Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 30/09/2011, a pag. I, gli articoli di Fausto Biloslavo, Carlo Panella, Rolla Scolari titolati " Controrivoluzione in Libia ", "Nato, perché combatti secondo principi beduini e non occidentali? " e " A Tripoli non faremo l’errore fatto a Baghdad nel dopo Saddam ".
Ecco i pezzi:
Fausto Biloslavo - " Controrivoluzione in Libia "
Fausto Biloslavo
Tutti cantano vittoria, ma la guerra in Libia continua e gli ex governativi combattono ancora, un mese dopo la caduta di Tripoli, pure se Gheddafi si fa vivo soltanto con messaggi audio registrati. La Nato ha esteso per altri tre mesi la missione che ha fatto crollare il regime del colonnello. Sul terreno i ribelli, che hanno conquistato la capitale e quasi tutta la costa, faticano ad allontanare i “controrivoluzionari”, dati sbrigativamente per spacciati, dalle loro ultime roccaforti. La seconda fase della guerra in Libia si combatte in un enorme triangolo di sabbia, che ha come base Sirte, la città natale di Gheddafi sulla costa, e Bani Walid, la “capitale” della tribù Warfalla, la più grande del paese. Il vertice è a Sabha, 750 chilometri a sud di Tripoli, che i ribelli hanno annunciato di aver conquistato.
Lo avevano fatto un paio di volte anche con Bani Walid, che sarebbe dovuta cadere agli inizi di settembre, secondo le loro previsioni. Quando le avanguardie dei ribelli erano riuscite a entrare in città, si erano ritrovate sotto un pesante fuoco di sbarramento che li aveva fatti arretrare. Nella principale caserma, una specie di locale Bab al Azizya – la defunta cittadella fortificata di Gheddafi a Tripoli – ci sarebbero ancora un migliaio di uomini del rais. Sarebbero guidati da Seif al Islam, il figlio “politico” di Gheddafi. Ci si aspettava che Bani Walid sarebbe capitolata senza sparare un colpo, grazie ai negoziati tribali, ma evidentemente una bella fetta del clan Warfalla non ha alcuna intenzione di sottomettersi ai nuovi padroni. A Sirte, l’ultima città costiera in mano agli ex governativi, la battaglia è dura. “Dove andiamo senza benzina, bombardati ogni notte? Abbiamo le nostre famiglie in città e le difenderemo”, spiegava fin da aprile, in perfetto inglese, Mohammad Khamis un medico trasformato in combattente.
Gli ex ribelli sono riusciti a penentrare in città, ma combattono casa per casa. Neppure i pesanti bombardamenti della Nato sono riusciti a far capitolare gli ex governativi, che sarebbero guidati da Moutassin, il figlio di Gheddafi nominato Consigliere per la sicurezza nazionale. Hanno poche speranze, ora che hanno perso anche il controllo dell’aeroporto, ma continuano a difendere la loro città. Per conquistare Sirte sono caduti comandanti leggendari come Noureddine al Qon, capo della brigata Tigre, che ha combattuto per mesi a Misurata. Prima di lui era rimasto paralizzato nello scontro Ibrahim al Halbous, un altro comandante di rango degli insorti. I difensori della città temono il “libro nero” compilato dai ribelli sui fedelissimi di Gheddafi da catturare o far fuori, anche se il governo transitorio (Cnt) non vuole ripetere l’errore dell’epurazione totale compiuto in Iraq dopo il crollo di Saddam. Nel triangolo libico che sfugge al controllo del Cnt si combatte anche nelle oasi convertite in basi militari, come al Kufra e Jafra. Intanto, colonne di armati sconfinano dall’Algeria per attaccare i nuovi padroni della Libia.
