il tutto avveniva in condizioni difficili, circondati da corruzione e mercato nero; le detenute trovavano anche oro e brillanti e come lei stessa ha ricordato bruciavano di nascosto i soldi, «di tutte le nazionalità, per dispetto». Un percorso a ostacoli interrotto dalla marcia della morte che dal gennaio 1945 la condurrà prima a Ravensbruck e poi a Malcow, liberata da un’armata statunitense il 1˚ maggio 1945, a pochi giorni dalla caduta di Berlino.
Nel dopoguerra cerca di trovare una strada per ricostruire la sua giovane vita. Apre una pasticceria nel quartiere africano della capitale; un negozio di cioccolata e marron glacé dove era solita raccontare alcuni frammenti del suo percorso. Aveva scelto di testimoniare, parlare con i più giovani, girava le scuole partecipando ai viaggi della memoria. Manteneva dietro i suoi occhi vispi una contrarietà di fondo alle semplificazioni pacificatrici, ai facili ottimismi. Orgogliosamente ostile alle ipocrisie di comodo: «Non dicano oggi come allora che non sapevano. Molti campi di sterminio erano vicini a città importanti. Abbiamo lavorato da schiavi nelle loro fabbriche, in quelle famose allora e famose ancora oggi. Hanno indossato i nostri vestiti, hanno camminato con le nostre scarpe, guardato l’ora sui nostri orologi, scritto con le nostre penne... Sapevano, tutti sapevano. Ho perso tutti. Tutti sono andati in fumo. C’è anche chi afferma che è giunto il momento di perdonare. Io non posso perdonare. Non perdonerò mai».
Per inviare alla Stampa la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante.