Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 23/09/2011, a pag. 21, l'articolo di Aldo Baquis dal titolo " Il discorso di Obama dettato da Israele ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Il sogno di Abu Mazen all’Onu e l’eredità irrisolta di Arafat ". Da NOTIZIE RADICALI, l'articolo di Alessandro Litta Modignani dal titolo " I tanti fraintendimenti dell’opinione pubblica europea. Israele-Palestina, la Grande Dispercezione ". Dal GIORNALE, a pag. 18, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " La débâcle palestinese umilia ancora Obama" . Pubblichiamo il lancio ADNKRONOS dal titolo " M. O. : De Magistris firma appello per riconoscimento Palestina presso Onu ".
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Aldo Baquis : " Il discorso di Obama dettato da Israele "
Abu Mazen con Barack Obama
«All’Onu Obama parlava in ebraico, il suo discorso era stato scritto da Netanyahu»: queste le amare sensazioni che ieri hanno sospinto centinaia di «indignados» nelle strade di Ramallah, fra la Muqata di Abu Mazen e Piazza Arafat: dove, una volta radunati, hanno dato alle fiamme una bandiera degli Stati Uniti e un poster del presidente americano. Sul Web, nel sito della Terza Intifada, si preconizza per oggi in Cisgiordania una ondata potente di collera popolare: cortei di protesta potrebbero cercare di sfondare i valichi militari a Sud e a Nord di Gerusalemme. Possibili disordini anche sulla Spianata delle Moschee in quello preannunciato come il «Venerdì della Palestina». L’esercito di Israele mantiene lo stato di massima allerta. Intanto un accorato appello a Netanyahu affinché, oggi all’Onu, offra un riconoscimento condizionato della Palestina è stato lanciato dalla nuova leader laburista, Shelly Yehimovic (51 anni): un’ex giornalista radicale, vicina al movimento di protesta sociale dei giovani: «Non vogliamo un “processo di pace”, vogliamo la pace», ha detto.
Il FOGLIO - " Il sogno di Abu Mazen all’Onu e l’eredità irrisolta di Arafat "
Abu Mazen con Yasser Arafat
New York. Superati tre strati di poliziotti, aggirate le transenne, attraversata la strada alcune volte avanti e indietro senza una logica apparente, buttato un occhio sugli attivisti tibetani che gridano “China shit!”, urtati decine di delegati con blackberry nel fodero e tesserino azzurro si accede finalmente al luogo dove folle svogliate aspettano che qualcosa spezzi la rigidità protocollare dell’Assemblea generale dell’Onu. I consigli di lettura di Hugo Chávez e il caravanserraglio di Gheddafi sono diversivi del passato e persino Mahmoud Ahmadinejad è venuto a noia. Il presidente iraniano, che non manca di senso della comunicazione, alla cena con gli studenti della Columbia di mercoledì s’è trovato costretto a parlare della candidatura palestinese (leggi: dell’odiato arabo) pur di finire nei titoli dei giornali: “La Palestina un giorno sarà liberata”, ha detto.
Nell’intervista con Nicholas Kristof del New York Times ha avuto addirittura l’ardire di sorridere. Il fatto è che ai presenzialisti folli che arrivano, minacciano di cancellare l’occidente dalle carte geografiche e tornano a casa il Palazzo di Vetro ci ha fatto il callo, e così tutti si trovano ad aspettare Abu Mazen, languido dominatore delle giornate onusiane che non strepita quando Barack Obama dice dal podio che le aspirazioni palestinesi sono legittime e condivisibili, ma la candidatiura alla “full membership” dell’Onu non è cosa. Si limita ad appoggiare la guancia cadente sulla mano con un gesto più vicino alla rassegnazione che al contrattacco.