Gli uomini del colonnello continuino a combattere con ostinazione. Gheddafi partecipa alla lotta da chissà dove, attraverso messaggi audio registrati. Nell’ultimo, dopo aver smentito di esser fuggito in Nigeria o Venezuela, ha ribadito: “Voglio morire da martire nel mio paese”. Nel proclama precedente aveva lanciato il messaggio che ha aperto la terza fase della guerra: “Le bombe degli aerei della Nato non dureranno a lungo”. L’impressione è che i suoi uomini resistano nel sud in attesa di un disimpegno dell’Alleanza atlantica per rialzare la testa o iniziare la guerriglia e il terrorismo. Secondo il portavoce dell’ex regime – Mussa Ibrahim, che secondo fonti del Cnt sarebbe stato arrestato ieri sera a Sirte – la guerra potrebbe “durare anni: Gheddafi ha abbastanza armi e mezzi per combattere a lungo”. Non a caso sono stati presi in flagrante, a Tripoli, quattro fratelli che stavano preparando attentati nella capitale. Li hanno sorpresi in un appartamento del quartier al Mansur, che apparteneva ad Amer Musa al Zintani, noto sostenitore del colonnello. Non tutti i lealisti hanno saltato il fosso, anche se Gheddafi potrebbe essere riparato all’estero, come sospetta lo stesso ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. L’Unione africana ha riconosciuto il Cnt, ma a seguirla sono stati poco più di una ventina dei 54 paesi del continente nero. Il colonnello, che in Africa si definiva “il re dei re”, può contare su alleati di ferro come il dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe, così come su aiuti e prebende che gli permetterebbero un esilio dorato in Togo, Guinea Bissau e altri paesi africani. Secondo il primo ministro Carlos Gomes, “con tutti gli investimenti che ha fatto in Guinea Bissau, il colonnello Gheddafi merita il nostro massimo rispetto e il miglior trattamento possibile.
Da noi sarebbe il benvenuto”. Per non parlare degli amici oltreoceano a Cuba, in Nicaragua, in Venezuela, Ecuador e Bolivia, che hanno già detto di non voler riconoscere i nuovi padroni di Tripoli. Ancora una volta, come nelle prime settimane della rivolta e dei bombardamenti Nato, le notizie sulla fine di Gheddafi sono parecchio esagerate. All’Alleanza atlantica non sfugge questo dettaglio: ha rinnovato la missione fino a dicembre, con revisioni mensili della situazione sul terreno.
La verità è che le allegre brigate del nuovo governo non ce la fanno senza l’appoggio dall’aria della Nato, che manderà anche truppe sul terreno per rimettere in sesto il paese. Francia e Inghilterra sono pronte, con o senza risoluzione dell’Onu, a spedire in Libia consiglieri e soldati per la protezione delle infrastrutture e delle risorse del paese, con l’obiettivo di scalzare l’Italia dal primo posto fra i partner energetici. Frattini sarà in visita oggi a Tripoli per evitare lo sgambetto alleato. L’Italia si occuperà dell’addestramento di “polizia, guardia costiera, ma anche della ‘polizia petrolifera’ che garantirà la sicurezza degli impianti”, insieme con “personale civile, medico e del settore dello sminamento”.
Eni è preoccupata per la sicurezza dei grandi investimenti, come quelli a Mellita, da dove parte il gasdotto per l’Italia, ma anche (e soprattutto) delle piattaforme off shore. Si fa strada l’ipotesi di utilizzare dei contractor, che però non sono in grado di mettere in campo le forze aeronavali indispensabili per la sorveglianza delle piattaforme. Lo stato maggiore, data la freddezza politica, sta preparando piani minimalisti con il rischio che francesi e inglesi ci brucino sul tempo. La Libia è ben lontana dall’essere pacificata, ma a Tripoli già emergono preoccupanti divisioni non soltanto di natura politica. La galassia dei gruppi armati che ha scalzato Gheddafi sta facendo incetta di armi abbandonate, forse volutamente, negli arsenali del regime. Gran parte del materiale bellico viene dirottato verso le montagne Nafusa dalle milizie della minoranza berbera, che non si fidano neanche un po’ dei tripolini. Grosse quantità di armi sono state trasferite a Misurata, la terza città del paese, che non ha alcuna intenzione di delegare la sicurezza al nuovo governo. Per non parlare delle brigate degli islamici duri e puri, che sono le più organizzate e ben armate. Non a caso il comandante della piazza militare di Tripoli è Abdel Hakim Belhaj, un ex del Gruppo islamico combattente libico, che per un periodo fu alleato di al Qaida. Mahmoud Jibril, premier provvisorio del Cnt, è costretto da due mesi a rinviare la formazione del nuovo governo.
Non sarà facile formarlo e farlo digerire agli islamisti, che sono in aperta polemica con le forze più liberali e con gli ex di Gheddafi riciclatisi alla guida del Cnt. “Jibril cerca di dare ai suoi i mezzi per gettare le basi di uno stato totalitario”, ha detto sheik Ali Sallabi, riferendosi al premier ad interim. Il fondamentalista, procacciatore di finanziamenti e armi per i ribelli, è un oratore con un vasto seguito popolare e l’appoggio dello stato del Qatar. Molti lo considerano il mentore del “governatore” militare della capitale, Belhaj, anch’egli molto attivo nel tentativo di far fuori la vecchia guardia del Cnt. Secondo un suo aiutante, “Jibril se ne andrà presto”. Nel mirino c’è anche il ministro del Petrolio provvisorio, Ali Tarhouni, che ha studiato negli Stati Uniti. I Fratelli musulmani sono sbarcati subito a Tripoli liberata, dove vogliono organizzare il primo congresso della potente congregazione sunnita. Abel al Rajazk Abu Hajar, membro della Fratellanza, guida il consiglio municipale della capitale.
Mohamed Abdul Malek, Suleiman Abd al Qadir e Ahmad al Qusair, gli ultimi due rientrati in patria dopo diciott’anni di esilio in Svizzera, sono altri esponenti di spicco dei Fratelli che giurano di voler rispettare le regole democratiche. Adel al Hadi al Mishrogi, uno degli uomini d’affari che ha raccolto più fondi per la rivolta, non crede alle promesse dei fondamentalisti e accusa al Etilaf, un cartello di organizzazioni islamiche sorto a Tripoli. Anche Fathi Ben Issa, uno dei primi rappresentanti del nuovo consiglio municipale della capitale, ha abbandonato Etilaf, di cui fanno parte i Fratelli musulmani, accusandola di essere dominata da “talebani che vorrebbero chiudere i teatri, i cinema e controllare le sculture con forme umane. Non ci siamo liberati da Gheddafi per sostituirlo con questa gente”.
Un rapporto dettagliato di Amnesty International sui crimini commessi, da entrambe le parti, in otto mesi di guerra civile, dedica agli abusi dei nostri alleati ben ventuno pagine. “Alcuni combattenti dell’opposizione hanno sequestrato, arbitrariamente detenuto, torturato e ucciso membri delle forze di sicurezza, sospetti lealisti di Gheddafi, soldati catturati e stranieri erroneamente accusati di essere mercenari”, si legge nell’introduzione. Amnesty denuncia, con date, nomi, riferimenti dettagliati e testimonianze, le esecuzioni sommarie e le torture nei campi di detenzione di Misurata, Bengasi e al Zhawia. In un caso è stato addirittura ritrovato un foglietto insanguinato appiccicato al cadavere di un agente torturato e ucciso: “Un cane, in compagnia di altri cani di Gheddafi, eliminato”.
I ribelli sono accusati anche di lanci indiscriminati di razzi Grad in zone civili, linciaggi o eliminazioni a colpi di ascia di immigrati clandestini, accusati di essere mercenari, ma che in molti casi cercavano soltanto di fuggire dalla guerra. “Il problema è la mia pelle nera: i ‘thuwwar’ (i rivoluzionari, ndr) pensavano che fossi un sostenitore di Gheddafi, quando, in realtà, è stato il regime a reprimere la mia gente. Adesso chi si è opposto alla sua brutalità sta facendo lo stesso”, dice un immigrato detenuto dai ribelli nel Centro culturale Zarouq di Misurata trasformato in prigione e raccolta da Amnesty lo scorso maggio. Nel rapporto di Amnesty i prigionieri dei ribelli descrivono nei dettagli le torture, simili a quelle usate dagli sgherri di Gheddafi. Non solo: mostrano i segni dell’elettrochoc, delle bastonature con cinghie, manganelli e denunciano minacce di stupro. “Mi hanno tappato la bocca e legato le mani per poi picchiarmi duramente con un bastone. Volevano che firmassi un foglio che non potevo neanche leggere.
Minacciavano di uccidermi, puntandomi una pistola alla testa, se non l’avessi fatto”, racconta uno dei torturati dai ribelli. Peter Bouckaert, di Human Rights Watch, che ha visitato diverse prigioni improvvisate gestite dagli insorti a Tripoli, piene di neri, ha dichiarato al New York Times: “Lo stato di detenzione riflette un profondo sentimento razzista e anti africano della società libica. E’ chiaro che molti dei prigionieri non erano soldati e non hanno mai imbracciato un’arma in vita loro”.
Il bilancio delle vittime è invece tragicomico: il governo transitorio ha annunciato, dopo la conquista di Tripoli, cinquantamila martiri. Poi il suo presidente, Jalil, ha ridimensionato a 25 mila morti, una cifra su cui comunque la Croce rossa internazionale nutre forti dubbi. Quando i ribelli liberarono i prigionieri del regime a Tripoli ne trovarono circa novemila rispetto ai trentamila stimati. Leggenda vuole che i 21 mila mancanti siano stati massacrati e fatti sparire dagli uomini di Gheddafi. Vicino alla prigione di Abu Salim, nella capitale, sono state trovate delle fosse comuni con 1.270 corpi, ma di prigionieri massacrati nel 1996. Otto anni dopo, quando il colonnello Gheddafi era stato sdoganato dalla comunità internazionale, aveva ammesso il crimine. La Croce rossa, che per la guerra attuale parla di un migliaio di dispersi, ha scoperto alcune fosse comuni nell’area di Tripoli, con soli 135 cadaveri.
Carlo Panella - " Nato, perché combatti secondo principi beduini e non occidentali? "
Carlo Panella
La Nato in Libia oggi combatte secondo principi beduini, incompatibili con la tradizione militare occidentale. La differenza è brutale: la guerra beduina punta alla eliminazione del nemico, ne avvelena i pozzi, distrugge armenti e famiglie e sgozza i maschi adulti sconfitti; a partire da Westfalia, dal 1648, si è invece gradualmente imposta in occidente una logica di guerra mirata a imporre una pace patteggiata, in cui il nemico sia impossibilitato a nuocere, ma non schiantato, i suoi villaggi distrutti e cosparsi di sale. Caduta Tripoli, saltata la catena di comando tra Muammar Gheddafi e le città lealiste, la Nato è andata a sbattere contro una evidenza lampante: la difesa ad oltranza, disperata, di Sirte e di Bani Walid non si regge affatto sui mercenari. La menzogna mediatica di un Gheddafi forte non del consenso – minoritario – dei lealisti, ma solo della ferocia dei mercenari diffusa da al Jazeera per mesi e amplificata in tutto il mondo non ha retto alla prova dei fatti. Mai si sono visti mercenari resistere eroicamente nella certezza di non essere mai pagati. In realtà, i lealisti assediati sono spinti a una difesa oltre ogni ragionevole speranza soltanto perché sono ben coscienti dalla logica di scontro tribale esiziale di nemici secolari (tali sono i cirenaici per i tripolitani, e viceversa). I Khadafa e non pochi Warfalla resistono oltre ogni speranza di vittoria, segnale allarmante per il futuro, perché se è chiaro che saranno alla fine sconfitti, è altrettanto chiaro che questa loro resistenza impedirà ogni e qualunque pacificazione futura a opera dei – pochi – superstiti. Ma la Nato non prende atto che, fuggito Gheddafi da Tripoli, anche il suo quadro operativo è radicalmente cambiato, che oggi non si tratta più di vincere una guerra già vinta, ma di costruire la pace. Pure è nozione basilare che la pace dopo una guerra civile – questo è stata la guerra di Libia – dipende soltanto da come si è chiusa la guerra. Ma oggi la Nato bombarda Sirte e Bani Walid in una logica di puro annientamento, subisce le direttive di un Cnt che non intende patteggiare la resa. Un Cnt controllato dal fior fiore dei gerarchi del regime del colonnello che ragiona e combatte una guerra beduina, esattamente come fanno le feroci truppe lealiste (violazione dei principi umanitari, inclusi, come denunciato da Amnesty e Hrw). La guerra beduina è aggravata dall’evidente e rivendicato oltranzismo dell’estremismo jihadista (guerra di sterminio, non di conquista) dei generali del Comitato di transizione, a iniziare dal comandante militare di Tripoli Abdulhakim Belhaj che ancora impedisce, armi alla mano, la formazione di un nuovo governo a Tripoli. Pure basterebbe che i generali della Nato leggessero un bignamino della storia della Libia per comprendere che una vittoria nel sangue delle truppe della Cirenaica lascerà ferite tanto profonde in Tripolitania che non si ricomporranno mai, sì che il paese sarà condannato a una instabilità permanente. Tale instabilità non danneggerà soltanto i libici, ma anche gli stessi interessi politici e petroliferi dei paesi della Nato.
Rolla Scolari - " A Tripoli non faremo l’errore fatto a Baghdad nel dopo Saddam"
Rolla Scolari
Tripoli non è Baghdad, non vuole esserlo. “Non vogliamo ripetere gli errori commessi in Iraq”, ha detto il leader del Cnt, Mahmoud Jibril, riferendosi alla cacciata e all’emarginazione nel 2003 di chi aveva fatto parte del regime di Saddam nei quadri del partito Baath. Fu la cosiddetta “debaathificazione” e scatenò la rabbia dei sunniti, che si sentirono spodestati del potere e si gettarono fra le braccia degli estremisti. A Tripoli la transizione non è facile. “Siamo qui per garantire la sicurezza dei palazzi governativi, delle istituzioni perché dopo la battaglia devono essere pronti per governare immediatamente”, aveva spiegato il 21 agosto Abu Baker al Muaqaf, a guardia dell’Istituto per il petrolio. Era un ordine dall’alto. Gli uffici sono già stati assegnati ai nuovi burocrati della rivoluzione. Hisham Krekshi è il numero due del consiglio cittadino. Prima della rivolta lavorava presso un rivenditore Mercedes, non aveva alcun ruolo ufficiale nella struttura del regime. Ma non tutti i membri delle nuove istituzioni comunali sono come lui. “Per la ricostruzione non ripartiamo da zero – spiega al Foglio – Ci sono molti tecnocrati all’interno della vecchia struttura del regime. Se erano leali alla Libia, e non soltanto a Gheddafi, li terremo. Se hanno le mani sporche di sangue li porteremo davanti alla giustizia”. “Mi hanno subito chiesto di rimanere – dice il capo dei vigili urbani, Ali Hamrouni – Nessuno ha l’esperienza e la conoscenza del territorio che ho io”. Attraverso appelli alla radio e sms, decine di poliziotti sono tornati a pattugliare le strade. I ribelli vogliono avvalersi dei funzionari del regime che non partecipavano al processo decisionale ma facevano andare avanti la macchina burocratica. Per le istituzioni era già tutto stabilito da tempo: Krekshi racconta che i nomi dei capi della giunta cittadina sono stati decisi a marzo. A fine luglio, dopo diverse riunioni segrete, è stato formato un intero consiglio, che ha lavorato sui piani di transizione ben prima che Tripoli cadesse. “Avevamo persone di cui ci fidavamo in ogni ministero locale, lavoravano per il regime”, spiega Krekshi. Per i nuovi padroni di Tripoli è arrivato il momento di mettere ordine tra i ranghi delle forze armate ribelli, per non rimanere, come accadde in Iraq, senza un esercito, e non lasciare spazi di manovra alle milizie. “Dopo la caccia al tiranno, la priorità è formare un esercito nazionale – dice Omar Hariri, il rappresentante militare che siede nel Cnt, un uomo piccolo, capelli bianchi, 15 anni nelle carceri del regime – Ne faranno parte i combattenti che hanno liberato il paese. Non ci sarà una ‘debaathificazione’. Tra le persone che lavoravano per il regime di Gheddafi ci sono anche patrioti, obbigati a lavorare per lui dal sistema. Li terremo”. Il governo centrale, la cui nomina sembra imminente da due settimane, per ora non è stato ancora formato. C’è un’altra differenza con l’Iraq, come ha spiegato Fouad Ajami: quando cadde Saddam, “il vicinato era insidioso”: l’Iran pronto al sabotaggio, la Siria in funzione destabilizzatrice. A Tripoli, invece, i vicini tunisini ed egiziani hanno gli stessi guai da risolvere: non vogliono problemi sull’uscio di casa.
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