Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
La storia di David Gerbi, ebreo italiano tornato in Libia dopo la caduta di Gheddafi Cronaca di Davide Frattini
Testata: Corriere della Sera Data: 27 settembre 2011 Pagina: 17 Autore: Davide Frattini Titolo: «David, ebreo italiano e ribelle libico»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/09/2011, a pag. 17, l'articolo di Davide Frattini dal titolo "David, ebreo italiano e ribelle libico".
David Gerbi
TRIPOLI — Quando scende dall'appartamento al primo piano su corso Vittorio Emanuele — che adesso i libici chiamano shara Istiqlal, via dell'Indipendenza — insegue la memoria e i profumi per ritrovare la piccola pasticceria dove da bambino non superava con gli occhi il bancone all'italiana. Ordina la rosata, il latte di mandorle fresche, con i dolcetti da inzuppare dentro. Sorride per il sapore e i ricordi: David Gerbi è tornato a casa.
La famiglia è fuggita a Roma nel 1967, sfrattata dalla rabbia araba per la sconfitta nella guerra dei Sei giorni contro Israele. Erano tra gli ultimi ebrei rimasti a Tripoli, ridotti a cinquemila dai trentottomila del 1948. L'esilio è stato sigillato due anni dopo dal dispotismo di Muammar Gheddafi, che ha confiscato tutte le proprietà e vietato ai profughi di ritornare. La rivoluzione di febbraio ha aperto il confine con l'Egitto e cancellato quel bando. A maggio David è arrivato a Bengasi e si è presentato negli ospedali della città: psicanalista junghiano, ha aiutato i combattenti e i civili ad affrontare i traumi della guerra. «Ho dovuto superare l'odio e la diffidenza verso gli ebrei instillati da quarantadue anni di propaganda del Colonnello — racconta —. Aveva convinto i libici che noi li abbiamo abbandonati, che abbiamo scelto di andarcene per avere una vita migliore in Israele».
Gerbi, 56 anni, è venuto di nuovo a Bengasi in luglio e a metà agosto ha raggiunto attraverso la Tunisia il nuovo fronte della rivolta, quelle montagne di Nefusa da dov'è partita l'ultima offensiva per la conquista di Tripoli. È stato accolto dalla tribù Amazigh, la minoranza oppressa da Gheddafi: il leader deposto considerava l'insegnamento della lingua e della cultura berbere una dannazione per il Paese. Con loro è risalito verso il mare e con loro è entrato nella capitale, un'avanzata sui pick-up armati di mitragliatrici che gli ha garantito il rispetto e il soprannome di udai ugrauli, l'ebreo rivoluzionario. «Ero già stato a Tripoli, in due missioni concordate con il regime. Nel 2007 sono arrivato per cominciare i lavori di restauro della sinagoga Sla Dar Bish. Invece sono stato arrestato, torturato e rispedito indietro. Ormai al dittatore non servivo più, mi ha sfruttato per favorire la riapertura dei rapporti diplomatici con l'Occidente. Adesso sono l'unico ebreo in Libia e sono qui da uomo libero».
Il palazzo della Galleria de Bono, l'intonaco bianco che vien giù, è circondato dalle impalcature. Dopo aver ridistribuito gli appartamenti delle famiglie ebree, Gheddafi ha cacciato gli inquilini e voleva costruirci un centro commerciale di lusso. Il balcone guarda verso il porto e la piazza dei Martiri, dove ogni notte si festeggia la rivoluzione. «Ho preso due pezzi di pietra da questo terrazzo, li tengo sempre con me. A Jado, nel sudovest del Paese, ho recuperato i frammenti di una lapide con le iscrizioni in ebraico. La memoria da rimettere insieme».
David tira fuori la lettera che si porta dietro da quando è cominciato questo viaggio di ritorno. Scritta in ebraico, italiano, inglese, è firmata da Meir Kahlon, il presidente dell'organizzazione mondiale degli ebrei di Libia. È israeliano e la sede è a Gerusalemme, come ricorda l'intestazione del messaggio, il nome e l'indirizzo che Gerbi non ha voluto nascondere. I rapporti con Israele sono ancora tabù, anche per il nuovo governo libico. Al punto da dover smentire Bernard-Henri Lévy, che pure è stato il promotore intellettuale della guerra Nato contro il Colonnello, quando ha annunciato che il Consiglio nazionale di transizione avrebbe stabilito relazioni con lo Stato ebraico.
Il sostegno fin dalle prime settimane della rivoluzione, la franchezza e l'arabo che ancora parla hanno permesso a David di avvicinarsi a Salem Gnan, uno degli assistenti, e a ottenere due incontri con il presidente Mustafa Abdul Jalil. «Fadel Hshad, un amico che mi ha aiutato nei contatti, me lo aveva descritto come l'uomo capace di unificare le anime della Libia. Ed è proprio così». I nuovi leader sono pronti ad accettare Gerbi nel Consiglio come rappresentante degli ebrei, hanno anche parlato di un ruolo da ministro. «Ho già partecipato alle loro riunioni, ho visto quasi tutti e ricevuto il loro appoggio. Per la nomina ufficiale stanno aspettando la fine degli scontri, la caduta di Sirte e Bani Walid. Al quel punto il Paese non sarà più spaccato in due dal conflitto. Come primo passo voglio ottenere il passaporto libico per gli ebrei, ripulire la sinagoga e riconsacrare i cimiteri, che Gheddafi ha coperto con l'asfalto e i palazzi».
Gli abitanti della Medina raccontano che quei due fori là in alto sono stati scavati dai proiettili di kalashnikov sparati dal Colonnello in persona. Ha preso la mira e centrato i Dieci comandamenti incisi in ebraico sopra al portale della sinagoga Sla Dar Bishi, dopo averne fatto murare l'ingresso. La spazzatura invade il pulpito, le case dell'antico quartiere crollano attorno. «Il consigliere Mustafa El Huni mi ha promesso che verrà a sistemarla con me. Ha detto: so che faresti lo stesso per la mia moschea».
Il soldato indossa la mimetica regalata dal Qatar, pattuglia la zona ed è meno amichevole. Chiede a Gerbi da dove venga («sono un ebreo, nato a Tripoli»), indaga dove abitasse («alla Galleria de Bono») e quando se ne ritornerà a casa. «Io sono a casa — risponde David — non me ne vado».
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