Aggiornamenti sulla situazione in Egitto di Daniele Raineri
Testata: Il Foglio Data: 28 settembre 2011 Pagina: 6 Autore: Daniele Raineri Titolo: «Controrivoluzione al Cairo»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 28/09/2011, a pag. III, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Controrivoluzione al Cairo ".
Daniele Raineri, Fratelli Musulmani
Il Cairo, dal nostro inviato. Bella e svaccata, non c’è altro modo per la gioventù soddisfatta del Cairo di passare il tempo ai tavoli misti – ragazzi e ragazze – giù in centro. Svaccata con l’ancia della shisha tra le labbra, a tirare boccate e certe occhiate intorno, oppure con le carte davanti e la Pepsi fredda in mano. Piazza Tahrir, la piazza della rivoluzione di febbraio, è soltanto a mezzo chilometro di distanza, ma qui è un salotto nascosto tra le vie dei negozi, tutto pavé e palmizi e tavolini e a cinquanta metri l’ingresso con colonne della Borsa – il mercato delle azioni egiziano, si chiama proprio così: Borsa – che dà anche il nome al locale. Borsa café. Venerdì sera in questo angolo c’è stato un principio di rissa, sono arrivati i militari e anche le forze di sicurezza, col basco nero, la tuta nera, gli anfibi neri e i fucili, hanno rovesciato i tavoli, hanno scalciato via le sedie (e persino le shishe, puntualizza inorridito chi c’era), la rissa è finita nel nulla, nessuno se ne ricordava più, al suo posto è subito nato il fronte comune dei giovani contro la polizia, che si è ingrandito in fretta. “Erano qualche centinaio”. Per cavarsela gli agenti hanno sparato in aria con i fucili kalashnikov, lì, nel salotto cittadino, davanti alla Borsa. La protesta ha scantonato, ha preso un’altra direzione, come certi mulinelli di vento, è andata a finire a notte inoltrata a piazza Tahrir, la grande madre che accoglie tutte le manifestazioni: “Abbasso il generale Tantawi, abbasso il governo dei militari”, cantavano quelli. Inaudito. Gli spari davanti al Borsa café sono un segnale d’allarme che a tutti ricorda i tempi del presidente deposto Hosni Mubarak, quando le agenzie di sicurezza arrestavano attivisti agli stessi tavolini. Chi ha più memoria in città spiega che per la loro disposizione quei locali sono le culle naturali del fermento politico egiziano: una boccata di shisha (le shishe sono lunghe spirali di vetro con annesso piattino di braci da cui si aspira fumo profumato, sono delicate, non vanno rovesciate per terra) e una critica al potere, un giro di carte e una promessa di manifestazione, e poi via tutti di nuovo a Tahrir. La notizia che ora i tavolini finiscono di nuovo a gambe all’aria non arriva fino ai giornali occidentali, o se ci arriva non finisce in pagina: ma l’Egitto ha innestato la marcia indietro, dalla grande speranza democratica sta dirigendosi di nuovo verso l’autoritarismo militare, anche se Tantawi ha annunciato l’inizio delle elezioni per il prossimo 28 novembre. Ovvio che c’è un problema: il potere è stato consegnato ai militari direttamente dalle mani del popolo in festa, che lanciava ghirlande di fiori sui carri armati e cantava commosso “il popolo e l’esercito, una sola mano”. Grazie, grazie ai generali e alla loro scelta di non sparare sulla folla e di mettersi con discrezione da parte, ad aspettare lo sbrogliarsi degli eventi e anche, perché no, ad attendere la telefonata di Washington su che cosa fare – visto che paga la maggior parte delle spese dell’esercito egiziano, quasi come se il paese fosse un cinquantunesimo stato americano-araboafricano. Ora ci vuole delicatezza per riprendersi tutto il potere indietro senza scatenare la suscettibilità degli egiziani, tutti così orgogliosi di avere appena spodestato il loro primo rais dopo settemila anni continuati di obbedienza senza scossoni e discussioni al potere centrale. Ci vuole delicatezza, ma è un lavoro che sta riuscendo, perché oggi l’Egitto è un paese in piena deriva autoritaria. La Legge d’emergenza contro cui si erano battuti i ribelli pacifici di febbraio e che non avrebbe potuto assolutamente essere estesa oltre settembre, se non con un nuovo referendum, è stata allungata per decisione dei militari fino all’estate 2012. Tariq