Per quello ci sono le porte chiuse degli incontri a margine, c’è il dialogo franco con Obama nelle sale del Waldorf Astoria, blindatissimo hotel di Manhattan dove i capi di stato discutono al riparo dalle regole della retorica onusiana, c’è il registro dell’ambiguità, il preferito dal leader dell’Anp. Se tutti nella sede dell’Onu aspettano Abu Mazen non è soltanto per vedere come andrà a finire la disputa sullo stato palestinese che offende gli israeliani, allerta gli americani e mette in confusione gli europei (la confusione è direttamente proporzionale alla convinzione messa nel sostenere gli insorti della primavera araba); è un fatto di simboli e immaginazione, di un passato che riemerge dalle sabbie del tempo e torna a fare visita nel più cavernoso e ambiguo dei consessi internazionali. Per Abu Mazen il confronto con Yasser Arafat è sostegno e zavorra; c’è chi, come il New York Times, vede nella richiesta palestinese di entrare di diritto nel novero degli stati il primo atto del parricidio, l’inizio della liberazione di Abu Mazen dal cono d’ombra del mentore, da quel nome evocativo che ha scelto per il suo secondogenito; è sepoltura della kefiah e la resurrezione della cravatta, la dismissione dopo sette anni del repertorio di immagini che identificavano senza equivoci un modo d’intendere l’identità palestinese.
C’è invece chi dice sia soltanto un maquillage, un gioco delle parti in cui Abu Mazen si muove con la furbizia del serpente, un mentitore chic che s’aggira per New York con gli abiti della gente perbene. Chi martedì è stato al cocktail party a dir poco esclusivo alla Morgan Library racconta che Abu Mazen se ne stava in disparte, quasi ostentando disinteresse per le chiacchiere innaffiate dallo champagne. Un inviato delle Nazioni Unite ha provato invano a sondare la sua agenda, ché il Quartetto per il medio oriente lavora giorno e notte per convincerlo a ritirare la candidatura e tornare ai negoziati diretti: “Non sono felice con nessuno, né con gli americani né con gli arabi. Ne ho abbastanza di tutta questa gente e non ho idea di cosa farò una volta tornato a casa”. Già, perché a casa non sarebbe accolto da uno sventolare di palme giubilanti, quanto dalla rabbia di chi è certo che anche un’eventuale vittoria onusiana frutterebbe soltanto concessioni marginali.
Soprattutto teme di poter essere accolto dallo schiacciante paragone con Arafat, l’uomo che nel 1974 si presentò all’Assemblea generale con la “pistola dei combattenti della libertà” nel fodero – la statua della pistola con la canna annodata all’ingreso non c’era ancora – e il ramoscello d’ulivo in mano. Era l’ispirazione retorica per chiudere con una nota minacciosa il grande discorso dal podio del mondo: “Non lasciate che il ramoscello d’ulivo cada dalle mie mani. Lo ripeto: non lasciate che il ramoscello d’ulivo cada dalle mie mani”. Una settimana dopo il discorso, l’Onu ha proclamato la Palestina “entità osservatrice”; con lo stesso appellativo, entità, Arafat si rivolgeva allo stato d’Israele – proclamato dalla stessa autorità a cui lui chiedeva riconoscimento – quintessenza del “razzismo” appoggiato dagli imperialisti americani. Con orgoglio Arafat diceva che l’invito ai palestinesi “indica che le Nazioni Unite di oggi non sono le Nazioni Unite del passato”, e in effetti ogni mese una risoluzione del Palazzo di Vetro condannava Israele per qualche crimine, secondo un pregiudizio anti israeliano mai sopito nei corridoi della sede onusiana.
