“Stato palestinese, niente cittadinanza per i profughi"
di Costantino Pistilli
Abdullah Abdullah
Se la Palestina otterrà un seggio all’Assemblea generale dell’Onu (o presso il Consiglio di Sicurezza, così da poter minacciare -oltre a Israele- anche qualche membro di Hamas alla Corte internazionale) che fine faranno i milioni di profughi palestinesi?
Come ci segnalava Ugo Volli con una cartolina euroaraba, per l’"ambasciatore palestinese " in Libano Abdullah Abdullah, i profughi palestinesi non diventeranno cittadini del futuro Stato. In un’intervista rilasciata al quotidiano libanese The Daily Star Abdullah è stato molto chiaro: “I profughi potranno godere di un’identità palestinese ma non della cittadinanza”. E lo stesso destino toccherà anche a quelli che vivono nei “territori”. Infatti, neanche a loro, sempre secondo il diplomatico palestinese, verrà concessa la cittadinanza della tanto desiderata patria.
Allora, chi si dovrebbe occupare dei profughi palestinesi, all’incirca il 45% del popolo della Nakba?
“Dovranno continuare a pensarci l’Organizzazione per la Liberazione palestinese, come responsabile per i rifugiati, e l'UNRWA”. Infatti, continua Abdullah, “la futura Palestina non fornirà nessun aiuto o servizio agli esuli ma dovrà pensarci l’UNRWA a continuare a provvedere all’istruzione, all’assistenza sanitaria e agli assegni sociali”, ergo, i contribuenti americani ed europei che forniscono il grosso dei finanziamenti a questa organizzazione.
Quindi, a cosa è servito chiedere all’Onu un riconoscimento ufficiale?
Abdullah spiega che la richiesta di riconoscimento presentata da Ramallah alle Nazioni Unite non servirà a porre un freno al conflitto mediorientale ma sarà “solo un cambio delle regole del gioco" per riuscire con altri mezzi a distruggere lo Stato ebraico. Ecco dunque cosa interessa alla leadership palestinese: tenere premuto il grilletto diplomatico contro Israele, come succede da sessant’anni. D’altronde, lo stesso Abdullah ne aveva già parlato. Secondo il Palestinian Media Watch, infatti, l’ambasciatore palestinese in Libano in un’intervista di un anno fa dichiarò al quotidiano Al-Hayat Al-Jadida che i colloqui di pace tra Gerusalemme e Ramallah “non sono un obiettivo, ma solo un altro tentativo palestinese di minare la legittimità di Israele”(9 settembre 2010). Tanto è vero che i proximity talks sarebbero serviti alla comunità palestinese a “isolare Israele, così da stringere un cappio al collo allo Stato sionista, minacciandone la sua legittimità” per poi presentarlo come uno stato razzista simile al Sud Africa dell’apartheid. Lo scopo della moderata Autorità nazionale palestinese “è quello aumentare l’isolamento internazionale di Israele per fare in modo che molti israeliani in posizioni di rilievo abbiano paura di viaggiare in Paesi europei per non essere processati per i loro crimini”.
Intanto, mentre nelle stanze onusiane si raduneranno per decidere come disegnare la (perenne) futura Palestina, martedì scorso sono stati lanciati altri due missili contro il sud d’Israele, per la settima volta è stato fatto esplodere un’arteria del gasdotto che dal Sinai fornisce lo Stato ebraico, mentre a sud di Nablus alcuni palestinesi hanno cercato di rapire un bambino israeliano. Fatti, cifre e numeri che sicuramente non verranno presi in considerazione dalla comunità internazionale quando calcoleranno il PIL del futuro Stato con la kefya.