al Bishri, emerito costituzionalista, ha confermato questo limite legale di sei mesi in un’intervista ad al Jazeera che è stata ripresa da giornali ed editorialisti. Al Bishri è il presidente della commissione per gli Emendamenti costituzionali nominata dai militari per emendare la Costituzione del 1971 e che alla fine ha prodotto la nuova Dichiarazione costituzionale di 60 articoli su cui oggi si regge provvisoriamente il paese. In questo modo, il costituzionalista nominato dai generali sta dicendo in tv che gli stessi generali stanno violando le norme. Wael Kandil, sul giornale al Shorouk, termina il suo ultimo editoriale sulla Costituzione con le parole: “Di certo apparteniamo ad Allah ed è a lui che ritorneremo”, che sono le parole di rito quando si apprende della morte di qualcuno, come a dire che la dichiarazione costituzionale è già morta. C’è di più: rispetto ai tempi di Mubarak, la Legge d’emergenza è stata ampliata. Prima poteva essere invocata soltanto contro i casi di terrorismo e di narcotraffico, ora può essere utilizzata anche contro “chi propala notizie false” e contro “chi compie atti sediziosi”, ovvero due nuove categorie di reato che avrebbero spedito subito tutti gli attivisti di piazza Tahrir in galera e neutralizzato le proteste di gennaio, se Mubarak le avesse potute chiamare subito a suo favore. I militari ora hanno imparato la lezione. Domenica, cosa mai avvenuta prima d’oggi, un giornale è stato chiuso d’imperio perché ha osato riportare la testimonianza del feldmaresciallo Tantawi al processo contro l’ex rais Mubarak. Il giornale aveva sfidato un ordine esplicito che imponeva ai media il silenzio assoluto e ai giudici un’udienza a porte chiuse: come si vede, una linea di rinnovata e trasparente democrazia. E c’è la questione dei processi militari. Chi critica il potere della giunta di Tantawi anche soltanto su un blog è spedito davanti a un tribunale non civile ma militare, e da quello alla prigione. Ci sono più processi militari nel dopo regime, da febbraio a oggi, che durante tutti i trent’anni di potere di Mubarak, circa 12 mila secondo Human Right Watch, anche se chiamarlo dopo regime, a questo punto, comincia a suonare come un equivoco. E’ arrivato persino un ordine stizzito agli aeroporti: non lasciare più entrare gli stranieri con l’accogliente facilità che era tipica dell’Egitto, chiedete il visto, fate fare loro la trafila alle ambasciate, dopotutto siamo un paese sovrano, abbiamo il diritto di mostrarci superiori e di essere sospettosi con chi vuole entrare: alla fine il ministro del Turismo, con le mani nei capelli, ha ottenuto che l’ordine fosse revocato, sarebbe stato disastroso per il flusso sempre più sottile dei visitatori. Hussein Agha e Robert Malley ricordano sulla New York Review of Books che Lenin postulava: una rivoluzione vittoriosa richiede un partito politico disciplinato e strutturato, una leadership robusta e un programma chiaro, e in Egitto non c’è niente di tutto questo. “Eppure gli egiziani sembrano avere smentito la teoria e raggiunto lo scopo”. Non è più così: la controrivoluzione, in silenzio e grado a grado, lavora per riportare le cose a come erano prima, ovvero per conservare la maggior parte del potere nelle mani dei militari, riuniti pomposamente nel Supremo consiglio delle Forze armate – quaranta generali di cui i giornali non pubblicano per paura nemmeno i nomi. Lenin riderebbe tra i palazzoni di stampo sovietico del Cairo – la capitale è una città verticale – così alti che danno una buona visuale, secondo il rumor che circola con più insistenza, fin dentro alla prigione dove sono rinchiusi il vecchio Mubarak e i suoi figli. Starebbero facendo vita da re tra laptop, internet, tv, telefoni, ore d’aria infinite e cibo consegnato da fuori – è un’altra ossessione della capitale: si può ordinare di tutto, le macchine lasciano ossequiosamente la precedenza agli sciami di motorini rossi delle consegne. “Mubarak e i figli dovrebbero provare la prigione come la facevano provare loro agli egiziani, con tutto lo schifo e i patimenti e le privazioni”, è il mugugno comune, e si capisce la rabbia: anche nei quartieri della media