Ma era anche l’Arafat accorto e sottile, quello che con una fin troppo facile captatio benevolentiae accostava il desiderio di autonomia palestinese alla ribellione di George Washington al giogo inglese. A quel podio Abu Mazen s’approccia con la forza politica della candidatura a stato membro ma anche gravato da tutto il peso di un’eredità irrisolta. “Non è giusto dire che Abu Mazen si stia smarcando dalla narrativa di Arafat”, dice l’analista di Chatham House, Nadim Shehadi, che ricorda quanto il rampollo educato in Unione sovietica abbia pesato sull’intera saga dominata dall’uniforme militare del leggendario leader dell’Olp. E dietro alla figura di Abu Mazen, a New York continua a muoversi la macchina di una diplomazia occidentale alla ricerca di un difficile compromesso.
L’attivismo di Cameron e Sarkozy nelle trattative del Quartetto vorrebbe riempire il vuoto lasciato dall’unilateralismo di Obama, ma sono gli stessi paesi europei a sperimentare divisioni interne. La coalizione inglese è spaccata fra l’aperturismo di Cameron alla candidatura palestinese e l’opposizione di Nick Clegg; e così il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, teme l’instabilità nell’area più di quanto appoggi le aspirazioni delle popolazioni arabe. A New York parlerà anche Benjamin Netanyahu, il premier israeliano che ha promesso di svelare “la verità” sulla situazione. Quale verità? “La solita – dice al Foglio Natasha Mozgovaya, che dirige l’ufficio di Washington del quotidiano Haaretz – cioè che Israele è pronto a tornare ai negoziati. Ma lo scopo è uscire dall’Assemblea generale dando l’impressione che la minaccia palestinese sia più grave di prima”.
NOTIZIE RADICALI - Alessandro Litta Modignani : " I tanti fraintendimenti dell’opinione pubblica europea. Israele-Palestina, la Grande Dispercezione"
Alessandro Litta Modignani
Mediamente, l’opinione pubblica europea ha del conflitto mediorientale una percezione distorta, dovuta alla scarsa conoscenza dei fatti storici e a un’informazione quasi sempre incompleta, deviante, quando non apertamente ostile. Per “opinione pubblica” non mi riferisco a quella parte più o meno dichiaratamente antisemita, cioè antiebraica, minoritaria e collocata prevalentemente (ma non esclusivamente) all’estrema destra; né all’altro segmento violentemente antisionista, cioè anti-israeliano, più numeroso e d’abitudine schierato a sinistra. Parlo invece di una vasta area di opinione pubblica “centrale”, moderata, meno connotata politicamente ma non per questo meno suggestionabile, condizionata da una serie di “convinzioni” ben radicate ma assolutamente sbagliate, “percezioni” apertamente false e tuttavia credute vere. Una serie di luoghi comuni di cui è facile dimostrare l’infondatezza e che però persistono tenacemente, con conseguenze politiche non secondarie, gravi e dannose soprattutto per Israele. Per cercare di smontare alcuni di questi luoghi comuni scrivo l’elenco qui di seguito, consapevole della limitatezza di questo tentativo. Spero con ciò di offrire un contributo a un’informazione più equilibrata e corretta, alla chiarezza e soprattutto alla verità.
Primo. La causa fondamentale del perdurare del conflitto in Medio Oriente è la mancata soluzione della “questione palestinese”. Falso. La vera causa del conflitto è rappresentato invece dalla “questione israeliana”, cioè dall’esistenza dello Stato di Israele, assolutamente intollerabile per larghissima parte del mondo arabo e musulmano. Per costoro l’offesa ai fratelli palestinesi è solo un pretesto, un tentativo di mascherare l’odio antico con una nobile causa, per cercare di far passare la cancellazione di Israele come la riparazione di un’ingiustizia. Se i paesi arabi avessero davvero a cuore la sorte dei palestinesi, non gli avrebbero sparato addosso per decenni, ovunque essi abbiano tentato di trovare rifugio: dall’Egitto alla Giordania, al Libano, alla Siria; non rifiuterebbero loro l’ingresso e il lavoro sul proprio suolo; non avrebbero occupato (loro, ben prima di Israele!) per quasi vent’anni anni, fra il 48 e il 67, il territorio che l’Onu aveva destinato allo Stato arabo di Palestina. Ma costituire quello Stato avrebbe significato per gli arabi prendere atto di conseguenza dell’esistenza di Israele, un fatto anche psicologicamente insopportabile. Ecco perché la soluzione della “questione palestinese” non potrà mai portare con sé la fine della guerra, come dimostra il tentativo di Abu Mazen di questi giorni. Per raggiungere la pace è necessaria invece una di queste due condizioni: o la cancellazione di Israele dalla carta geografica, oppure lo spegnimento (magari un poco alla volta) del fuoco dell’odio che arde nelle viscere del mondo arabo-musulmano. La stragrande maggioranza degli israeliani sogna di vivere finalmente in pace, fianco a fianco con i paesi arabi confinanti, mentre la stragrande maggioranza del mondo arabo considera questa condizione una tragedia e una resa. Questo è il problema: il “rifiuto della convivenza” da parte del mondo arabo-musulmano. La questione palestinese esiste, nessuno lo deve negare, poiché le condizioni di vita di quel popolo sono spesso drammatiche e miserevoli. Ma contrariamente a quello che pensano i distratti cittadini europei, la tragedia palestinese rappresenta un effetto e non la causa del conflitto mediorientale.
Secondo. Gli israeliani, oltre al territorio che spetta loro, chiamato Israele, occupano con la forza un’altra porzione di terra che si chiama “Palestina”. Sbagliato. Anche Israele “è” in Palestina, nel senso che risiede in quella parte della Palestina storica che le venne assegnata con una votazione dalle Nazioni Unite (caso di legittimazione pressoché unico al mondo) nel dicembre del ‘47. L’altra parte della Palestina, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state occupate, come si è detto, prima da Giordania ed Egitto e solo dopo da Israele, a seguito della Guerra dei Sei giorni (1967). L’intero Sinai, cioè circa l’80 per cento dei territori occupati nel ’67, è stato restituito da Israele all’Egitto in seguito al trattato di pace del ‘78, proprio in ottemperanza alle famose “risoluzioni Onu” del dicembre ’67, incentrate sullo scambio “peace for territories”. Nel corso della sua storia, Israele ha occupato e sgombrato per tre volte il Sinai, ma solo la terza volta in cambio di un trattato di pace. Le volte precedenti si è ritirato unilateralmente. Quindi, quando gli estremisti gridano in piazza “Palestina libera!”, bisogna capire bene cosa vogliono: non che gli israeliani si ritirino a casa loro in Israele, bensì che l’intera Palestina storica sia liberata del tutto e per sempre dalla presenza dello Stato ebraico. E’ questa la “pace” cui aspirano i “pacifisti” italiani. Ma la maggior parte degli europei ignora la spartizione Onu del dicembre ’47 e non capisce quanto sia violenta questa minaccia.
Terzo. Israele è uno Stato teocratico, riservato esclusivamente a chi pratica la religione ebraica. Assolutamente falso. Israele è il frutto del “sionismo”, cioè del processo risorgimentale del “popolo” ebraico, cioè ancora: del più grande tentativo di riforma e di laicizzazione dell’ebraismo mai tentato nella storia di questo popolo straordinario. Il sionismo nasce e si sviluppa nell’800, a mano a mano che gli ebrei riescono a emanciparsi e a uscire dai ghetti delle città europee. Il sionismo è sempre stato osteggiato dai rabbini tradizionalisti come una bestemmia e un allontanamento dal precetto biblico, perché la Terra di Israele secondo costoro sarebbe venuta solo con l’avvento del Messia. (I rabbini che hanno appoggiato il sionismo potrebbero essere equiparati, per intenderci, ai cattolici liberali nel Risorgimento italiano). Si tratta dunque di un processo al contempo laico e nazionale, che mira al recupero della Patria per il popolo ebraico, identificata là dove esso ha sempre mantenuto le sue radici storiche e culturali: in Palestina e a Gerusalemme. E’ un’aspirazione comune a tutti i popoli europei nell’800, che si è realizzata per gradi, attraverso alterne vicende, fino alla proclamazione dell’indipendenza, il 15 maggio del 1948. In Israele oggi vivono circa 1,8 milioni di cittadini arabi israeliani, per lo più musulmani, che hanno scuole, moschee, partiti, sindaci e parlamentari, varie cariche pubbliche, godendo di tutti i diritti civili fondamentali, sicuramente superiori a quelli di qualsiasi paese arabo (sono solo esentati dal servizio militare). Altro che “razzismo” e “ apartheid”. In Israele i religiosi sicuramente oggi sono un problema, nessuno può negarlo, per il loro fondamentalismo e la loro invadenza nella vita pubblica. E’ un conflitto aperto: una ragione in più per difendere Israele, la sua democrazia e la sua laicità, anche dai nemici interni oltre che da quelli di fuori. Israele è dunque lo Stato del “popolo” ebraico, non della “religione” ebraica, anche se gli europei mostrano spesso, per cattiva informazione, di non saper cogliere questa differenza.
Quarto. Israele è nato subito dopo la seconda guerra mondiale, come risarcimento al popolo ebraico per le sofferenze patite con la Shoah ad opera dei nazisti. Assolutamente sbagliato. Si tratta di un tipico “errore di percezione”: post hoc, propter hoc. Questa è la tesi che piace ai sostenitori della causa araba, che possono dire: ma che colpa hanno gli arabi nella Shoah? E’ la tesi che piace ad Ahmadinejad, che ha chiesto retoricamente: “ma allora, se è vero che sono stati uccisi 6 milioni di ebrei - cosa che io non credo affatto - perché gli europei non hanno assegnato agli ebrei un loro territorio, che so, la Galizia austriaca?” E’ vero invece che quel lungo processo risorgimentale nazionale, sopra descritto, ha avuto una spinta decisiva dopo la fine della guerra, quando si sono create le condizioni storiche, politiche, diplomatiche e militari per la proclamazione dell’indipendenza, preparata a lungo dai padri fondatori guidati da Ben Gurion. Nella guerra del 48-49 gli israeliani, pur essendo ancora soltanto una milizia di volontari, hanno avuto la meglio su 5 o 6 eserciti regolari, mandati dagli Stati arabi per soffocare sul nascere lo Stato ebraico. Allora il Gran Muftì di Gerusalemme, già alleato di Hitler, invitò gli arabi ad abbandonare in fretta le loro case, per consentire l’attacco. Sarebbero tornati di lì a poco, non appena gli ebrei fossero stati annientati. “Gli ebrei superstiti, se vorranno, potranno restare – disse l’amico di Hitler, stretto congiunto di Yasser Arafat – Non credo però che saranno in molti”. Invece, per la prima volta dopo duemila anni, gli ebrei israeliani hanno dimostrato di sapersi difendere. La tragedia palestinese nasce così, con quell’appello del Gran Muftì. Questa è la storia vera della “nakba”, che gli europei per lo più ignorano. Certo ci sono state eccessi, violenze, uccisioni, episodi tragici e dolorosissimi anche da parte israeliana. Quale guerra ne è immune? Perché negarlo? Infatti Israele non lo nega. Ne ha parlato ad esempio Benny Morris in “Vittime”, suscitando un grande dibattito in Israele. Ne parla Vittorio Dan Segre nel suo bel libro “Le metamorfosi di Israele”. Ben Gurion, dopo aver vinto la guerra, è riuscito a costringere i suoi estremisti alla resa. Occorre aggiungere però che nulla di ciò che è accaduto era veramente irreparabile, se solo ci fosse stata la volontà di pace, specie all’indomani di una tragedia mondiale di proporzioni infinitamente superiori, avendo per giunta a disposizione l’immensa ricchezza del petrolio. Invece la guerra è continuata per più di 60 anni e dura tuttora. Perché? L’Europa si interroghi su questo, invece di fare ingenuamente il “tifo” per il più debole.
Quinto. Israele era un paese democratico finché hanno governato i laburisti, ma adesso è degenerato in uno Stato autoritario, in mano alla destra militarista e guerrafondaia. Nulla di più falso e facilmente confutabile. Questa tesi è particolarmente cara alla sinistra moderata e democratica europea, sempre alla ricerca di un’identità ideale, in equilibrio fra i vecchi stereotipi e una patina di modernità. Tesi suffragata dal fatto che Rabin, dopo gli accordi di Oslo, è stato assassinato da un estremista di destra, finendo così fra gli israeliani “buoni” di sinistra, contrapposti ai “cattivi” di destra (ma quando Rabin era ministro della Difesa, durante la prima Intifada, non ne parlavano così bene; l’unico ebreo buono è dunque solo... quello morto?). Se guardiamo la pura cronaca dei fatti, Begin ha firmato la pace con l’Egitto, Shamir ha firmato la pace con la Giordania, Sharon ha sgombrato Gaza: tutti e tre capi del Likud. Proprio Ariel Sharon, il falco per eccellenza, ha dimostrato che gli uomini d’armi in Israele possono trasformarsi in fautori di pace. Egli ha sgombrato con la forza i coloni dalla striscia di Gaza, contraddicendo la politica di tutta la sua vita e pronunciando parole che nessuno avrebbe mai immaginato di poter udire. Questo ha saputo fare Sharon, da primo ministro di Israele. La risposta, da Gaza, è stata la vittoria di Hamas, l’uccisione e la cacciata degli uomini dell’Anp e uno stillicidio di missili sulle città israeliane del sud. E’ la pura cronaca dei fatti, che molti europei ignorano.
Questo elenco potrebbe continuare a lungo, ma preferisco fermarmi qui. Già solo questi cinque punti meriterebbero lunghi approfondimenti e discussioni interminabili. Mi rendo conto di non avere apportato, in questo scritto, alcun elemento di novità sostanziale nel dibattito sulla questione mediorientale, ma di avere solo tentato una sintesi molto limitata e parziale di alcuni punti controversi. Mi piace pensare però che non sia stato un lavoro inutile, se servirà a sfatare anche solo in parte alcuni pregiudizi che condizionano, secondo me negativamente, il dibattito su Israele e sulla sua difficile democrazia.
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " La débâcle palestinese umilia ancora Obama"
Barack Obama
La primavera araba rischia ora di trasformarsi nell’inverno di Obama. Da Jimmy Carter in poi mai l’America era caduta così in basso, mai aveva dovuto sopportare di venir snobbata da un leader palestinese. È successo mercoledì sera quando Mahmoud Abbas (in arte Abu Mazen) ha sdegnosamente rifiutato la richiesta americana di non sottoporre al Consiglio di Sicurezza la richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese. Il gran rifiuto si concretizzerà alle 12.30 di oggi quando il successore di Arafat si rivolgerà all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Da quel momento si chiuderà un’era. L’America riconosciuta per oltre 30 anni come l’indiscusso arbitro e il grande architetto della questione israelo-palestinese abdicherà mestamente al proprio ruolo. E non solo a quello. Minacciando il veto sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza che garantirebbe il pieno riconoscimento dello Stato palestinese, la Casa Bianca si trasforma automaticamente nel grande nemico del mondo arabo e islamico. A questo punto anche il sostegno offerto alle primavere arabe e lo spregiudicato abbandono di alleati come Hosni Mubarak valgono quanto un due di picche. Le piazze arabe e musulmane, già pronte a interpretare come arrendevolezza gli inviti al dialogo e lo smanioso sostegno offerto da Obama alle loro “rivoluzioni”, sono pronte a sottrarsi definitivamente all’influenza dell’ex grande potenza americana. Se non la temono i palestinesi perché dovrebbero preoccuparsene i fratelli musulmani egiziani, gli islamisti libici o le formazioni filoiraniane dell’Iraq? E soprattutto perché dovrebbero cercare la protezione di un alleato ormai così debole e inaffidabile quando possono scegliere tra quelle, assai più energiche e determinate, offerte, a seconda dei gusti, dal neo sultanato turco di Erdogan o dalla Repubblica Islamica iraniana?
La capitolazione davanti a Mahmoud Abbas e la minaccia di veto, oltre a cancellare l’autorità della potenza americana, ne erode ulteriormente la credibilità. Oltre a dimostrarsi incapace di piegare un leader ininfluente come Mahmoud Abbas, Obama deve anche rimangiarsi la promessa, formulata ad inizio mandato, di battersi per la nascita di uno Stato palestinese sui confini del 1967. Questa mesta debacle del presidente sul fronte mediorientale è solo la proiezione della sua debolezza interna. Stando ad un significativo sondaggio delle ultime ore Obama sta dilapidando persino i consensi di una comunità afroamericana flagellata da povertà e disoccupazione. I neri d’America pronti a tributargli il pieno consenso non sono oggi più del 58 per cento contro l’83 di qualche mese fa. In queste condizioni Obama non può certo rinunciare ad un voto delle comunità ebraiche fondamentale per l’ardua corsa alla rielezione del 2012. Anche riuscendo nella difficile impresa di restar in sella Obama non sarà più, comunque, il presidente di un’America in grado d’influenzare e determinare i destini mondiali. A farglielo immediatamente capire ci ha già pensato Nicolas Sarkozy. Subito dopo il gran rifiuto di Abbas il presidente francese ha proposto di far votare il riconoscimento dello Stato palestinese non al Consiglio di Sicurezza, ma all’Assemblea Generale. La procedura, meno vincolante, garantirebbe ai palestinesi un ruolo da osservatore simile a quello già occupato dallo Stato del Vaticano.
Ma lo sgambetto si nasconde nel passo successivo. Quello in cui lo spregiudicato Sarkozy si propone come nuovo arbitro mediorientale assicurando ad Abbas la ripartenza dei negoziati e il pieno riconoscimento dello Stato entro solo un anno dalla ripresa delle trattative. Una garanzia controbilanciata dalla promessa di trasformarsi nel grande protettore e alleato militare d’Israele. Come dire «s'il vous plait monsieur Obama il vostro tempo è scaduto per sempre».
ADNKRONOS - " M. O. : De Magistris firma appello per riconoscimento Palestina presso Onu "
Luigi De Magistris
Napoli, 22 set. - (Adnkronos) - «Non posso che sostenere la
richiesta che l'Autorità Nazionale Palestinese rivolge all'Onu
perché la Palestina sia riconosciuta come 194° stato membro delle
Nazioni Unite». Lo afferma in una nota il sindaco di Napoli Luigi de
Magistris, che ha sottoscritto l'appello della Campagna nazionale
palestinese 'Palestina: lo Stato n. 194'.
«Si tratta infatti - continua il sindaco di Napoli - di una
richiesta legittima che l'Italia deve sostenere nel contesto
dell'Assemblea Generale perché risponde ad un diritto insopprimibile
dei popoli: quello all'autodeterminazione e al riconoscimento della
propria dignità".
"Soddisfare questa richiesta da parte della comunità
internazionale, rappresentata dalle Nazioni Unite, sarebbe anche un
importante tassello posizionato per lastricare la difficile strada
della pace in Medioriente, che porti alla convivenza fra il popolo
palestinese e quello israeliano in un contesto di sicurezza e rispetto
dei diritti, come questi stessi popoli meritano dopo decenni di
sofferenza», conclude de Magistris.
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