borghesia gli androni e gli appartamenti affumicati hanno le loro battaglie con blatte e topi, viene da chiedersi in che condizioni versino le carceri dei prigionieri senza protettori altolocati. Per non mollare il potere la giunta militare sa bene che cosa deve fare, e cioè diabolicamente, dolcemente un bel nulla. La rivoluzione è stata uno sforzo straordinario che ha consumato le migliori energie del paese, un movimento eccezionale dal basso verso l’alto che però, come tutte le traiettorie di questo segno, prima o poi ricade. Basta leggere sul Los Angeles Times il bel reportage sulla vita frenetica degli attivisti che cercano di mantenere in vita lo spirito di gennaio, e saltano da una riunione a un comitato a una protesta e dormono in macchina, con la pressione di dover fronteggiare organizzazioni potenti e ramificate da decenni, sospesi a metà tra un litigio con mogli esasperate e un altro con l’amico oltranzista pronto subito a evocare il “tradimento degli ideali”. Vita d’inferno. Per contro, basta osservare come i generali si sono sbarazzati senza fare nulla di al Jazeera, il canale satellitare del Qatar diventato campione della primavera araba. Hanno chiuso l’ufficio permanente nel paese e hanno rispedito a casa lo staff dicendo che manca l’apposita licenza per poter trasmettere in diretta che tutti devono richiedere al ministero dell’Informazione: quelli hanno risposto di averla chiesta subito a febbraio e di avere aspettato per mesi anche soltanto un cenno. Troppo tardi. Una settimana prima della cacciata, tanto per dare una spintarella verso l’aeroporto, le forze di sicurezza hanno perquisito gli studi. Dopo un periodo forzato d’intervallo, al Jazeera Egitto ha ripreso a trasmettere dalla casa madre, a Doha capitale del Qatar. La rete che ha fregato il rais non fregherà i suoi militari (al Jazeera è ancora presente in Egitto con alcuni inviati). E’ un raccordo perfetto con la linea Mubarak, che non accordò mai alle 200 reti satellitari private dell’Egitto il permesso di trasmettere in diretta. Naguib Sawiris, il tycoon delle telecomunicazioni copto che ha lanciato un’alleanza politica laica per sfidare i Fratelli musulmani alle elezioni, ha osservato tutto, ha preso nota e ha fatto la sua contromossa: lancerà un proprio canale satellitare, anche lui dal Qatar, lontano dalla giurisdizione a sabbie mobili dei generali. E non basta ora che il feldmaresciallo Tantawi smetta la divisa militare, indossi per una sera un completo elegante giacca e cravatta e faccia un giro in città, come ha fatto due giorni fa, tra nugoli di cittadini che gli stringevano la mano, e lui a sorridere come a dire: “Vedete? Sono anche io di questa terra, poveri mortali, non abbiate paura. Ma soltanto per qualche minuto”. Il video ha fatto subito il giro dei media egiziani, ma Sherine Tadros, l’inviata di al Jazeera, giura di avere testimoni che dicono si tratti di un video risalente a tre anni fa. Chi ha preso alla lettera la strategia controrivoluzionaria del non fare nulla, tanto gli egiziani torneranno in ginocchio a chiedere di noi, è la polizia, che in questi mesi fa la parte della Grande Offesa. L’ex onnipotente polizia, che secondo alcuni dispacci preoccupati dell’alleato americano risolveva in meno di un giorno i casi di omicidio appendendo per le braccia nelle questure i maschi di caseggiati interi. “Ora gli ufficiali hanno un atteggiamento che sfiora l’ammutinamento”, dice al quotidiano al Masri al Youm, Egitto oggi, il colonnello Mohammed Mahfouz, che dal 2009 ha lasciato il corpo per promuovere meglio una riforma interna mai arrivata. Altri ufficiali che preferiscono restare anonimi spiegano che la maggior parte della polizia resiste al cambiamento e in molti casi si vendica della propria caduta dal potere rifiutando di fare il proprio lavoro. Spiega ancora Mahfouz che il pensiero corrente è: “‘Agli egiziani deve essere impartita una lezione dura, prima che tornino nelle strade’. Vogliono che la popolazione soffra senza più i controlli di prima, così che tutti realizzino che il prestigio dello stato è una linea rossa che non deve essere mai oltrepassata”. La scelta deliberata del caos sta funzionando: secondo le statistiche del ministero dell’Interno, le rapine a mano armata a gennaio sono state 36 e a luglio 420; gli omicidi sono passati da 44 a 166; i rapimenti da tre a 42. Un milione di agenti delle forze di sicurezza è quasi in sciopero bianco. Al Cairo se ne stanno infilati in una tenuta scura che a queste latitudini sotto il sole va bene per finire al cartoccio, in certi angoli del centro, assiepati in gruppi inutili che si dividono la poca ombra che c’è. Sonnecchiano con gli occhi chiusi, qualcuno su sedie di plastica, altri con la testa fra le mani e il kalashnikov in grembo, con gli occhi ridotti a fessure come gatti troppo vicini al calore. Il culmine è stato toccato in una città quattrocento chilometri a sud della capitale, e in Egitto più ti sposti a sud e più ti stai allontanando dalla costa cosmopolita, ospitale e faro del mondo arabo e ti stai infilando nell’Africa. Ad Abu Teeg, una banda di rapinatori è evasa approfittando della rivoluzione e nei quattro mesi successivi ha ucciso sette persone e assaltato selvaggiamente i negozi. Ora viene fuori che, secondo due dei sette ufficiali di polizia che partecipavano alle riunioni con il comandante delle forze di sicurezza, la linea di azione era: non fare assolutamente nulla. “La gente ha voluto la rivoluzione, lasciate che assaggino un po’ il gusto di questa loro rivoluzione”, diceva il comandante. In grande, “lasciate che il mondo assaggi il gusto della rivoluzione” potrebbe essere lo slogan del piano di attrito scelto dal Supremo consiglio. L’applicazione di più straordinario successo arriva il pomeriggio di venerdì 9 settembre, quando i tifosi dell’Ahly, una delle due grandi squadre del Cairo (appena eliminata dalla Champions League africana), assaltano l’appartamento al diciottesimo piano che svolge le funzioni di ambasciata d’Israele nel quartiere di Giza. Davanti all’assalto dei fanatici, tutti gli abitanti del palazzo rivivono sulla pelle “Al Safara fil Emara” del 2005, uno dei più fragorosi successi comici del cinema egiziano, “L’ambasciata nell’appartamento”: un ingegnere lascivo e con la faccia grottesca di Adel Imam, stella delle risate nel mondo arabo, torna in patria per scoprire che nell’appartamento vicino s’è sistemata l’ambasciata di Israele. Segue vita d’inferno: le ragazze squillo da lui chiamate sono bloccate e perquisite dai servizi segreti israeliani, terroristi maldestri fanno esplodere il suo appartamento invece di quello accanto, e così via. Il 9 la farsa si ripete in tragedia: i tifosi bersagliano la facciata dell’edificio, abbattono il muro di protezione, assaltano l’ambasciata, fanno irruzione dentro, per un soffio non uccidono gli occupanti, che sono portati via dai commando egiziani intervenuti all’ultimo momento. E’ la controrivoluzione del non fare nulla: Tantawi durante la crisi osserva gli avvenimenti in diretta sul televisore e non si fa trovare al telefono per due ore: l’ambasciatrice americana, Anne Patterson, una donna di ferro arrivata dalla missione diplomatica in Pakistan, chiama invano. Sembra di leggerlo, il pensiero nella testa dei governi e delle cancellerie del mondo il giorno dopo: meglio una Giunta militare che s’occupi di mantenere l’ordine con le cattive che quest’anarchia, che queste orde di hooligan con in mano una mazza e nell’altra il Corano. Il ragionamento è: “Better bad press than a good eulogy”, come ha detto con parole immortali Bibi Netanyahu al Palazzo di Vetro: meglio le critiche cattive sui giornali che un buon elogio funebre. Vale anche per l’Egitto, il professor costituzionalista al Bishri non fa paura come la folla. Tre giorni dopo l’attacco a Giza, il governo ha annunciato che la Legge d’emergenza non scade al finire dei sei mesi costituzionali e anzi è estesa di un anno. Tuttavia, che si sia trattato di un bluff ben giocato è stato chiaro tre giorni fa, quando il ministro dell’Interno ha detto che cosa succederà se i manifestanti tenteranno similmente di dare l’assalto ai palazzi del governo: “Per proteggere le istituzioni, ho dato ordine ai soldati di sparare”.
Per inviare la propria opinione al Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante